Esiste ed è abbastanza diffusa una concezione secondo cui l’uomo è un animale essenzialmente ed interamente storico-sociale. Il problema della natura umana, di cosa sia l’uomo sarebbe da questo punto di vista un falso problema. L’uomo si risolve integralmente nella storia e nella società. Non esiste l’uomo, esistono il russo e l'inglese, il borghese o il proletario. L’uomo è l’espressione dell’ambiente storico sociale che lo ha prodotto, si esca da questo e restano solo vuote astrazioni.
Chi
si oppone a questa concezione rischia a sua volta di cadere in forme
inaccettabili di naturalismo. Allo storicismo ed al contestualismo
vengono opposte forme altrettanto dogmatiche di determinismo
genetico.
In
realtà chi rifiuta la concezione secondo cui tutto è cultura e
società non sostiene necessariamente che tutto sia determinato dal
patrimonio genetico. Cos’è l’uomo, cosa la natura umana è un
problema che non può essere risolto molto facilmente, è un tipico
problema aperto, a cui possono darsi risposte sempre nuove che hanno
però la particolarità di non smentire mai totalmente le risposte
vecchie. Oggi nessuno sosterrebbe che la definizione aristotelica di
uomo come “animale razionale” esaurisca tutte le caratteristiche
della natura umana, questo però non elimina il fondamentale
frammento di verità che è contenuto in quella definizione.
Per
Aristotele l’uomo è un animale razionale, per Agostino un essere
decaduto cui però la grazia divina può permettere il riscatto, per
Pascal è una canna, ma una canna che pensa, per Kant un essere
capace di autodeterminarsi, per molti genetisti la natura umana si
risolve (quasi?) interamente nel patrimonio genetico (e questo non
conduce necessariamente al determinismo). E’ difficile trovare una
risposta definitiva ed esaustiva al problema, nessuna definizione,
per quanto elaborata può riassumere in una formula ciò che noi
siamo.
Chi
dice che non tutto nell’uomo è cultura, che non siamo determinati
dal quadro socio culturale in cui viviamo non sostiene quindi una
particolare concezione della natura umana. Non sostiene ad esempio, o
almeno non sostiene necessariamente, che tutto in noi sia patrimonio
genetico (potrebbe anche essere così del resto), né che la natura
umana sia “immutabile”. Sostiene una cosa del tutto diversa:
quale che sia la natura umana essa non è riconducibile in toto
all’ambiente sociale, alla storia, alla cultura. Se così fosse
resterebbe inesplicabile il fatto che l’uomo è capace di costruire
ambienti sociali, fa la storia oltre ad esserne influenzato, crea le
culture che poi lo condizionano. La natura umana è quel residuo
che fa dell’uomo qualcosa di diverso dall'italiano e dal cinese,
dal borghese e dal proletario, dal maschio e dalla femmina, dal nero
e dal bianco. E’ il nostro essere genericamente membri del genere
umano, persone, individui. Solo un residuo quindi, un “piccolo”
residuo? Si, ma di immensa importanza.
Bisogna riconoscerlo francamente: molti aspetti della nostra natura sono francamente spaventosi. Unico animale in grado di elaborare i concetti di bene e di male l’uomo è capace di forme mostruose di violenza. Per fortuna è anche capace di reagire ad essa, di cercare quanto meno di circoscriverla. Da sempre c’è chi si è posto il problema di come controllare, ridurre ed infine bandire totalmente la violenza dalle relazioni umane. Su questo argomento ci sono state, com’è ovvio, una miriade di diverse prese di posizione che è assai difficile ridurre a comuni denominatori, tuttavia, pur tenendo conto di tutte le differenze possono individuarsi due principali filoni di pensiero cui molti altri sono riconducibili.
Bisogna riconoscerlo francamente: molti aspetti della nostra natura sono francamente spaventosi. Unico animale in grado di elaborare i concetti di bene e di male l’uomo è capace di forme mostruose di violenza. Per fortuna è anche capace di reagire ad essa, di cercare quanto meno di circoscriverla. Da sempre c’è chi si è posto il problema di come controllare, ridurre ed infine bandire totalmente la violenza dalle relazioni umane. Su questo argomento ci sono state, com’è ovvio, una miriade di diverse prese di posizione che è assai difficile ridurre a comuni denominatori, tuttavia, pur tenendo conto di tutte le differenze possono individuarsi due principali filoni di pensiero cui molti altri sono riconducibili.
Il
primo potremmo definirlo “riformista”. Occorre cercare di
controllare la violenza favorendo lo sviluppo delle libertà
individuali, della democrazia politica, del benessere e della cultura
e intervenendo efficacemente contro il crimine quando questo si
manifesta. Questa concezione mira a ridurre e a controllare la
violenza, non ad eliminarla. Non si propone la costruzione di una
società in cui la violenza non possa in alcun modo manifestarsi ma
mira a gestire l’imperfezione, non vuole rifondare la natura umana
ma solo controllarne e cercare di neutralizzarne gli aspetti
distruttivi. Si tratta, com’è evidente, di una concezione liberale
o socialdemocratica. In questa la perfezione può essere oggetto di
speranza, non di programma politico.
Possiamo
invece definire “rivoluzionario” un secondo filone di pensiero.
Secondo questo non basta controllare la violenza, bisogna estirparla.
In una società davvero “buona” la violenza non può neppure
manifestarsi, è, letteralmente “impossibile”. Un obiettivo così
radicale può essere raggiunto solo se con la società cambia in
maniera totale la natura umana. Una società ed un tipo umano del
tutto nuovi devono sostituire quelli vecchi. La concezione
riformista, tutta centrata sul contenimento della violenza, non solo
non risolve i problemi ma diventa di fatto il puntello di una società
decadente. Cerca di correggere i vizi del vecchio mondo prolungandone
in questo modo l’esistenza.
Queste
due diverse concezioni non riguardano, com’è ovvio solo il
problema della violenza.
L’antitesi
fra concezione riformista e concezione rivoluzionaria tocca tutte le
problematiche umane, dai rapporti fra gli uomini, al rapporto uomo -
natura. La società umana avrà sempre dei difetti o è possibile una
società perfetta? Esisteranno sempre delle differenze ed anche dei
contrasti di interessi, valori, aspirazioni fra gli esseri umani ed
esisterà sempre di conseguenza la necessità della mediazione
politica? Oppure tutti gli esseri umani finiranno per avere valori,
fini, interessi ed aspirazioni comuni? La politica e con essa lo
stato sono destinati a deperire o costituiscono una costante delle
società umane? Sarà sempre necessario il lavoro inteso come fatica,
sforzo da compiere per ottenere dei benefici o l’unico lavoro che
un giorno gli esseri umani faranno sarà il lavoro creativo, il
lavoro-gioco, fine e non mezzo? E’ possibile la conciliazione fra
uomo e natura o la natura serberà sempre delle insidie per l’uomo
e, di converso, l’azione umana avrà sempre sulla natura un impatto
almeno potenzialmente pericoloso? Insomma, avremo sempre dei problemi
da risolvere, uno ad uno, con rigore ideale ma anche con
una buona dose di realismo, oppure raggiungeremo un armonico
equilibrio in cui tutte le nostre esigenze saranno soddisfatte una
volta per sempre? Su tutti questi problemi la concezione riformista e
quella rivoluzionaria divergono radicalmente. Il riformista si sforza
di dare buone soluzioni ai problemi che via via si pongono; cerca di
rendere meno duro il lavoro, di evitare il degrado ambientale, di
costruire una buona politica, il rivoluzionario considera vani e alla
lunga pericolosi simili sforzi.
La
filosofia politica di Karl Marx rappresenta una delle più ampie e
profonde, forse la più ampia e profonda manifestazione del
secondo filone di pensiero.
Da
buon seguace di Hegel Marx ha una concezione finalistica del divenire
storico. La società di classe, soprattutto nella sua forma
capitalistica, ha radicalmente corrotto la natura umana. L’uomo che
vive nella società borghese moderna è un uomo alienato, un uomo che
ha fuori e contro di se la sua umanità. Sia il borghese che
l’operaio incarnano, da opposti punti di vista, la stessa umana
alienazione. L’operaio è un uomo ridotto ad uno stato semi
animale, con desideri e fini che non superano il livello della mera
animalità, il borghese è il simbolo stesso della cupidigia e dello
sfruttamento: pur sguazzando nell’abbondanza egli è ancora più
meschino e miserabile dell’operaio che sfrutta. Ma l’operaio può,
o meglio, deve rovesciare a società che lo opprime. Deve farlo
perché la soddisfazione dei suoi bisogni di oggi, i bisogni di un
essere alienato e miserabile, è incompatibile con il sistema
capitalistico. Nelle rivendicazioni operaie non c’è nulla di
realmente comunista: chiedere più salario o meno orario non modifica
nella sostanza il meccanismo sociale fondato sulla compra vendita
della forza lavoro. Ma il sistema non può reggere l’impatto delle
lotte operaie, esso va incontro a crisi economiche sempre più gravi
ed è per questo destinato a crollare. Il capitalismo sarà
sostituito dal comunismo, alla fase della alienazione seguirà la
fase della riunificazione. L’uomo ritroverà la sua umanità
smarrita, natura umana e società subiranno la più radicale
trasformazione di tutti i tempi. Nella accezione marxiana il
comunismo è un rovesciamento totale di uomo, natura e società. Il
comunismo non si identifica con lo stato giusto ma con la abolizione
dello stato, non persegue una economia efficiente ma la fine
dell’economia, non rivendica un lavoro ben retribuito ma la fine
del lavoro inteso come strumento per procacciarsi da vivere, non
vuole controllare e reprimere la violenza, vuole eliminarla, renderla
impossibile. Col comunismo l’uomo esce dalla preistoria ed entra
nella storia, diventa, per la prima volta, realmente ed integralmente
umano.
Lasciamo
la parola a Marx: “Il comunismo come soppressione positiva della
proprietà privata intesa come autoestraneazione dell’uomo, e
quindi come reale appropriazione dell’essenza dell’uomo mediante
l’uomo (…) questo comunismo s’identifica, in quanto naturalismo
giunto al proprio compimento con l’umanismo, in quanto umanismo
giunto al proprio compimento, col naturalismo; è la vera soluzione
dell’antagonismo fra natura e uomo, tra l’uomo e l’uomo, la
vera risoluzione della contesa fra l’esistenza e l’essenza, (..)
la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie, è la
soluzione dell’enigma della storia” (1).
C’è
poco da commentare: la storia giunge al suo termine rovesciandosi,
l’uomo recupera la sua essenza diventando integralmente altro
rispetto all’essere miserabile che è stato per millenni. Di fronte a
tanta sfavillante bellezza la prospettiva riformista appare insipida,
grigia, triste.
La
concezione marxiana contiene (fra le altre) una contraddizione
particolarmente grave, che la sua bellezza ipnotica può nascondere
ma non cancellare. Se l’uomo è un essere meschino ed alienato come
può rovesciare la società esistente? Marx risolve integralmente
l’uomo nei rapporti sociali ma se in ogni epoca l’uomo è
l’espressione dei rapporti sociali dominanti come può andare oltre
questi rapporti? Come può l’uomo alienato ritrovare la sua essenza
perduta se ha desideri, aspirazioni, valori da, appunto, alienato?
Alcuni
marxisti del ‘900, Korsch in particolare, hanno cercato di
risolvere a livello teorico la contraddizione di cui si è detto. Il
marxismo non è un determinismo affermano costoro. L’uomo è
condizionato dal quadro sociale ma lo modifica a sua volta con la sua
azione e la sua volontà. In questo potevano trovare puntelli nella
stessa opera di Marx che in varie occasioni aveva affermato che nella
prassi rivoluzionaria la modificazione delle circostanze coincide con
l’automodificazione delle coscienze.
La
soluzione però era più apparente che reale. A parte il fatto che Marx ripete fino alla noia che è l'essere sociale a determinare la coscienza, a parte questo decisivo "particolare", è vero che
l’uomo può modificare l’ambiente in cui vive e modificare in
questo modo se stesso, ma la automodifica dell’uomo parte sempre e
comunque dalla natura umana. L’uomo modifica se stesso a partire da
quello che è, può cambiarsi ma non trascendersi, modificare questo
o quell’aspetto, non la totalità della sua natura, può favorire
certe pulsioni e controllarne altre, può imporsi regole di condotta,
ma non può uscire da sé stesso, diventare totalmente ed
integralmente nuovo. Considerazioni simili possono essere fatte se si
considerano la natura extraumana e la società. L’uomo può
cambiare il mondo che lo circonda ma può farlo solo se
conosce e rispetta le leggi fondamentali che presiedono al suo
funzionamento. Si può cambiare una parte del mondo facendo leva
sull’altra e questo per il semplice fatto che noi siamo nel
mondo, ne siamo parte. E lo stesso vale per la società,
per la politica e l’economia. Si cambia la società sempre a
partire da esigenze, valori, interessi che sono nati e che vivono
nella società che si vuole cambiare, si può aumentare il benessere
solo se non si violentano le leggi economiche fondamentali, si
modificano i rapporti di forza politici sempre a partire da una
situazione politica. Il nuovo parte sempre dal vecchio ed è
condizionato dal vecchio nel suo essere nuovo. L’assolutamente
nuovo, il rovesciamento radicale non sono possibili, almeno, non sono
possibili in positivo. La storia può fare passi avanti o tornare
indietro, può conoscere accelerazioni o periodi di stasi, non può
rovesciarsi, uscire da se stessa. L’innovazione radicale non
conduce a nulla che non sia la distruzione.
In
realtà la
soluzione prospettata da Korsch
non è tanto quella di una interazione fra circostanze e coscienze
considerata ognuna nella propria autonomia: A
e B
hanno ognuno la loro autonomia e si influenzano a vicenda. Una simile
concezione è del tutto compatibile col riformismo. La soluzione di
Korsch si basa sulla hegeliana identità di soggetto ed oggetto: la
coscienza operaia è oggettivamente subalterna perché la classe
operaia è oggetto dello sfruttamento capitalistico ed in quanto tale
fa sua la ideologia della classe dominante. Nello stesso tempo però
la classe operaia è soggetto rivoluzionario e in quanto tale rifiuta
e mette in crisi il sistema borghese. In quanto radicata nell'oggetto
la rivoluzione perde ogni carattere utopico, in quanto radicata nel
soggetto rivoluzionario si scioglie non solo da ogni determinismo, ma anche da ogni condizionamento sociale.
Peccato che in questo modo il principio di non contraddizione vada a
farsi benedire e tutto il discorso precipiti nel non senso.
L’andamento delle lotte operaie dal canto suo, ben
lungi dal confermare le astruserie della dialettica ha finito per mettere in crisi la visione marxista del divenire
storico. Ben lungi dal far collassare il sistema le rivendicazioni
dei lavoratori sono state gradualmente assorbite nel sistema. Lo
sviluppo della democrazia politica invece di aprire nuove aree di
crisi ha favorito l’integrazione di masse sempre più vaste di
popolazione nel sistema finendo per stabilizzarlo. Invece di
dimostrarsi una forza radicalmente eversiva la classe operaia ha
dimostrato di essere interna al sistema, una forza sociale i cui
orizzonti non superano la concezione riformista. La speranza marxiana
che nella lotta per soddisfare i suoi bisogni di oggi (bisogni
alienati di uomini da alienati) la classe operaia mettesse in crisi
verticale il “sistema” si è rivelata illusoria.
Prima
di Marx la contraddizione di cui si è parlato era stata affrontata
da Rousseau.
Per
Rousseau l’uomo è un essere profondamente corrotto dalla civiltà.
Il contratto sociale è il punto di partenza della sua redenzione.
Stipulando il contratto sociale l’uomo cede tutta intera la sua
libertà al collettivo in cui entra a far parte ma facendo questo
resta interamente libero: cedendo il suo potere a tutti egli in
realtà non lo cede a nessuno. La volontà generale che ora regola la
sua vita non è altro che la sua volontà, obbedendo alla
volontà generale ognuno obbedisce solo a se stesso.
L’ingresso dell’uomo nella nuova comunità modifica nel profondo
al sua natura. L’egoismo, la vana ambizione, l’amor proprio
scompaiono e vengono esaltati al massimo gli elementi altruistici e
comunitari della natura umana. L'amor proprio scompare, subentra la virtù civica.
Ma
anche il ginevrino deve fare i conti con un problema simile a quello
che Marx dovrà affrontare dopo di lui. Se l’uomo è corrotto dalla
civiltà perché mai dovrebbe stipulare il contratto? Se è incapace
di vedere il suo “vero” bene come può entrare in un collettivo
che contrasta quelli che non sono “davvero” i suoi interessi ma
che gli sembrano tali?
“Perché
un popolo al suo nascere potesse capire le grandi massime della
giustizia (…) bisognerebbe che l’effetto potesse divenire causa,
che lo spirito sociale che deve essere il frutto dell’istituzione
presiedesse all’istituzione stessa e che gli uomini fossero prima
delle leggi ciò che devono diventare per opera loro” (2) afferma
Rousseau nel “contratto sociale”. Il discorso è
chiarissimo: il contratto redime l’uomo ma per stipulare il
contratto l’uomo dovrebbe essere già redento.
Rousseau
cerca di risolvere la contraddizione introducendo la figura del
“legislatore”. Il legislatore è un uomo eccezionale che impone
al suo popolo quelle leggi grazie alle quali tutti cambieranno la
loro natura: “chi affronta l’impresa di dare istituzioni ad un
popolo deve, per così dire, sentirsi in grado di cambiare la natura
umana; di trasformare ogni individuo, che per se stesso è un tutto
perfetto e solitario, in una parte di un tutto più grande da cui
l’individuo riceve, in qualche modo, la vita e l’essere” (3).
Il legislatore che compie questa titanica impresa è “un intelletto
superiore che conosce tutte le passioni degli uomini senza provarne
nessuna, che non ha alcun rapporto con la nostra natura e che la
conosce a fondo” (4), insomma, una sorta di semidio.
Non
bisogna credere che il legislatore usi la violenza in questa opera di
trasformazione radicale dell’uomo: “Il legislatore, non potendosi
servire né della forza né del ragionamento deve ricorrere ad
un’autorità d’altro ordine che possa trascinare senza violenza e
persuadere senza convincere. Ecco ciò che convinse in tutti i
tempi i padri delle nazioni a ricorrere all’intervento celeste
perché i popoli (..) obbedissero liberamente e portassero docilmente
il giogo della felicità pubblica”. (5)
Il
legislatore attribuisce a Dio ciò che è opera sua, fa apparire come
prescrizioni divine quelle leggi che sono necessarie alla redenzione
dell’uomo e spinge in questo modo gli esseri umani laddove non
sarebbero mai andati spontaneamente. La figura del legislatore
introduce una cesura radicale nel corso storico. Questo non va
spontaneamente verso la sua meta redentrice, occorre la volontà di
un uomo superiore, una sorta di semidio che è in effetti creduto
tale dalle masse, per forzare il corso storico e portare gli esseri
umani alla salvezza. Naturalmente la soluzione di Rousseau è del
tutto illusoria. A livello pratico la contraddizione fra natura umana corrotta ed esigenza del suo rovesciamento sarà “risolta”
non dalla “persuasione senza convinzione” ma dalla
lama affilata della ghigliottina. A livello di teoria politica Il
ginevrino non può risolverla perché deve cercare fuori dall’uomo e dalla
storia la soluzione di un problema umano e storico. Anche il
legislatore è un uomo: questa sola constatazione mette in crisi
tutta la costruzione di Rousseau. Essa però ha una importanza
eccezionale e sarà foriera di sviluppi di estrema importanza; il più
prossimo sarà, com’è noto, l’esperienza del giacobinismo e
anche tramite questa esperienza il pensiero di Jean Jacques Rousseau
avrà una grande influenza in alcuni momenti decisivi della storia
contemporanea.
Vissuto
parecchi anni dopo Marx, Lenin si rende conto che il corso storico
non va nella direzione da questi auspicata ma, a differenza di una
parte sempre crescente dei socialisti europei, non è affatto
intenzionato a rinunciare al fine comunista.
In
Lenin il partito rivoluzionario gioca il ruolo che Rousseau affida
al legislatore. Il partito ha il compito di introdurre dall’esterno
nella classe operaia quella coscienza comunista che da sola questa
non è in grado di raggiungere. Formato da rivoluzionari di
professione il partito deve preservare la purezza dell’idea
rivoluzionaria da ogni contaminazione ideologica, educare le masse e
soprattutto stare sempre vigile, sempre pronto a sfruttare
l’occasione che possa consentirgli un colpo di mano. E l’occasione
venne, come tutti sanno. Sfruttando le eccezionali circostanze
causate dal primo conflitto mondiale il partito bolscevico, sebbene
rappresentasse una minoranza non solo del popolo ma della stessa
debole classe operai russa, fu capace di conquistare il potere e di
mantenerlo. Soprattutto usò il potere per mettere in atto il suo
programma, integralmente e senza sconti.
I
lavoratori non vogliono il socialismo? Questo può venire loro
imposto dalla avanguardia che conosce quale deve essere la
“autentica” coscienza di classe. La maggioranza della popolazione
russa è formata da contadini? I contadini sono legati all’ideologia
borghese, non sognano altro che la proprietà di un pezzo
di terra. Dovranno essere condotti volenti o nolenti all’economia
collettivizzata. I partiti non bolscevichi hanno la maggioranza dei
consensi? Siano messi fuori legge. Nel partito bolscevico si formano
correnti che possono metterne a rischio l’unità? Che siano
abolite. Si iniziò con l’abolire la libertà per borghesi e poi si
dovette restringere sempre più il cerchio, fino a concentrare un
potere immenso nelle mani di un dittatore. Lo stato che doveva
estinguersi divenne sempre più forte fino a diventare quasi
onnipotente, i lavoratori vennero ridotti in uno stato di
semischiavitù, la cultura irreggimentata in maniera mai vista prima
nella storia, ogni autonomia di pensiero distrutta. La produzione si
separò in maniera sempre più netta dalle esigenze dei consumatori.
La natura umana dovette subire in effetti una torsione mai vista,
l’uomo divenne la materia prima di un esperimento sociale di
grandiosa ampiezza. L’individuo fu davvero, come auspicava Rousseau,
inserito in un collettivo più grande, mostruosamente più grande di
lui, da cui riceveva “l’essere e la vita”, ed anche, assai
spesso, le deportazioni, la tortura, la morte.
Le
dimensioni della “normale” violenza criminale si ridussero
ovviamente nella Russia staliniana: come poteva esserci in una
società simile una criminalità ”comune”? Ma si ampliò fino a
diventare gigantesca la criminalità istituzionalizzata. Solzenicyn
ci ricorda che il sistema dei gulag raggiunse dimensioni mostruose e
arrivò ad ospitare contemporaneamente molte centinaia di migliaia,
addirittura milioni di esseri umani. Lo storico sovietico Roy Medved,
di certo non sospettabile di anticomunismo “viscerale”, calcola
le vittime dello stalinismo in ventidue milioni di esseri
umani, né queste sono le sole vittime del prometeico “assalto al
cielo” tentato dai comunisti.
Ovunque
l’esperienza comunista condusse agli stessi risultati. Per la Cina
si calcolano vittime nell’ordine di settanta milioni di
esseri umani uccisi dalle repressioni e dalle carestie provocate
dalla politica agricola irresponsabile e disumana di Mao. Nel libro
“Mao la storia sconosciuta” la scrittrice cinese Jung
Chang (autrice del bellissimo romanzo “i cigni selvatici”) ed il
marito Jon Halliday così descrivono l’esperienza del gran balzo in
avanti, cioè del tentativo messo in atto da Mao fra il 1958 ed il
1962 di aumentare a tappe forzate la produzione industriale e di fare
della Cina una super potenza militare (voglio ricordare che il libro
è documentatissimo, di ogni cifra, di ogni fatto si cita la fonte.
Al termine del volume ci sono 214 pagine di note e bibliografie, la
sola bibliografia delle fonti ne occupa 64).
“Nell’estate
del 1958 Mao concentrò di punto in bianco l’intera popolazione
rurale in nuove unità allargate definite “comuni popolari”.
Disse senza mezzi termini che la concentrazione dei contadini in un
minor numero di unità – oltre 26.000 in tutta la Cina era più
facile da controllare. (…). Le comuni erano de facto dei campi di
lavoro forzato. (..) come nei campi di lavoro i reclusi erano
obbligati a mangiare in mensa. (..) il controllo totale sul cibo
conferì allo stato un’arma terrificante: negare i pasti divenne
una forma comune di punizione “lieve” che i funzionari rurali
esercitavano a piacimento” (6).
“I
quadri dovevano controllare che i contadini non “rubassero” il
loro stesso raccolto. Si infliggevano spesso punizioni orribili:
alcuni furono sepolti vivi, altri strangolati (..) ad altri ancora fu
tagliato il naso” (7)
Questa
politica provocò una carestia senza precedenti, ovviamente: “A
livello nazionale la carestia iniziò nel 1958 e terminò nel 1961,
raggiungendo l’apice nel 1960. (..) Secondo un famoso sostenitore
del regime, Hang Suyn, nel 1960 le casalinghe delle città assumevano
al massimo 1200 calorie al giorno.” (8). Nel frattempo la Cina
esportava derrate alimentari: “nel 1958 e 1959 le sole esportazioni
di cereali che ammontarono quasi certamente a sette milioni di
tonnellate avrebbero potuto fornire l’equivalente di oltre 840
calorie al giorno per 38 milioni di persone: la differenza fra la
vita e la morte” (9). In breve, “nei quattro anni del gran balzo
in avanti e della carestia morirono di fame e di lavoro circa 38
milioni di persone” (10) . Trentotto milioni in quattro
anni, un bel record non c’è che dire.
La
Cambogia di Pol Pot fu il paese in cui l’aspirazione al
cambiamento totale della natura umana assunse le forme forse più
sanguinarie e demenziali. Il denaro, il vile, corruttore “Dio
denaro” fu abolito, le grandi città, covo di corruzione,
evacuate, chi sapeva leggere e scrivere fu qualificato
“intellettuale” e fucilato, la tecnologia “borghese” venne
bandita e masse enormi di nuovi schiavi vennero mandate a coltivare i
campi praticamente senza attrezzi, le famiglie vennero separate (la
famiglia è una istituzione borghese...) la religione, la alienante
religione, vietata, i templi buddisti distrutti, una preghiera era
punita con la morte. La natura umana andava rifondata, l’uomo
vecchio doveva sparire per far posto all’uomo nuovo, la vecchia
cultura distrutta per far posto alla nuova, i vecchi rapporti fra
padri e figli, marito e moglie, fratello e sorella distrutti per
lasciar posto a nuovi e più elevati rapporti umani. Nel giro di
pochissimi anni vennero fatti fuori in Cambogia, un piccolo paese con
circa 12 milioni di abitanti, dai due ai tre milioni di
esseri umani, quasi un quarto della popolazione. E oggi c'è chi definisce il "dramma dei migranti" la "più grande emergenza umanitaria del dopoguerra"...
Come
si vede i comunisti non seguirono le raccomandazioni di Rousseau, non
limitarono la loro violenza alle forme alquanto truffaldine che il
ginevrino suggeriva. Andarono molto più a fondo nei loro intenti. Questo del resto era l’unico modo per metterli in atto, già i
primi seguaci di Rousseau lo avevano capito. Nulla è casuale in
questo processo mostruoso. Chi dice ad esempio che i crimini che si
sono ricordati costituiscono un tradimento del comunismo dimostra di
non aver capito nulla del fenomeno comunista. E’ stato
precisamente il loro "alto" ideale a spingere i comunisti sulla strada
senza ritorno del terrorismo di massa. Lo stato onnipotente è
figlio dello stato che si “doveva estinguere”, la violenza di
massa deriva direttamente dalla pretesa utopica di rendere
impossibile ogni violenza. Certo, moltissimi comunisti divennero
poi burocrati corrotti e privi di principi, satrapi miserabili
interessati solo a meschini tornaconti personali. Al suo tramonto
l’impero comunista era diventato assai più corrotto del più
corrotto dei paesi capitalistici. Ma il sistema in cui questi satrapi, i demoni del comunismo,
poterono prosperare e quella corruzione svilupparsi non avrebbe
potuto nascere senza l’azione spirituale e materiale degli angeli, dello stesso:
degli idealisti, dei rivoluzionari incorruttibili che volevano
davvero, sinceramente, cambiare dalle fondamenta il mondo e
l’uomo.
La
costruzione dell’uomo nuovo non può farsi (non può nemmeno
tentarsi) se non al prezzo della morte di milioni di uomini “vecchi”,
la fine di ogni violenza, di ogni possibilità di violenza, implica
necessariamente una violenza sconfinata che colpisce masse enormi di
esseri umani. La natura e la società umana non possono essere
rovesciate senza l’intervento di un mostruoso “legislatore” che
tratta gli uomini come creta, o come spazzatura.
E, ovviamente, da tutto ciò non sorge alcuna figura umana davvero “nuova”. Sorgono solo sconfinate schiere di poveri esseri umani incarcerati, torturati, mutilati, privati, loro si davvero privati, della loro umanità. E montagne di cadaveri.
E, ovviamente, da tutto ciò non sorge alcuna figura umana davvero “nuova”. Sorgono solo sconfinate schiere di poveri esseri umani incarcerati, torturati, mutilati, privati, loro si davvero privati, della loro umanità. E montagne di cadaveri.
Note
1)
K. Marx: Manoscritti economico filosofici. Einaudi 1968 pag. 111
2)
J.J. Rousseau: Il contratto sociale. Ne: I grandi filosofi: Rousseau.
Edizioni del “sole 24 ore” 2006. pag. 268
3)
Ibidem pag. 266
4)
Ibidem pag. 266
5)
Ibidem pag. 268 sottolineatura mia
6)
Jung Chamg: Mao la storia sconosciuta. Longanesi 2001. pag. 511
7)
Ibidem pag. 512
8)
Ibidem pag. 515
9)
Ibidem pag. 516
10)
Ibidem pag. 515
il comunismo fa lo stesso errore delle teocrazie, pensare che un modo di agire e pensare possa essere imposto.
RispondiEliminaL'errore fondamentale dello Stato della Chiesa, per esempio, è pensare che l'amore (comandamento fondamentale espresso da Gesù in sostituzione di tutti gli altri) possa essere imposto solo perché chi comanda è un papa.
La stessa rivoluzione francese proclamò tre principi, di cui uno, la fraternità, non è altro che l'amore cristiano rivisitato da chi odia il cristianesimo, e come quello fallisce come legge sociale, perché non si diventa buoni solo perché essere buoni è un principio sociale.
(en passant, gli altri due princìpi, uguaglianza e libertà sono chiaramente opposti, e l'uno esclude l'altro, per cui non è possibile imporne uno in maniera radicale senza eliminare l'altro. Dunque è solo possibile un compromesso tra i due, sacrificare un po' di libertà per avere più uguaglianza, o/e sacrificare un po' di uguaglianza per avere più libertà)
Non si diventa buoni per legge, o per decreto. Essere buoni è un sentimento personale che non può essere imposto dal di fuori.
La stessa cosa vale per l'essere giusti, ecc.
Le teocrazie, ivi compreso il comunismo, che è anch'esso una sorta di religione, e nel tuo articolo risulta ben chiaro, fanno dunque questo errore fondamentale, di pretendere la perfezione da qualcosa che perfetto non è.
Se un ingegnere volesse costruire un grattacielo con la paglia e il legno, non potrebbe pretendere che stesse in piedi. Per reggere centinaia di piani ci vogliono i materiali giusti.
Se ha la paglia e il legno, costruirà delle capanne.
Se tenta di costruire un grattacielo, non può definirsi "buono", ma "sciagurato, demente".
Secondo me.
Se pretendo di costruire un grattacielo con la paglia
Scusa per l'ultima frase, rimasta per errore
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