“Il
Cervino è un monte”. “Dio è il creatore del cielo e della
terra”. “La gioconda è un ritratto meraviglioso”. Cosa hanno
in comune queste tre affermazioni? Dal punto di vista del contenuto,
nulla. La prima è una proposizione empirica, la seconda una
affermazione teologico metafisica, la terza esprime un giudizio
estetico. Eppure tutte e tre seguono un principio, e sono
comprensibili proprio in quanto lo seguono. Tutte e tre seguono il
principio di non contraddizione.
Nella “metafisica” Aristotele definisce in questo modo il principio di non contraddizione: “E’ impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo appartenga e non appartenga al medesimo soggetto e nella medesima relazione” (1) e, poco più avanti: “risulta allora evidentemente impossibile che la medesima persona, nel medesimo tempo, pensi che la medesima cosa sia e non sia” (2). In Aristotele quindi il principio di non contraddizione riguarda gli enti (è impossibile che il medesimo attributo competa e non competa al medesimo soggetto) ed il pensiero (è impossibile che la medesima persona pensi...) ma non perde per questo il suo carattere formale. Il principio di non contraddizione non ci dice cosa sia il tale ente, ci dice solo che se il tale ente è X non può nel contempo e nella medesima relazione, essere anche Y. Parimenti il principio di non contraddizione non ci dice cosa pensi una persona di un certo ente, ci dice solo che se di questa pensa A non può nel contempo e dallo stesso punto di vista pensare la negazione di A . Insomma, se io sono Tizio non posso nel contempo e dallo stesso punto di vista essere anche Caio, se penso che Tizio sia un uomo non posso nel contempo e dal medesimo punto di vista pensare che non lo sia.
Nella “metafisica” Aristotele definisce in questo modo il principio di non contraddizione: “E’ impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo appartenga e non appartenga al medesimo soggetto e nella medesima relazione” (1) e, poco più avanti: “risulta allora evidentemente impossibile che la medesima persona, nel medesimo tempo, pensi che la medesima cosa sia e non sia” (2). In Aristotele quindi il principio di non contraddizione riguarda gli enti (è impossibile che il medesimo attributo competa e non competa al medesimo soggetto) ed il pensiero (è impossibile che la medesima persona pensi...) ma non perde per questo il suo carattere formale. Il principio di non contraddizione non ci dice cosa sia il tale ente, ci dice solo che se il tale ente è X non può nel contempo e nella medesima relazione, essere anche Y. Parimenti il principio di non contraddizione non ci dice cosa pensi una persona di un certo ente, ci dice solo che se di questa pensa A non può nel contempo e dallo stesso punto di vista pensare la negazione di A . Insomma, se io sono Tizio non posso nel contempo e dallo stesso punto di vista essere anche Caio, se penso che Tizio sia un uomo non posso nel contempo e dal medesimo punto di vista pensare che non lo sia.
Il
principio di non contraddizione costituisce la “conditio sine qua
non” del discorso sensato. E’ possibile discutere se non si
accetta il principio di non contraddizione? Se, in altre parole, si
pensa che “uomo” e “non uomo” abbiano lo stesso significato?
Cediamo di nuovo la parola ad Aristotele: “Se è corretto affermare
che l’uomo è non uomo sarà corretto affermare che egli è trireme
e che non è trireme” (3). Se nego il principio di non
contraddizione cancello la differenza fra A e non A, fra
“uomo” e “non uomo”. In questo modo però diventa lecito
affermare che l’uomo è trireme, visto che di certo la trireme è
“non uomo”. D’altro canto, se nego il principio di non
contraddizione nego anche la differenza fra “trireme” e
“non trireme” quindi posso tranquillamente affermare che
l’uomo non è una trireme. Se si rifiuta il principio di non
contraddizione ci si preclude la possibilità di dare un significato
determinato ai concetti: se A e “non A”
coincidono, “non A” avrà lo stesso significato di A
e viceversa. Se “essere uomo” afferma Aristotele, “avesse lo
stesso significato di “non essere uomo” allora “i termini
“musico”, “bianco” e “uomo” avrebbero un solo significato
e di conseguenza tutte quante le cose sarebbero una sola cosa dato
che esse verrebbero ad essere sinonime” (4). Se A è uguale
a “non A” allora A sarà uguale a qualsiasi cosa,
visto che qualsiasi cosa è “non A”. Si tolga il principio
di non contraddizione e si ha il tutto in tutto, la
compenetrazione fra i significati, quindi l’impossibilità del
discorso. Se si vuol dare un significato al proprio discorso si deve
usare il principio di non contraddizione. Anche per negare validità
al principio di non contraddizione occorre usarlo. Se dico: “bisogna
rifiutare il principio di non contraddizione” uso il principio che
intendo negare. Se non lo usassi non saprei cosa intendo negare né
saprei che cosa significa negare. Il principio di non contraddizione
sarebbe la stessa cosa della sua negazione, la negazione di tale
principio sarebbe equivalente alla sua affermazione.
In
quanto principio supremo che rende possibile il discorso sensato il
principio di non contraddizione rende possibili le dimostrazioni, ma,
appunto per questo, non può a sua volta essere dimostrato.
“Certuni”,
afferma Aristotele, “pretendono che si dia dimostrazione anche di
questo ma (…) è segno di impreparazione il non saper riconoscere
di quali cose si debba cercare dimostrazione e di quali no. Difatti
è senz’altro impossibile che si dia dimostrazione di tutte quante
le cose (in tal caso infatti si andrebbe all’infinito e quindi
neppure così si produrrebbe dimostrazione).” (5). Per dimostrare
il principio di non contraddizione io devo intanto usarlo, quindi
darlo per dimostrato. In quanto condizione della dimostrazione il
principio di non contraddizione è indimostrabile, è un dato della
ragione. L’unica possibile “dimostrazione” del principio di
non contraddizione è data dal fatto che dobbiamo usarlo se
vogliamo dare un senso al nostro discorso.
Inoltre,
in quanto puramente formale il principio di non contraddizione non
può dirci nulla sulle verità di fatto. Per Aristotele, come si sa,
il sillogismo costituisce il procedimento scientifico per eccellenza
e si può ragionare per sillogismi solo usando il principio di non
contraddizione. Ma cosa ci fornisce la materia che il
sillogismo relaziona? Prendiamo il sillogismo classico: “Tutti gli
uomini sono mortali, Socrate è un uomo quindi Socrate è mortale”.
Come possiamo dire che tutti gli uomini sono mortali? Come possiamo
dire che Socrate è un uomo? E’ forse logicamente
impossibile che gli uomini siamo immortali o che Socrate non sia un
uomo? No, ovviamente. E’ l’esperienza sensibile a dirci che
Socrate è un uomo, sono l’esperienza e l’inferenza induttiva a
farci dire che tutti gli uomini sono mortali. Così come è un dato
della ragione, non deducibile da nulla, il principio di non
contraddizione ha sempre a che fare coi dati, in particolare coi dati
dell'esperienza sensibile. Questi non sono deducibili dal principio,
sono solo relazionabili da questo.
E' tale l'importanza del principio di non contraddizione che questo resta centrale anche dalla logica contemporanea, pure assai diversa dalla logica classica aristotelica.
Come si sa la logica contemporanea è in larga misura verofunzionale: uno dei suoi concetti base è quello di valore di verità. Il valore di verità è il valore che la funzione logica assume per i diversi argomenti. La proposizione: “Cesare conquistò la Gallia” è trattata dalla logica contemporanea come una funzione: “X conquistò la Gallia”. Se in tale funzione si sostituisce alla variabile X il termine “Cesare”, la proposizione risulta vera, se si sostituisce “Pompeo”, risulta falsa. Ogni proposizione risulterà vera o falsa a seconda degli argomenti che si sostituiscono alle variabili. Vera e falsa sono i valori di verità di una funzione proposizionale.
E' tale l'importanza del principio di non contraddizione che questo resta centrale anche dalla logica contemporanea, pure assai diversa dalla logica classica aristotelica.
Come si sa la logica contemporanea è in larga misura verofunzionale: uno dei suoi concetti base è quello di valore di verità. Il valore di verità è il valore che la funzione logica assume per i diversi argomenti. La proposizione: “Cesare conquistò la Gallia” è trattata dalla logica contemporanea come una funzione: “X conquistò la Gallia”. Se in tale funzione si sostituisce alla variabile X il termine “Cesare”, la proposizione risulta vera, se si sostituisce “Pompeo”, risulta falsa. Ogni proposizione risulterà vera o falsa a seconda degli argomenti che si sostituiscono alle variabili. Vera e falsa sono i valori di verità di una funzione proposizionale.
Il
valore di verità è centrale nel calcolo proposizionale che
rappresenta forse la parte più innovativa della logica
contemporanea. Il calcolo preposizionale studia le combinazioni fra
proposizioni unite fa loro da costanti logiche. Di cosa si tratta? E’
presto detto. Prendiamo due proposizioni: “Paolo è triste” e
“Paolo piange”. Possiamo combinare in vario modo fra loro queste
proposizioni. Possiamo unirle con il connettivo e ed avremo
una congiunzione fra le due proposizioni: “Paolo è triste e
piange”. Il valore di verità di questa nuova proposizione varierà
al variare del valore di verità delle due proposizioni che la
compongono. Chiamiamo “Paolo è triste” p e “Paolo
piange” q. Il valore di verità della congiunzione “p e
q” dipenderà dai valori di verità di p e di q. La
congiunzione sarà vera solo nel caso in cui p e q
siano entrambe vere. “Paolo è triste e piange” è vera
solo se sono entrambe vere “Paolo è triste” e “Paolo piange”.
Se entrambe le proposizioni sono false o se è falsa anche una sola
di esse la congiunzione risulterà falsa.
Possiamo
collegare fra loro le due proposizioni anche in altri modi, ad
esempio non con il connettivo e ma con quello o. Avremo
in tal caso una disgiunzione. Nel caso delle due precedenti
proposizioni avremo: “Paolo è triste o piange”. La
disgiunzione sarà vera nel caso in cui siano vere entrambe le
proposizioni o almeno una di esse, falsa nel solo caso in cui siano
entrambe false.
Una
costante logica molto importante è la negazione: la negazione di p
è non p. La negazione di “Paolo è triste” è “Paolo
non è triste”. Se una proposizione è vera la sua negazione
sarà sempre falsa e viceversa.
Il
calcolo preposizionale non dice nulla, dovrebbe essere chiaro, sul
fatto se una proposizione sia vera o falsa, ci dice solo come varia
il valore di verità di una proposizione composta al variare del
valore di verità delle proposizioni che la compongono.
L’introduzione del concetto di verità in logica non modifica
minimamente il carattere formale della stessa.
Nella
logica contemporanea fondata da Frege ed approfondita fra gli altri
da Russel e Wittgenstein esistono due proposizioni complesse che
hanno particolare importanza: le tautologie e le
contraddizioni. Si ha una tautologia quando si combina
mediante una disgiunzione una proposizione con la sua negazione, ad
esempio: “piove o non piove”. La tautologia è sempre vera ma lo
è perché non dice nulla sul mondo. Dire che piove o che non piove
non ci fa sapere se piove o se splende il sole.
Si
ha invece una contraddizione combinando con una congiunzione una
proposizione e la sua negazione, ad esempio:”piove e non piove”.
La contraddizione al contrario della tautologia è sempre falsa.
Se io affermo che piove e che non piove dico sempre il falso per il
motivo molto semplice che è impossibile che un ente sia nel
contempo se stesso e la sua negazione o che accada e non accada lo
stesso evento.
“La
proposizione mostra ciò che dice” afferma Wittgenstein, “la
tautologia e la contraddizione che dicono nulla. La tautologia non ha
condizioni di verità poiché è incondizionatamente vera; e la
contraddizione è sotto nessuna condizione vera. (…) tautologia e
contraddizione non sono immagini della realtà. Esse non
rappresentano alcuna possibile situazione, infatti quella ammette
ogni possibile situazione; questa nessuna (…)la tautologia lascia
alla realtà tutto, infinito, lo spazio logico; la contraddizione
riempie tutto lo spazio logico e non lascia alla realtà alcun punto.
Nessuna delle due può determinare comunque la realtà” (6).
La
tautologia non determina la realtà. Non dico nulla di Paolo se dico
che è o non è un uomo. Per dire qualcosa di Paolo devo dire che è
un uomo e quindi non è un cane. La contraddizione non
determina a sua volta nulla perché non si può determinare un ente
dicendo che esso è e nel contempo non è se stesso. E così
il circolo si chiude. Con tutto il suo formalismo raffinato,
con tutte le sue fondamentali novità,sul punto centrale del rapporto
con il principio di non contraddizione la logica contemporanea non
può che convenire con Aristotele sulla impossibilità di affermare e
negare del medesimo soggetto lo stesso attributo nel medesimo tempo e
nella medesima relazione. La realtà non può essere
contraddittoria, l'uomo non può essere non uomo. Ed
il pensiero, a sua volta non può contraddirsi. Se penso che X sia
un uomo non posso nel contempo e dallo stesso punto di vista, pensare
che non lo sia. Su questo punto Aristotele e Wittgenstein, per tanti
aspetti lontanissimi fra loro, non possono che concordare.
Ci sono due aspetti del principio di non contraddizione che val la pena sottolineare, perché particolarmente importanti, a mio avviso.
Al primo si è già fatto accenno. Il principio di non contraddizione è un dato, un dato della ragione e relaziona a sua volta enti dati. Usare il principio di non contraddizione vuol dire precludersi la conoscenza della totalità. Il principio di non contraddizione è nella conoscenza razionale un po' come il punto di vista nella conoscenza sensibile. Si parte dal punto di vista per conoscere la realtà ma il punto di vista è sempre escluso dalla realtà conosciuta. Allo stesso modo, cercando di comprendere razionalmente il mondo non si può dare spiegazione razionale del principio che ci permette questa comprensione. Quando cerca di superare questo limite il grande principio cade nel paradosso o, quanto meno, nell'auto contraddittorietà. L'autoreferenzialità genera l'auto contraddittorietà, ma è obbligatorio essere auto referenziali se si vuole pervenire alla conoscenza della assoluta totalità. Il principio di non contraddizione è il principio dell'intelletto finito, di un intelletto che si sa dato ed ha sempre a che fare col dato, e che cade in contraddizioni non appena cerca di superare integralmente il dato, di spiegare razionalmente se stesso. Un intelletto, meglio, una ragione, divina userebbe il grande principio? E come lo userebbe? Non credo che l'uomo sia in grado di rispondere ad una simile domanda.
Ci sono due aspetti del principio di non contraddizione che val la pena sottolineare, perché particolarmente importanti, a mio avviso.
Al primo si è già fatto accenno. Il principio di non contraddizione è un dato, un dato della ragione e relaziona a sua volta enti dati. Usare il principio di non contraddizione vuol dire precludersi la conoscenza della totalità. Il principio di non contraddizione è nella conoscenza razionale un po' come il punto di vista nella conoscenza sensibile. Si parte dal punto di vista per conoscere la realtà ma il punto di vista è sempre escluso dalla realtà conosciuta. Allo stesso modo, cercando di comprendere razionalmente il mondo non si può dare spiegazione razionale del principio che ci permette questa comprensione. Quando cerca di superare questo limite il grande principio cade nel paradosso o, quanto meno, nell'auto contraddittorietà. L'autoreferenzialità genera l'auto contraddittorietà, ma è obbligatorio essere auto referenziali se si vuole pervenire alla conoscenza della assoluta totalità. Il principio di non contraddizione è il principio dell'intelletto finito, di un intelletto che si sa dato ed ha sempre a che fare col dato, e che cade in contraddizioni non appena cerca di superare integralmente il dato, di spiegare razionalmente se stesso. Un intelletto, meglio, una ragione, divina userebbe il grande principio? E come lo userebbe? Non credo che l'uomo sia in grado di rispondere ad una simile domanda.
Il secondo aspetto e forse ancora più importante. Se si accetta
il principio di non contraddizione non si può ammettere
l'esistenza di enti negativi.
Gli
enti negativi non esistono, quanto meno, chi non contesta la validità
del principio di non contraddizione non può ammetterne l'esistenza.
Se dico che Mario non è un monte non trasformo per questo il monte
nel negativo di Mario, né, viceversa, Mario nel negativo
di monte. No, sia “Mario” che “monte” sono enti positivi e la
logica, usando il principio di non contraddizione, relaziona questi
enti, stabilisce che uno non è l'altro e viceversa; che Mario fa parte
dell'insieme degli uomini che non è
l'insieme dei monti.
Perché la accettazione del principio di non contraddizione implica necessariamente, che non si possa accettare l'esistenza di enti negativi? Aristotele, come si è già visto, ci da la risposta quando afferma che eguagliare uomo e non uomo significa, molto semplicemente, eguagiare uomo e trireme.
Esaminiamo la proposizione “Mario è un uomo”. Ora, essere uomo significa non essere un cane. Se questo semplice fatto trasforma Mario in un ente negativo, nel negativo logico del cane, insomma, in non cane, il nostro amico Mario va incontro a brutte sorprese. La proposizione da cui eravamo partiti si trasformerà in “Mario è non cane”. Ma si dà il caso che anche un carro armato non sia un cane, quindi anche lui è non cane; tenendo conto di questo la nostra proposizione iniziale diverrà: “Mario è un carro armato”; però, sicuramente un carro armato non è un uomo, quindi “Mario è un carro armato” si trasformerà in “Mario è un non uomo”. Questa ultima proposizione deriva logicamente dalla prima da cui eravamo partiti: “Mario è un uomo”, e va a questa uguagliata. Il risultato finale del nostro slalom fra gli enti negativi sarà: “Mario è un uomo ed un non uomo”, la negazione del principio di non contraddizione. Se esistono gli enti negativi il principio di non contraddizione va, letteralmente, a farsi benedire. I casi sono due: o si accetta il principio di non contraddizione e con questo il discorso sensato, ed allora non si può in nessun caso parlare di enti negativi, o si accetta l'esistenza degli enti negativi ed allora si deve rinunciare alla possibilità stessa della coerenza logica e del discorso dotato di senso.
Perché la accettazione del principio di non contraddizione implica necessariamente, che non si possa accettare l'esistenza di enti negativi? Aristotele, come si è già visto, ci da la risposta quando afferma che eguagliare uomo e non uomo significa, molto semplicemente, eguagiare uomo e trireme.
Esaminiamo la proposizione “Mario è un uomo”. Ora, essere uomo significa non essere un cane. Se questo semplice fatto trasforma Mario in un ente negativo, nel negativo logico del cane, insomma, in non cane, il nostro amico Mario va incontro a brutte sorprese. La proposizione da cui eravamo partiti si trasformerà in “Mario è non cane”. Ma si dà il caso che anche un carro armato non sia un cane, quindi anche lui è non cane; tenendo conto di questo la nostra proposizione iniziale diverrà: “Mario è un carro armato”; però, sicuramente un carro armato non è un uomo, quindi “Mario è un carro armato” si trasformerà in “Mario è un non uomo”. Questa ultima proposizione deriva logicamente dalla prima da cui eravamo partiti: “Mario è un uomo”, e va a questa uguagliata. Il risultato finale del nostro slalom fra gli enti negativi sarà: “Mario è un uomo ed un non uomo”, la negazione del principio di non contraddizione. Se esistono gli enti negativi il principio di non contraddizione va, letteralmente, a farsi benedire. I casi sono due: o si accetta il principio di non contraddizione e con questo il discorso sensato, ed allora non si può in nessun caso parlare di enti negativi, o si accetta l'esistenza degli enti negativi ed allora si deve rinunciare alla possibilità stessa della coerenza logica e del discorso dotato di senso.
Il rifiuto degli enti negativi porta un colpo al cuore alla teoria della alienazione, com'è evidente. Il centro della teoria della alienazione è infatti tutto li, nella trasformazione di un ente positivo, empiricamente dato, in ente logico, inizialmente inteso come affermativo e poi, necessariamente, come il negativo logico di un altro. La natura è in Hegel l'idea nella forma del suo essere altro, il negativo dell'idea, la sua alienazione terrena. E in Marx la società borghese è, per definizione, il regno della alienazione. L'uomo che vive in questa società è un non uomo, un ente negativo, scisso, che ha fuori di se la propria essenza umana. L'unità originaria si scende, da vita al proprio negativo ed è destinata a ricomporsi in futuro, nella palingenesi globale che attende il genere umano. Questa concezione non è solo mitologica, ma travisa sostanzialmente la logica nel momento stesso in cui sembra esaltarla. La logica relaziona gli enti, non li trasforma in positivi o negativi. Se dico che Mario non è una villetta al mare non lo trasformo nel negativo logico delle villette, e se dico che è un uomo non lo trasformo nell'affermativo logico di se stesso: Mario resta in ogni caso quel certo ente, quella persona lì, di cui posso affermare o negare tante cose.
E non esistono, non possono esistere, enti negativi. Ogni ente è qualcosa di positivo: quella cosa lì. Un uomo imprigionato è un uomo che si trova di fronte ad ostacoli che ne impediscono il libero sviluppo, ma non è un non uomo. La natura non è spirito, ma non perde per questo il suo carattere positivo, non si riduce a negazione dell'idea o ad idea in forma alienata. Si può accettare la teoria della alienazione solo se si elimina ogni differenza, e tensione, fra gli enti e la logica che li relaziona, fra affermazione e negazione da un lato, ed ente di cui si afferma o si nega qualcosa dall'altro. Gli enti reali diventano enti logici, e, poiché la negazione è elemento essenziale della logica, enti negativi. Tutto questo porta, lo si è visto, alla distruzione del principio di non contraddizione e con questo del discorso dotato di senso. Non a caso tutti i teorici della alienazione sono sempre stati oppositori del principio di non contraddizione.
Note
1)
Aristotele, Metafisica. Laterza 1988 pag. 94)
2) Ibidem.
3) Ibidem pag. 101
4) Ibidem pag. 98
5) Ibidem pag. 95
6)
L: Wittgenstein: Tractatus logicus philosophicus. Einaudi 1958
pag. 38 39
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