La filosofia mira a comprendere la totalità, ma la totalità non si
lascia mai cogliere integralmente. Il pensiero umano deve sempre
misurarsi col dato, assumere qualcosa che non è dimostrabile, che va
semplicemente accettato, qualcosa di cui si può solo dire: “è
così e così”. Ogni volta che cerca di superare i propri limiti il
pensiero cade in contraddizioni, o si avvita in regressi
all'infinito. Molti hanno cercato di uscire da queste difficoltà
ridimensionando radicalmente le pretese dalla ragione umana. Il
relativismo e lo stesso scetticismo sono sembrati soluzioni
ragionevoli: il franco riconoscimento della nostra debolezza di
uomini. Ma sia il relativismo, inteso in senso forte, che lo
scetticismo cadono, anch'essi, in insuperabili contraddizioni. Anche
solo per poter essere espressi relativismo e scetticismo devono
riconoscere che qualcosa è vero, che alcune proposizioni hanno
significato, che, per quanto sia debole, il pensiero umano qualcosa
la può conoscere, e tanto basta a confutarli, irrimediabilmente.
La
filosofia di Hegel può essere considerata come un enorme tentativo
di uscire da questo dilemma fra un tendere all'assoluto che cade in
contraddizioni ed un relativismo scettico che cade, anch'esso, in
contraddizioni se non addirittura in paradossi. La filosofia di Hegel
non tende all'assoluto, è l'auto esposizione razionale
dell'assoluto, l'idea assoluta che espone se a se stessa. Per questo
tale filosofia non teme ma assume in se la contraddizione. Hegel
scioglie il nodo tagliandolo di netto. La contraddizione non va
respinta ma accettata, è la forza viva e vitale che permette al
pensiero di avanzare ed arricchirsi di sempre nuove
determinazioni.
L'assoluto hegeliano è e resta l'assoluto del
puro pensiero, il mondo finito ne fa parte, ma solo come “momento”
del suo autosvolgimento. Tuttavia è nella storia umana che la auto
esposizione dell'assoluto hegeliano raggiunge il suo livello più
alto. A livello puramente logico concettuale la filosofia di Hegel
sembra avvilupparsi in un gioco di continui rimandi fra i concetti,
una sorta di avvitarsi del pensiero su se stesso che solo
apparentemente è un movimento. Nella storia invece il movimento è,
o sembra essere, reale. Il rimando continuo da un concetto all'altro
diventa svolgimento temporale del dramma dell'uomo nel mondo, la
razionalità puramente logico dialettica diventa scoperta di una
razionalità immanente al corso storico, individuazione del suo fine
e della legge del suo sviluppo. Ma la razionalità che Hegel scorge
nella storia può svelarsi solo alla conclusione del dramma. Si
tratta di una razionalità che emerge ex post, e che la speculazione
filosofica espone e riassume. La filosofia della storia di Hegel è
rivolta al passato. Come la nottola di Minerva la filosofia prende il
volo al calar delle tenebre. La ragione assoluta di Hegel non
anticipa i tempi, ne spiega il senso a cose fatte.
Il fatto che in Hegel la filosofia abbia il ruolo di “nottola di
Minerva” non è qualcosa di secondario, o privo di importanza. La
filosofia razionalizza “ex post” la storia perché se così non
facesse, se cercasse di precorrere i tempi indirizzando in un certo
modo il corso storico, assumerebbe il ruolo di astratto “ideale”
che pretende di indicare alla storia la via che questa deve seguire.
L'assoluto si dividerebbe così in essere e dover essere, il dato
riapparirebbe nel sistema hegeliano minandolo dalle fondamenta. La
filosofia di Hegel mostra che il mondo, e nel mondo la storia, è
intimamente razionale, non prescrive ideali alla storia e al mondo.
Per far questo deve intervenire a cose fatte, santificare come
espressione della razionalità del divenire coloro che nella storia
hanno vinto. Però deve pagare un prezzo a questa sua pretesa: deve
considerare se stessa il compimento della filosofia, e deve
considerare finita la storia. Se così non fosse la razionalità che
oggi si attribuisce alla storia passata diventerebbe l'ideale che
quella futura dovrebbe seguire e ricomparirebbe quel dualismo fra
reale ed ideale che è per Hegel la massima espressione
dell'irrazionale.
Marx capovolge radicalmente l'impostazione
hegeliana. In Marx la dialettica cessa di essere processo di
autosvelamento dell'idea assoluta per diventare legge del divenire
mondano, cioè del concreto divenire storico sociale degli esseri
umani. E cessa di essere dialettica riferita al passato, per
diventare legge che prescrive alla storia il suo corso futuro.
Prescrive alla storia il suo corso senza tuttavia introdurre in essa
alcun dualismo fra ideale e reale, essere e dover essere. La nuova
società che scaturirà dall'andamento degli eventi storici non è la
realizzazione di un astratto ideale ma attualizzazione di quanto è
già presente in potenza nella storia. Marx non deve aspettare che il
dramma storico si concluda per poterne mostrare, ex post, la
razionalità: egli ha scoperto la legge di quel dramma e sa qual'è
l'esito del muoversi, apparentemente insensato, degli uomini nel gran
palcoscenico della storia. Nel momento stesso in cui diventa
filosofia del futuro il pensiero di Marx conserva tutto il
razionalismo necessitante dell'hegelismo, anzi, Marx può presentare
come futurista la propria filosofia proprio perché sa, o crede, di
aver scoperto la legge cui gli eventi futuri dovranno necessariamente
attenersi.
Ma, pur con tutte le differenze, esiste fra
Hegel e Marx un fondamentale punto di contatto: il valore assoluto
che entrambi assegnano alla unità e il rigetto di tutto ciò che è
divisione, limite, separazione. In Marx ancora più che in Hegel la
divisione, la separazione diventano sinonimi di alienazione, perdita
dell'essenza, reificazione. La società di mercato, retta dalle
impersonali leggi dell'economia, separa gli uomini dai prodotti del
loro lavoro, fa si che Tizio produca merci che saranno utilizzate da
Caio, che egli neppure conosce; la società di mercato unifica gli
esseri umani ma li unifica in maniera unicamente astratta,
quantitativa. Nel mercato gli uomini sono in primo luogo compratori e
venditori, questo equivale per Marx a ridurli a cose, privarli della
loro viva e pulsante umanità. Certo, il momento della separazione
degli uomini fra loro e dal prodotto del loro lavoro è per Marx
storicamente necessario, ed anche, in una certa fase della storia,
progressivo. Ma tutto il suo valore positivo consiste nel fatto che
rende possibile la successiva unificazione degli esseri umani.
L'unità è il valore supremo, assoluto, il fine del corso storico,
il recupero da parte dell'uomo della sua intima essenza umana.
Unità
quindi, a tutti i livelli. Fra gli uomini ed il prodotto del loro
lavoro, quindi fra uomo e natura, fra individuo e genere, singoli e
società, io e tu, fra essenza ed esistenza umane. E, a livello
ancora più ampio, l'unità marxiana è unita di soggetto e oggetto,
conoscente e conosciuto, libertà e necessità. L'idea assoluta di
Hegel diventa in Marx un assoluto storico sociale. Esattamente come
Hegel, Marx rifiuta l'umana contingenza e, con essa, tutti i limiti
che la natura, e la sua intima caducità, impongono all'uomo.
Esattamente come Hegel Marx taglia di netto il nodo delle
contraddizioni in cui il pensiero umano si avvolge ogni qual volta
cerchi di avvicinarsi all'assoluto.
Da sempre il pensiero filosofico si interroga sulla conoscibilità o meno della natura, sul rapporto fra soggetto e oggetto, conoscente e conosciuto. Per il senso comune la natura è qualcosa di esterno all'uomo, un grande, smisurato “ambiente” che lo circonda e lo limita. La scienza condivide col senso comune questa convinzione fondamentale, anche se, almeno nelle sue forme più pure, trasforma la natura in qualcosa di meramente quantitativo, un insieme di particelle, campi di forza, onde e corpuscoli che sono molto spesso quanto di più lontano dal senso comune si possa immaginare. La riflessione filosofica non accetta le evidenze del senso comune e neppure, a volte, i presupposti della ricerca scientifica. Meglio, non accetta queste evidenze e questi presupposti come qualcosa di assodato, su cui non valga la pena di riflettere e porsi interrogativi. L'esistenza del mondo esterno e la sua conoscibilità, la giustificazione e la portata del principio di causa, il rapporto fra linguaggio e mondo, pensiero ed essere, uomo e natura: tutti questi sono problemi per la filosofia, problemi mai interamente risolti, forse perché non compiutamente risolvibili.
“La vita della specie, tanto nell'uomo quanto negli animali, consiste fisicamente anzitutto nel fatto che l'uomo (come l'animale) vive nella natura inorganica, e quanto più universale è l'uomo dell'animale, tanto più universale è il regno della natura inorganica di cui egli vive” afferma il giovane Marx nei Manoscritti economico filosofici, e prosegue: “Le piante, gli animali, le pietre, l'aria, la luce eccetera come costituiscono teoricamente una parte della coscienza umana, in parte come oggetti della scienza naturale, in parte come oggetti dell'arte – si tratta della natura inorganica spirituale, dei mezzi spirituali di sussistenza, che egli non ha che da apprestare per goderne e assimilarli – così costituiscono anche praticamente una parte della vita umana e della umana attività” (1).
L'uomo vive nella natura, ne è parte, questo è del tutto vero, ma
non è questo il succo della concezione del rapporto fra uomo e
natura che emerge dai “manoscritti” del '44, se così fosse del
resto si tratterebbe di una verità assolutamente banale. La natura
esterna all'uomo appare, nelle pagine di Marx, soprattutto, se non
esclusivamente, “parte della coscienza umana” o parte della vita
umana e delle umane attività. La natura insomma è considerata
esclusivamente nel suo rapporto con l'uomo: la natura produce l'uomo,
ente naturale, e nel contempo l'uomo modifica, la natura, produce una
“nuova natura” umanizzata. Fra uomo e natura esiste un
indissolubile legame dialettico: l'una trapassa nell'altro e
viceversa, entrambi esistono solo nel loro rapporto. “L'universalità
dell'uomo appare praticamente proprio in quella universalità, che fa
della intera natura il corpo inorganico dell'uomo, sia perché
essa 1) è un mezzo immediato di sussistenza, sia perché 2) è la
materia, l'oggetto e lo strumento della sua attività vitale. La
natura è il corpo inorganico dell'uomo, precisamente la
natura in quanto non è essa stessa corpo umano. Che l'uomo viva
della natura vuol dire che la natura è il suo corpo, con
cui deve stare in costante rapporto per non morire. Che la vita
fisica e spirituale dell'uomo sia congiunta con la natura non
significa altro che la natura è congiunta con se stessa, perché
l'uomo è una parte della natura” (2).
E' lo stesso Marx a
sottolineare, più volte, i termini “corpo” e “corpo
inorganico” riferiti alla natura. La natura è il corpo inorganico
dell'uomo, una sorta di prolungamento oltre se stesso del suo essere.
Ogni contrasto, ogni drammatizzazione nel rapporto fra uomo e natura
qui scompaiono. La natura è corpo inorganico dell'uomo, mezzo di
sussistenza, materia prima spirituale. Fra uomo e natura non esiste
dualismo alcuno ma rapporto paritario, unità dialettica.
Dietro
lo stato di apparente parità fra uomo e natura è però fin troppo
chiaro scorgere nelle parole di Marx, una totale preminenza
dell'uomo; perché, se è vero che l'uomo è parte della natura, ne
è, per Marx, una parte particolarissima: ne costituisce il centro,
il fulcro del movimento dialettico. La natura è corpo inorganico
dell'uomo, afferma Marx, e non si sogna neppure di dire il contrario,
che l'uomo cioè è il corpo organico della natura, e neppure gli
passa per la mente che l'uomo è solo uno dei tantissimi enti
esistenti in natura, l'abitante provvisorio di uno degli innumerevoli
mondi che formano l'universo, quasi un nulla sperso nell'immensità
dello spazio tempo. La natura è costituita per Marx dalle piante e
dagli animali, e dalla terra, e dall'aria e dall'acqua con cui l'uomo
è in relazione, cioè da una piccola parte degli enti che esistono,
oggi, sul pianeta terra. E questi enti Marx li vede solo nel
loro rapporto con l'uomo, meglio, nel loro rapporto almeno
potenzialmente armonico con l'uomo. Che la natura sia
infinitamente più estesa nello spazio e nel tempo, e che sia
enormemente meno armonica, che sia drammaticamente indifferente agli
umani destini, che l'uomo sia solo di passaggio nel mondo, tutto
questo sfugge al giovane Marx.
E non solo al Marx giovane. Nella “ideologia tedesca”, opera in cui Marx espone alcuni capisaldi del suo pensiero che non abbandonerà più, il filosofo di Treviri dice sul rapporto uomo – natura cose assai simili a quelle dette nei “manoscritti”.
Polemizzando
con Feuerbach, Marx infatti afferma: “Egli non vede che il mondo
sensibile che lo circonda sia non una cosa data immediatamente
dall'eternità, sempre uguale a se stessa, bensì il prodotto
dell'industria e delle condizioni sociali; e precisamente nel senso
che è un prodotto storico, il risultato dell'attività di tutta una
serie di generazioni, ciascuna delle quali si è appoggiata sulle
spalle della precedente (…) anche gli oggetti della più semplice
“certezza” sensibile gli sono dati solo attraverso lo sviluppo
sociale, l'industria e le relazioni commerciali. E' noto che il
ciliegio, come quasi tutti gli alberi da frutta, è stato trapiantato
nella nostra zona solo pochi secoli or sono grazie al commercio,
e perciò grazie a
questa azione di una determinata società in un determinato tempo
esso fu offerto alla “certezza sensibile di Feurbach” (3)
Come
nei “manoscritti” anche nella “ideologia tedesca” Marx vede
la natura solo ed esclusivamente nella sua dimensione storico
sociale, nel suo rapporto con l'uomo. Non solo, grazie a questa
integrale storicizzazione della natura Marx può dichiarare “risolto”
il problema epistemologico. La natura è un prodotto storico sociale,
esattamente come l'uomo è un prodotto della natura, questo “risolve”
il problema della conoscibilità del mondo, lo assorbe nel processo
di trasformazione ed umanizzazione dello stesso: “La questione se
al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una
questione teorica ma pratica. E' nell'attività pratica che l'uomo
deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il
carattere terreno del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non
realtà di un pensiero che si isoli dalla pratica è una questione
puramente scolastica” (4), afferma Marx nella seconda delle famose
tesi su Feurbach, che si chiudono, non a caso, con la notissima
esortazione a
cambiare il mondo: “I filosofi hanno solo interpretato il mondo in
modi diversi, si tratta però di mutarlo” (5)
Prodotto
della natura, l'uomo modifica, umanizza l'ambiente naturale per
costruire le proprie condizioni materiali di esistenza. Questo
processo è insieme di trasformazione e di conoscenza del mondo, ed è
anche processo di produzione dell'uomo, di costruzione della sua
essenza. Nella storia, afferma Marx, sempre nella ideologia
tedesca, “si trova un
risultato materiale, una somma di forze produttive, un rapporto
storicamente prodotto con la natura e degli individui fra loro, che
ad ogni generazione è stata tramandata dalla precedente (…) questa
somma di forze produttive, di capitali e di forme di relazioni
sociali, che ogni individuo ed ogni generazione si trova come
qualcosa di dato, è la base reale di ciò che i filosofi si sono
rappresentati come sostanza ed essenza dell'uomo” (6). L'essenza
umana è la risultante del processo di costruzione delle condizioni
materiali di esistenza. La
formula marxiana ha un fortissimo potere di suggestione, ma basta
pensarci un attimo per rendersi conto che non risponde ad una domanda
essenziale: se 'essenza umana è la risultante del processo
di costruzione delle condizioni materiali di esistenza come è mai
potuto partire e svilupparsi tale processo? Se
l'uomo è il risultato della storia come ha mai potuto iniziare ad
avere una storia? Risolvendo l'uomo nella storia è la storia che
diventa un enigma.
L'errore fondamentale delle concezioni
di Marx che abbiamo cercato di esporre brevemente non consiste, come
potrebbe sembrare a prima vista, nell'importanza che egli attribuisce
al processo di costruzione delle condizioni materiali di esistenza.
Marx esagera l'importanza di quello che è stato definito il “fattore
economico” della storia, ma di certo si tratta di un “fattore”
rilevante, spesso ingiustamente sottovalutato. L'errore decisivo di
Marx va cercato nella sua autentica adorazione per l'unità, nella
sua concezione unitaria, compatta del rapporto uomo natura, e quindi
della storia e del suo corso, e del rapporto essere sociale
coscienza, soggetto oggetto, pensiero ed essere. L'errore principale
di Marx va cercato insomma nel suo rifiuto di ogni forma di dualismo.
Questo è un punto di essenziale importanza ai fini del nostro
discorso, per cui è bene cercare di chiarirlo al massimo.
Se
intese in senso debole molte affermazioni di Marx appaiono non solo
del tutto accettabili ma, addirittura, quasi ovvie. In effetti è
vero che l'uomo è parte della natura, e la modifica con la sua
attività, costruendo in questo modo le condizioni materiali della
propria esistenza. Ed è vero che la coscienza degli esseri umani è
influenzata dall'ambiente storico sociale in cui questi vivono,
ambiente che condiziona e limita anche la attività pratica degli
uomini. Ed è infine abbastanza condivisibile la affermazione
marxiana secondo cui l'uomo nel corso della storia acquista coscienza
non solo del mondo, ma anche di se stesso, acquista cioè una
autocoscienza.
Affermazioni di questo genere possono essere
discusse, ovviamente, ma non mettono in discussione i capisaldi della
tradizionale teoria della conoscenza: la divisione fra soggetto ed
oggetto, la presenza del dato nel processo conoscitivo, il fatto che
la conoscenza sia sempre conoscenza a partire da un certo punto di
vista.
Il problema è in fondo quello del dato.
Nella concezione marxiana in realtà non c'è posto per il dato
inteso come qualcosa di realmente altro rispetto alla attività
umana. Il dato è tutto interno ad un processo in cui la natura
"produce" se stessa e l'umo, e l'uomo a sua volta "produce"
la natura e se stesso.
La natura si autoproduce, afferma Marx,
ma cosa vuol dire una simile affermazione? Che la natura “produce”
se stessa nel senso che esiste come propria “autoproduzione”? Ma
l'esistenza di qualcosa non può essere “autoprodotta” per il
semplice fatto che per prodursi qualcosa deve esistere. La natura è
un insieme relazionato di enti dati.
Ci sono e basta. Il movimento di questi enti, le loro relazioni ed i
loro scontri li trasformano e danno vita ad enti nuovi. L'uomo è
“prodotto” della natura solo nel senso che è la risultante di
una lunghissima selezione naturale, delle interazioni fra enti dati
che lottano per l'esistenza in un
dato ambiente. Tutto questo
non ha nulla a che vedere con la “produzione” della natura da
parte di se stessa, a meno che non si tratti di una espressione
metaforica.
Proseguiamo. L'uomo è parte della natura e la
conosce e modifica a suoi fini. Però, questo non trasforma
la natura nel “corpo inorganico” dell'uomo, una sorta di sua
prosecuzione; la natura non umana resta altra rispetto
all'uomo, qualcosa di dato,
che esisterebbe anche se l'uomo non esistesse, è
esistita prima della sua comparsa e continuerà ad esistere dopo che l'uomo sarà scomparso. E la conoscenza di questo dato
è decisiva al fine di adattare la
natura, meglio, una sua piccola parte, al soddisfacimento, parziale e
limitato, di alcune esigenze umane.
Ed ancora, è vero che
l'ambiente storico sociale influenza l'attività umana e che questa
modifica l'ambiente, ma, di che tipo sono queste reciproche
influenze? Esiste una autonomia dell'uomo rispetto all'ambiente
storico sociale in cui egli si trova o uomo e ambiente storico
sociale formano una inscindibile “unità dialettica”? Lo stesso
interrogativo vale se si esamina il ruolo del pensiero rispetto
all'essere sociale. Il pensiero ha un suo fondamentale momento di
autonomia, quindi una sua storia, una sua interna dinamica o è
semplice parte, momento necessario, di un più ampio sviluppo storico - sociale dell'uomo? E cosa si intende dire, con precisione, quando
si afferma che la conoscenza è interna ad un processo di
trasformazione del mondo? Ogni attività umana è interna a qualche
processo, il problema resta quello di stabilire le caratteristiche di
questa attività. Il fatto di essere “interna” al processo di
trasformazione del mondo fa perdere alla attività conoscitiva le sue
caratteristiche specifiche? La fa diventare un “momento” di
questo processo? E questo fa decadere a domande oziose i problemi
gnoseologici che da sempre il pensiero ha cercato di risolvere?
In
tutto l'universo nessun ente è assolutamente isolato, privo di
relazioni con gli altri enti. Ma, l'avere relazioni con gli altri
enti significa formare una “unità”, sia pure “dialettica”
con loro? Significa degradare le caratteristiche specifiche di ogni
ente a qualcosa di “inessenziale” che va esaminato solo quale
“momento” della totalità dialettica? Gran parte degli equivoci
della concezione marxiana del rapporto uomo natura, essere pensiero
nascono da qui, dalla confusione fra “l'avere relazioni” ed il
formare una compatta “totalità dialettica”.
Considerazioni
simili possono farsi a proposito della famosa “autocoscienza”.
Cosa si intende, con precisione, con questo termine? Io ho coscienza
di me, cosa intendo dire affermando questo? Che, kantianamente, la
coscienza del mio me accompagna tutte
le mie rappresentazioni? Se è così, questa coscienza irriflessa è
altra cosa rispetto alla conoscenza, al pensiero. Infatti li
accompagna, un po'
come la sensazione del freddo mi accompagna quando scio, senza
costituire alcuna unità col mio atto di sciare (posso
infatti aver freddo senza sciare, o sciare senza aver freddo).
O per autocoscienza si intende il pensiero che io ho di me? Il fatto
che io pensi ai miei pensieri, ai miei stati interni, o che esamini
il mio stesso corpo? In questo caso la conoscenza è,
tradizionalmente, qualcosa di dualistico: io, come soggetto pensante,
penso a me stesso come oggetto. Il mio corpo, i miei precedenti
pensieri o i miei stati interni o esterni sono l'oggetto del mio
pensare: la divisione fra soggetto e oggetto qui non è superata, al
contrario, affermata con forza. Per Marx, come per Hegel, le cose
stanno però ben diversamente. Per autocoscienza Marx ed Hegel
intendono coincidenza del soggetto pensante e della cosa
pensata. Pensando me io sono
nel contempo oggetto del pensiero e soggetto dello stesso. Ancora una
volta alla relazione fra enti che, pur relazionandosi, conservano la
loro autonomia, viene sostituita l'unità, naturalmente “dialettica”,
degli stessi.
Il valore di questa “riduzione ad uno” che
Marx opera a tutti i livelli appare in tutto il suo valore politico
quando il pensatore di Treviri affronta il problema della coscienza
rivoluzionaria del proletariato. Quando il proletariato acquista
autocoscienza del suo ruolo egli è nel contempo soggetto storico e
oggetto della coscienza di se in quanto soggetto storico, e,
attenzione, è entrambe queste cose contemporaneamente.
Non è che il proletariato esamini come un oggetto la sua condizione,
faccia delle ipotesi sul modo in cui questa può essere migliorata,
cerchi a queste delle conferme. Questa sarebbe una normale procedura
di ricerca scientifica aperta, in quanto tale, all'errore. No, nel
momento stesso in cui il proletariato stabilisce che il comunismo è
il suo
fine immanente esprime il
suo essere oggettivamente la
classe che ha come fine
immanente il comunismo. Se
non stabilisse questo sarebbe
“fuori di se”, alienato dalla sue essenza. Nell'atto
dell'autocoscienza del proletariato coincidono il suo essere
oggettivamente classe rivoluzionaria ed il suo aver coscienza di se
in quanto classe rivoluzionaria.
“La
coincidenza nel variare dell'ambiente e dell'attività umana può
solo essere concepita e compresa razionalmente come pratica
rivoluzionaria” (7) afferma Marx nella terza delle sue undici tesi
su Feurbach. Si tratta di una affermazione assai chiarificatrice. La
concezione marxiana della storia si trova infatti costantemente di
fronte ad un problema insolubile. Da un lato il pensiero è
risultante dell'essere sociale, dall'altro la coscienza
rivoluzionaria è fondamentale per fare la rivoluzione. Ma come si
può acquisire la coscienza rivoluzionaria se il pensiero è
imprigionato dall'essere sociale, se, come afferma il “Manifesto”
le idee dominanti sono le idee della classe dominante? La
teorizzazione della “unità dialettica di soggetto ed oggetto”
cerca di risolvere questo dilemma.
La coscienza rivoluzionaria è
insieme il presupposto ed il risultato della prassi rivoluzionaria.
La classe operaia è insieme oggetto e soggetto del movimento
storico. Come semplice oggetto non potrebbe mai acquistare coscienza
rivoluzionaria, ma come soggetto cosciente della storia, può
acquisire tale coscienza. D'altro canto la acquisizione di tale
coscienza non è mai qualcosa di distaccato dalla storia, mero ideale
che si contrappone al reale. Questa acquisizione è a sua volta
qualcosa di oggettivo perché la classe operaia è oggetto oltre che
soggetto della storia. Il principio di non contraddizione come si
vede va a farsi benedire. L'oggetto diventa soggetto quando si tratta
di giustificare la prassi rivoluzionaria, il soggetto diventa oggetto
quando si tratta di slegare il socialismo “scientifico” dal
romanticismo utopico.
Nella ideologia tedesca
Marx è, se possibile, ancora più chiaro in proposito: “Tanto per
la produzione di massa di questa coscienza comunista quanto per il
successo della cosa stessa è necessaria una trasformazione in massa
degli uomini, che può avvenire soltanto in un movimento pratico, in
una rivoluzione; che
quindi la la rivoluzione non è necessaria soltanto perché la classe
dominante non può
essere abbattuta in nessun'altra maniera, ma anche perché la classe
che l'abbatte può
riuscire solo in una rivoluzione a levarsi di dosso tutto il vecchio
sudiciume e a diventare capace di fondare su basi nuove la società”
(8).
Non si potrebbe essere più chiari. La classe
rivoluzionaria sa di essere tale nel momento stesso in cui fa la
rivoluzione e solo in quel momento
si purifica di tutto il
“vecchio sudiciume” ed
acquisisce coscienza rivoluzionaria.
Ogni dualismo fra pensiero ed essere, soggetto ed oggetto qui
scompare. Si fa la
rivoluzione perché si ha coscienza rivoluzionaria, ma si ha
coscienza rivoluzionaria perché si fa la rivoluzione. Solo
i misteri della dialettica salvano Marx da inestricabili aporie.
Non
solo, l'unità non riguarda solo il soggetto e l'oggetto della
conoscenza, si amplia, diventa unità fra fatti e valori, essere e
dover essere. Fare la rivoluzione si identifica coll'affermare il
valore morale della stessa. Nel momento stesso in cui “abbatte”
il dominio della borghesia il proletariato libera se stesso e la
società tutta dal “vecchio sudiciume”, e rigenera il mondo. Marx
non spreca una parola per cercare di dimostrare perché mai il
sudiciume sia tale e cosa in
concreto dovrebbe sostituirlo.
Se lo facesse ricadrebbe nel dualismo fra fatti e valori, realtà ed
idea. Il sudiciume è tale perché la società esistente è il regno
della alienazione, della separazione degli uomini fra loro e dal
prodotto del loro lavoro. E questa separazione sarà superata in un
movimento teorico pratico, una rivoluzione, appunto. In questo modo
la rivoluzione resta l'unica giustificazione di se stessa, a livello
etico come gnoseologico.
Su cosa basa il marxismo una
fiducia tanto grande nella futura rivoluzione? Cosa assicura che
questa ci sarà e che sarà una cosa buona? Io e mondo, soggetto ed
oggetto, essere e pensiero costituiscono una “unità dialettica”,
lo si è visto. Ora, prescindiamo pure dal fatto che unificare io e
mondo, soggetto ed oggetto, viola il principio di non contraddizione:
se soggetto ed oggetto coincidono, quale è il senso dei termini
“oggetto” e “soggetto”? Evitiamo pure di rispondere a questa
domanda, diamo pure per scontato che chi la pone sia negativamente
influenzato da una “vecchia” ed “angustamente formale”
concezione della logica. Resta il fatto che la coincidenza di oggetto
e soggetto non dovrebbe dar vita ad altro che ad una quieta unità.
Perché mai questo soggetto e questo oggetto coincidenti dovrebbero
dividersi dando vita alla fase della “alienazione” e della
"reificazione"? Quale necessità spinge in questo senso? E
perché poi questa “divisione” dovrebbe essere superata nella
fase della riunificazione finale?
A ben vedere le cose anche
accettando la concezione
marxiana che inserisce senza riserve il pensiero
nel processo sociale e lega ogni fase del pensiero alla
relativa fase dello sviluppo socio economico, non
potremmo sapere nulla sulla conclusione del processo storico: la
conoscenza della “fine della storia” ci sarebbe comunque
preclusa. Per dire qualcosa
sul processo nel suo insieme il pensiero dovrebbe rapportarsi al
processo come al suo oggetto, analizzarlo da un punto di vista
assunto come dato, un po' come uno scienziato analizza
oggettivamente, ad esempio, l'orbita di un pianeta. E
dovremmo, ovviamente, accettare che ogni nostra ipotesi o teoria
potrebbero rivelarsi errate. Ma
è proprio questo ad essere estraneo alla concezione marxiana del
rapporto essere pensiero. Tutto il discorso sulla divisione che
segue l'originaria unità e sulla ricomposizione che
“necessariamente” seguirà si basa così, molto semplicemente,
sulla fede. La rivoluzione è inevitabile, ed inevitabilmente buona
perché noi crediamo nella rivoluzione. In questo fideismo il
marxismo dimostra di essere una religione, una religione atea, senza
Dio e senza trascendenza. Una religione che divinizza ciò che, per
definizione, non può essere divinizzato: la accidentalità del
mondo.
Note
1)
K. Marx: Manoscritti economico filosofici. Einaudi 1968 pag. 76 772)
Ibidem pag. 77. Sottolineature di Marx.
3) K. Marx: L'ideologia
tedesca. Editori Riuniti 1972 pag. 16.
4) K. Marx: tesi su
Feurbach. Reperito in rete.
5) Ibidem.
6) K. Marx:
l'ideologia tedesca Editori riuniti 1972 pag. 30
7) K. Marx:
tesi su Feurbach. Reperite in rete.
8) K. Marx: L'ideologia
tedesca, Editori riuniti 1972. Pag. 29.
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