venerdì 9 marzo 2018

TECNOLOGIA, LAVORO, REDDITO (DI CITTADINANZA)


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Il problema
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Ne parlano un po' tutti. L'aumento della meccanizzazione e della automazione contrae l'occupazione. Si produce di più ma ci sono più poveri, il risultato finale di una simile tendenza sarebbe un mondo ricchissimo di beni ma caratterizzato da una povertà generalizzata. Un incubo.
La risposta a questo stato di cose è quella di slegare il reddito dal lavoro. Il lavoro non serve più quindi il reddito non deve essere commisurato al lavoro svolto. Il famoso reddito di cittadinanza dei “grillini” significa esattamente questo: fra reddito e lavoro non dovrebbe più esistere alcun legame. Si dispone di un reddito perché si è cittadini, o addirittura solo residenti in un paese.
Si badi bene, non si tratta della banale ovvietà secondo cui una parte della ricchezza prodotta in un paese deve servire a mantenere persone che sono fuori dal mercato del lavoro. Questo avviene ovunque. Il lavoro crea ricchezza ed una parte di questa serve a mantenere persone che ancora non lavorano o non lavorano più, come i vecchi ed i bambini. O che non possono lavorare, come i malati e i disabili. In un paese civile serve anche ad aiutare chi senza colpa è stato espulso dal mercato del lavoro e cerca di rientrarvi. Tutto questo però non slega in alcun modo il reddito dal lavoro, né, in una società sana, riguarda un numero spropositato di persone. I bambini sono mantenuti dai genitori e molte persone anziane o non in grado di lavorare trovano nella famiglia la fonte primaria di sostentamento. Gran parte degli anziani sono pensionati che vivono di reddito differito; quanto a chi è stato espulso dal mercato del lavoro, il sacrosanto aiuto che deve ricevere è finalizzato a favorire il suo reinserimento nello stesso. Tutte le misure sociali di sostegno ai meno abbienti sono insomma ampliamenti o eccezioni alla regola aurea secondo cui il reddito è legato al lavoro. E, come tutti gli ampliamenti e tutte le eccezioni, non fanno altro che confermare la regola.
Dietro a molte proposte si cela però qualcosa di radicalmente diverso: si teorizza che i processi di automazione rendono il lavoro superfluo, quindi che si possa spezzare il legame fra lavoro e reddito. E questo non per certe categorie o per certi periodi di tempo, no, tendenzialmente per tutti ed in maniera permanente. Pochi lo dicono chiaramente ma questo è il senso dei loro discorsi.

Tendenze di lungo periodo.

Molte teorizzazioni sulla “fine del lavoro” sono presentate da chi le elabora come assolute novità. In realtà non lo sono per niente. Per Marx, che non è un autore recentissimo, il comunismo è proprio questo: una società senza lavoro o meglio, col lavoro trasformato da duro mezzo per soddisfare bisogni umani in bisogno esso stesso. Il lavoro come creatività, gioco, piacere. Non il lavoro come fatica. Marx aveva anche teorizzato la tendenza del capitalismo ad un continuo sviluppo tecnologico, ma pensava che questa positiva tendenza fosse contrastata dai rapporti di produzione capitalistici. Ne parla nel terzo libro del “capitale”, quando predice la tendenza alla caduta del saggio di profitto come inevitabile conseguenza, nel capitalismo, dello sviluppo tecnologico. Una delle previsioni marxiane più clamorosamente smentite dai fatti.
Non è qui il caso di dilungarci su questi temi, ne ho accennato solo per ricordare che certe “novità” non sono affatto tali. Vale invece la pena di chiederci: quali sono state, finora, le conseguenze di lungo periodo dello sviluppo tecnologico?

La disoccupazione tecnologica non è una invenzione di Beppe Grillo. Appare con la rivoluzione industriale e da allora accompagna le vicende dell'economia, in tutte le loro fasi. Ma è un errore fondamentale affrontare questo problema, come altri, in un'ottica unilineare ed estrapolazionista.
Molti prendono una tendenza reale, la isolano dalle altre, estrapolano da questa un certo numero di possibili conseguenze e traggono da tutto il procedimento determinate conclusioni, per lo più disastrose. Avviene questo quando si parla, ad esempio, della popolazione della terra o delle risorse naturali, con le fosche previsioni di un pianeta super affollato, o di un occidente desertico da “ripopolare” coi migranti; o ancora di un pianeta senza più materie prime, distrutte dall'umana ingordigia. Avviene lo stesso con lo sviluppo tecnologico che per alcuni dovrebbe portare ad un mondo ricchissimo di beni ma abitato da centinaia di milioni di miserabili.
Le tendenze vanno invece esaminate non isolatamente ma nelle loro reciproche relazioni, insieme alle controtendenze che ne frenano o annullano le conseguenze. Si tratta, in fondo, di una banalità, che alcuni però non riescono a capire.

Se nel processo produttivo viene introdotta una macchina che permette di produrre con 10 ore di lavoro la stessa quantità di merci che prima veniva prodotta in 100 ore una parte degli operai diventa “esuberante”. Il loro lavoro non serve più, devono essere licenziati. Ma questo accade solo se si mantiene fissa la produzione totale. Se invece di produrre la quantità X di merce si producono dieci, o venti o 100 volte X ad aumentare non è la disoccupazione, ma, al contrario, la occupazione. Ed è questo che è storicamente avvenuto, non a caso.
A partire dalla rivoluzione industriale la produzione è diventata sempre più di massa. Gli strati privilegiati come principali referenti della produzione sono stati sostituiti dalle persone comuni. Dietro ai processi di meccanizzazione prima e di automazione poi non c'è tanto l'esigenza, pure reale, di risparmiare lavoro. C'è soprattutto l'esigenza di incrementare la produttività per allargare la produzione e soddisfare mercati sempre più di ampi. Considerazioni analoghe si possono fare per il settore dei servizi.
Ricorda Piero Melograni nel bel libro “La modernità e i suoi nemici” (Mondadori 1996) che in Francia la popolazione attiva ammontava a circa 14 milioni di unità nel 1856 mentre superava i 23 milioni nel 1983. In Italia le persone attive erano 14 milioni nel 1861, erano 21 milioni nel 1990. Oggi raggiungono i 23 milioni.
Negli Stati uniti i lavoratori erano 12 milioni e mezzo nel nel 1870, sono diventati 86 milioni nel 1970, passando dal 31 al 42% del totale della popolazione globale.
Nelle epoche preindustriali il numero dei lavoratori si manteneva grosso modo stabile. Dalla rivoluzione industriale in poi il numero degli occupati è cresciuto, malgrado che uno sviluppo tecnologico senza precedenti abbia consentito un formidabile aumento della produttività del lavoro.

Ma esistono altri due fenomeni di cui tener conto per avere un quadro esaustivo della situazione. Il primo, importantissimo, è dato dalla graduale riduzione del tempo di lavoro a fronte di retribuzioni reali crescenti. Quando Engels scriveva “la situazione della classe operaia in Inghilterra” la giornata lavorativa raggiungeva le 12, a volte anche le 14 ore giornaliere. Oggi si lavora poco più, a volte meno, di 35 ore settimanali. Nei primi anni del diciannovesimo secolo molti, sventurati, esseri umani iniziavano a lavorare a 10, 12 anni e continuavano senza interruzione sino alla fine dei loro giorni. Oggi, grazie a Dio, alla tecnologia ed anche, non dimentichiamolo, a sacrosante e dure lotte dei lavoratori, esistono le pensioni e le ferie pagate. Ne “l'ambientalista scettico” (Mondadori 2003) Bjorn Lomborg ricorda che nel 1856 nel Regno unito un lavoratore trascorreva in media 124.000ore della sua vita lavorando. Oggi le ore si sono ridotte a 69.000. Nel 1856 gli uomini passavano sul lavoro il 50% della loro vita, oggi la percentuale si è ridotta al 20%, per la combinazione di allungamento della vita media, pensionamenti, ferie e riduzione della giornata lavorativa.
Infine, per valutare correttamente le tendenze di lungo periodo occorre tenere conto che lo sviluppo della tecnologia stimola l'emergere di nuovi settori produttivi. L'introduzione di un robot rende “esuberanti” degli operai alla catena di montaggio ma richiede nuovi tecnici informatici. E il generale innalzamento del tenore di vita stimola a sua volta le possibilità di investimenti differenziati. In una società in cui la gran massa della popolazione vive più o meno al livello di sussistenza non potrà di certo svilupparsi l'industria dello spettacolo o la grande distribuzione. Settori come quello bancario ed assicurativo saranno di dimensioni molto ridotte perché riservati ad una ristretta clientela di elite. Gli esempi potrebbero continuare.

Tutto va bene allora? Non ci sono problemi? NO, assolutamente NO. Guardare solo alle serie secolari, prendere in esame solo i grandi numeri può essere molto mistificante. In fondo un certo miglioramento delle condizioni di vita nel lungo periodo è sempre possibile, se non altro perché ogni generazione poggia sui risultati delle precedenti. I lunghi periodi sono fatti da periodi brevi, dentro i grandi numeri ci sono i numeri piccoli. Se perdo oggi il posto di lavoro mi consola poco sapere che l'occupazione in Italia è aumentata dal 1870 ad oggi. Se l'automazione espelle dal mercato del lavoro 10 operai ad Agrigento il loro dramma non è reso meno grave dal fatto che 10 giovani sono assunti come tecnici informatici a Milano. Le tendenze che abbiamo esaminato operano in maniera non sincronica né armonica, con frizioni e difficoltà, e tutto questo provoca gran quantità di sofferenze umane. Per questo, in fondo, esiste la politica. Per questo si fa ricorso alle manovre della liquidità, o al sostegno dei redditi, ai corsi di riqualificazione o agli ammortizzatori sociali.
E restano, ovviamente, le domande di fondo. La tendenza alla disoccupazione tecnologica è inarrestabile? Come contrastarla? Il reddito di cittadinanza è una risposta corretta?


Due casi limite teorici
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Poniamo che io lavori 40 ore la settimana per un salario reale pari a 100. Grazie alla migliore produttività del lavoro resa possibile dallo sviluppo tecnologico, e grazie anche a fior di ore di sciopero, riesco a lavorare 37 ore settimanali con un salario reale pari a 110. Lavoro meno e guadagno di più.
In un certo senso quel 10 in più che percepisco a fronte di tre ore di lavoro settimanali in meno è un reddito di cittadinanza. Se chi propone il reddito di cittadinanza chiede che la maggiore produttività del lavoro sia accompagnata da una riduzione dell'orario e da un incremento della ricchezza per i lavoratori non propone nulla di “rivoluzionario”. Si accoda semplicemente ad una tendenza già in atto da tempo. Riduzioni di orario ed incremento dei salari reali non violano però la regola aurea secondo cui redditi e lavoro devono essere collegati. Semplicemente, una cosa è collegare il reddito ad un lavoro a produttività X, altra cosa è collegarlo ad un lavoro a produttività 10X. Una cosa è dire che un lavoro più produttivo permette salari reali più elevati ed orari più brevi, cosa completamente diversa, anzi, opposta, è pretendere che il reddito sia indipendente dal lavoro, che alla base del reddito con ci sia il lavoro, più o meno produttivo, ma la “cittadinanza”.

Slegare reddito e lavoro è teoricamente prima ancora che praticamente una idiozia, se non altro per il semplicissimo motivo che
il reddito è precisamente l'utile derivante da una attività, quindi da un lavoro. Anche le rendite finanziarie, a ben vedere le cose, sono legate ad una attività lavorativa. Un titolo rende se la azienda che lo ha emesso produce. Parlare di scissione fra reddito e lavoro è una contraddizione in termini. Il reddito è tale se serve a procurarsi beni scarsi e i beni sono scarsi solo il lavoro può produrli. Il reddito è sempre legato, più o meno direttamente, al lavoro.
Per rendersene conto ancora meglio val la pena di esaminare due casi limite puramente teorici.
Immaginiamo una società completamente automatizzata. Nessuno lavora, tutti hanno a disposizione una quantità illimitata di ricchezza. Basta premere un bottone per avere tutto ciò che si vuole e questo non crea alcun problema di carenza di risorse o compatibilità ambientali. Si tratta di una situazione
radicalmente, ontologicamente impossibile, ma, prescindiamo da questo. Chiediamoci invece: avrebbe senso in una simile società parlare di “reddito”? NO, ovviamente. In una simile società saremmo tutti, insieme, ricchi e disoccupati. Non avremmo un reddito perché saremmo illimitatamente ricchi ed il reddito è invece qualcosa che permette a qualcuno di appropriarsi di beni scarsi. Nel paese di bengodi non esistono redditi perché non esistono economia e calcolo economico.
Immaginiamo ora una società, anch'essa radicalmente impossibile, in cui tutti vivano in meditazione trascendentale, si limitino a respirare e a mangiare ogni tanto qualche filo d'erba. Avrebbe senso in questa società parlare di “reddito di cittadinanza”? Di nuovo la risposta è
NO. In una simile società saremmo tutti poveri e tutti disoccupati, ma questo non interesserebbe a nessuno. La povertà sarebbe un valore bene accetto da tutti. Anche questa società sarebbe priva di economia, quindi di redditi. Esistono i redditi laddove esiste economia, calcolo economico, scarsità e necessità di misurare costi e benefici. Non esiste economia né in paradiso né all'inferno. E neppure esiste economia in una società di asceti. E dove non esiste economia non esistono redditi di nessun tipo, meno che mai redditi “di cittadinanza”.


Il vero problema.

Il vero, grande, problema non è lo sviluppo tecnologico, è il suo andamento non armonico, diseguale
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Nel settore A, ad elevato sviluppo tecnologico, viene inserita una innovazione che permette di produrre merci a costi ridotti e venderle a 10. Il settore B, a sviluppo tecnologico minore, continua invece a produrre e vendere a 100. Questo sbilancio nei prezzi relativi può creare grossi problemi di occupazione proprio in A. I prezzi elevati in B contribuiscono infatti, o possono contribuire, a portare i salari in A ad un livello incompatibile con nuovi investimenti. Nella determinazione dei salari in A entrano infatti le valutazioni dei prezzi in B, specie se questi riguardano beni di largo consumo. I salari in A rischiano in questo modo di attestarsi ad un livello incompatibile con ampliamenti della produzione e questo provoca eccessi di manodopera. Non si sta dicendo, deve essere chiaro, che il settore A, tecnologicamente avanzato, entrerà in crisi, cesserà di essere all'avanguardia. Si dice solo che in quel settore, a fronte di innovazioni che permettono di “risparmiare” lavoro, non ci sarà (potrebbe non esserci) un aumento della produzione che ne compensi l'impatto negativo sull'occupazione.
In se l'innovazione tecnologica rende possibile sia la riduzione degli orari che il maggior valore reale delle retribuzioni. E' la
disarmonia nello sviluppo tecnologico a creare problemi di eccedenza di forza lavoro.
Se
tutta l'economia fosse in grado di produrre grandi quantità di beni a costi minimi non si creerebbero particolari problemi di occupazione. Ma se solo alcuni settori riescono a raggiungere standar elevatissimi di produttività i problemi ci sono, eccome! Se una azienda agricola produce tonnellate di arance che possono essere vendute per pochi centesimi l'una e se con quei pochi centesimi chi vende arance non può comprare il pane che invece è prodotto a costi molto più elevati, si pongono, proprio per l'azienda agricola, problemi di sovraproduzione, quindi di eccedenza di manodopera.

Si può far fronte ad una simile situazione regalando indistintamente soldi alla gente? No, ovviamente. Fermo restando che
nessuna politica economica è in grado di risolvere tutti i problemi, le soluzioni migliori vanno cercate nel trasferimento del lavoro dai settori in cui questo è meno utile a quelli in cui è più utile e, soprattutto, in politiche espansive volte a rendere meno onerosi gli investimenti e a diffondere il più possibile lo sviluppo tecnologico a tutti i settori dell'economia. Naturalmente sono necessarie anche politiche di sostegno dei redditi di chi venga a trovarsi espulso dal mercato del lavoro, combinate con vasti programmi di riqualificazione professionale. Ma, val la pena di ripeterlo, una cosa è il sostegno dei redditi in vista di un reinserimento nel mercato del lavoro, cosa opposta l'elargizione di redditi slegati dal lavoro.

Il reddito di cittadinanza
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Occorre chiedersi: la proposta del M5S sul reddito di cittadinanza può essere considerata una “normale” proposta di sostegno dei redditi? E' corretto presentarla come un aiuto dato a chi si trova fuori dal mercato del lavoro in vista di un suo reinserimento? Per rispondere la si deve esaminare con un minimo di attenzione.

Il reddito di cittadinanza prevede l'erogazione di un sussidio pari a 780 euro per chi è senza reddito o ha un reddito inferiore a tale soglia, di 1.014 euro per un genitore solo con un figlio minore e di 1.638 euro per una coppia con due figli minori. Il sussidio dovrebbe andare sia ai cittadini italiani che ai residenti in Italia da almeno due anni.
Qui vale subito la pena di fare due considerazioni. La prima è che estendere il reddito di cittadinanza anche a chi cittadino italiano non è costituisce un formidabile incentivo per la immigrazione clandestina. La seconda, più importante, riguarda l'ammontare del sussidio. Dovrebbe essere evidente che un sostegno del reddito non dovrebbe esser tale da disincentivare chi lo riceve dal cercare un lavoro. Ora, in Italia c'è un sacco di gente che lavora per meno di 780 euro. Uno stipendio di 1.638 euro è poi più o meno uguale a quanto guadagnano moltissimi lavoratori, e non dei più disagiati. Non si vede davvero perché guadagnando senza far nulla 1.638 euro mensili qualcuno si dovrebbe prendere la briga di cercarsi un lavoro regolare. E' molto più probabile che si cerchi, semmai, un lavoro in nero che gli dia un reddito esentasse da affiancare al “reddito di cittadinanza”. Oltre che la immigrazione clandestina questo è destinato a favorire l'area del sommerso.
Continuiamo. Chi beneficia del reddito dovrà rinunciarci se rifiuta per te volte consecutive l'offerta di un centro per l'impiego. Non basta un rifiuto, ce ne vogliono addirittura
TRE!
Non solo, l'offerta rifiutata deve avere le seguenti caratteristiche:
1) Essere attinente alle caratteristiche professionali di chi usufruisce del reddito di cittadinanza. Altro che reddito di sostegno in vista di un reinserimento nel mercato del lavoro! Per essere reinserito nel mercato del lavoro qualcuno deve adeguare le proprie caratteristiche professionali a quanto richiesto dallo stesso. Ma ai grillini questo particolare interessa poco. Se sono un pizzaiolo mi si dovrà offrire un nuovo posto di pizzaiolo, e basta. Fantastico!
2) La paga oraria deve essere pari almeno all'ottanta per cento della paga percepita nel lavoro di provenienza. Avevo un lavoro retribuito con 2.000 euro mensili. Lo perdo ed usufruisco di un”reddito di cittadinanza” di 1.638 euro. Mi si offre un lavoro retribuito con 1.590 euro. Lo posso rifiutare perché la paga risulta inferiore all'ottanta per cento dei 2.000 euro che percepivo originariamente. Insomma, rifiuto un lavoro da 1.590 euro e mi tengo i 1.638 del reddito di cittadinanza. Non fa una piega!
3) Il luogo di lavoro deve essere situato nel raggio di 50 chilometri dal luogo di residenza e deve essere raggiungibile entro ottanta minuti con i mezzi pubblici. Io ho lavorato per anni in località distanti oltre un centinaio, in un caso addirittura due centinaia, di chilometri dal mio comune di residenza. Avrei avuto diritto ad un super reddito di cittadinanza!
Bastano queste scarne note per capire che in nulla il reddito di cittadinanza può essere spacciato per un normale sostegno dei redditi affiancato da una azione di formazione finalizzata al reinserimento nel mercato del lavoro. Si tratta in realtà di un reddito
sostitutivo del lavoro. Nulla di strano visto che Grillo ha da sempre teorizzato esplicitamente che deve essere rotto il legame fra lavoro e reddito.
E' inoltre davvero divertente vedere da dove i grillini vogliono tirar fuori le coperture di questa loro trovata. Un po' di soldini dovrebbero venir fuori dalla riduzione delle indennità parlamentari, dal taglio del finanziamento pubblico ai partiti, dalla riduzione della auto blu ed altre simili facezie. Si dovrebbero poi tassare le “pensioni d'oro”, quindi per regalare soldi a Tizio occorre toglierne a Caio che la pensione si presume se la sia pagata versando fior di contributi. E non basta. I seguaci del comico genovese chiedono la “riduzione delle detrazioni Irpef” che consentirebbe di avere a disposizione ben 5,3 miliardi di euro. Insomma, per pagare il reddito di cittadinanza dovremmo, tutti, pagare più tasse. Dovrebbero pagarle anche coloro che lavorano guadagnando 1.600 euro al mese, lo stesso che i grillini vogliono regalare a chi non lavora. Val la pena di aggiungere che un simile inasprimento fiscale renderebbe più difficile qualsiasi politica espansiva.
Molto interessanti anche le tassazioni su banche ed assicurazioni da cui i “grillini” pensano di ricavare circa 2 miliardi. Non li sfiora neppure l'idea che banche ed assicurazioni hanno un fondamentale ruolo nella creazione della ricchezza e che un aumento della pressione fiscale a loro carico potrebbe rendere più difficile l'erogazione del credito quindi la crescita economica. Stesso discorso vale per la tassazione delle trivellazioni petrolifere che dovrebbe rendere, dicono loro, circa un miliardo e mezzo. Qualcuno dovrebbe spiegare a questi sapientoni che si trivella per cercare il petrolio e che il petrolio ha una leggerissima utilità economica.
Da morire dalle risate infine la proposta della abolizione degli enti inutili. Negli enti definiti inutili lavora un bel po' di gente, che resterebbe disoccupata nel caso questi venissero aboliti. Che fare con questi disoccupati? Semplice, dar loro il reddito di cittadinanza.

Direi che basta.
Non siamo di fronte a qualcosa che assomigli anche lontanamente a politiche di sostegno del reddito combinate con scelte espansive di politica economica. Quando non sono pura demagogia o pagliacciate da circo Barnum le proposte grilline mirano a finanziare il famoso reddito di cittadinanza con misure deflattive. Si impedisce la crescita economica per garantire un reddito a chi è danneggiato dal blocco della crescita! Non c'è nulla di casuale in tutto questo. E' semplicemente la messa in atto di una ideologia che affonda le sue radici nella teoria della “decrescita felice”. Una teoria che considera “obsoleto” il lavoro vero e che spaccia per possibile e desiderabile il ritorno ad una economia di auto consumo. Riproposizioni di quelle che a suo tempo Marx definiva utopie reazionarie, fatte tra l'altro senza il minimo approfondimento teorico né la minima conoscenza di ciò di cui si sta parlando.
Qualcuno potrebbe definirlo un film comico. Viste le conseguenze che una simile stronzata può avere preferisco definirla la comica finale.

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