Scrive Ludwig Wittgenstein in “Ricerche
filosofiche”:
“Supponiamo che ciascuno abbia una
scatola in cui c'è qualcosa che che noi chiamiamo 'coleottero'.
Nessuno può guardare nella scatola dell'altro; e ognuno dice di
sapere cos'è un coleottero soltanto guardando il suo
coleottero. Ma potrebbe ben darsi che ciascuno abbia nella sua
scatola una cosa diversa. Si potrebbe addirittura immaginare che
questa cosa mutasse continuamente. Ma supponiamo che la parola
'coleottero' avesse tuttavia un uso per queste persone! Allora non
sarebbe quello della designazione di una cosa. La cosa contenuta
nella scatola non farebbe parte in nessun caso del gioco linguistico;
nemmeno come un qualcosa: infatti la scatola potrebbe essere
vuota.” (1)
Qui Wittgenstein sta affrontando il tema del
linguaggio privato. Il linguaggio si riferisce alle nostre
sensazioni, indica cosa c'è dentro ogni parlante, affermano i
teorici del linguaggio privato. Se dico: “vedo una macchia rossa”
mi riferisco alla mia sensazione di rosso, a qualcosa di
privato che è, e non può che essere, solo mio. Il linguaggio
esprime gli stati interni, ma ogni stato interno è solo della
persona che parla, di quella e di nessun'altra. Se Tizio dice a Caio:
“provo dolore” Caio può capire cosa significhi la frase di
Tizio? Partendo dai presupposti del linguaggio privato la risposta
non può che essere no. Il dolore di Tizio è solo il suo
dolore, esattamente come il coleottero chiuso nella sua scatola è
solo il suo coleottero. Il linguaggio però è qualcosa che relaziona
gli esseri umani. Se una certa parola per me significa qualcosa deve
significare lo stesso anche per gli altri, se le cose non stessero
così non esisterebbe comunicazione, quindi neppure linguaggio. Ma
come è possibile una simile generalizzazione partendo dai
presupposti del linguaggio privato?
“Se dico di me stesso che
soltanto dalla mia personale esperienza io so cosa significa la
parola 'dolore', non debbo dire la stessa cosa anche agli
altri? E come posso generalizzare quest'unico caso in maniera così
irresponsabile?” (2)
Se le parole significano i miei stati
interni come posso generalizzarne il significato?come possiamo io e
Tizio comunicarci il significato di parole come “dolore” o
“rosso” se “rosso” o “dolore” sono qualcosa di
assolutamente interno, di mio, o di suo? Se le parole
si riferiscono a stati interni allora il modello “oggetto –
designazione diventa insensato.
“Se si costruisce la grammatica
dell'espressione di una sensazione secondo il modello 'oggetto e
designazione', allora l'oggetto viene escluso dalla considerazione,
come qualcosa di irrilevante” (3).
L'oggetto di designazione
scompare: è come il coleottero chiuso nella scatola, qualcosa che
nessuno conosce tranne il proprietario della scatola e che pertanto
non può essere oggetto di discorso, comunicazione, linguaggio.
Parlando del linguaggio privato Wittgenstei polemizza
implicitamente col Cartesio delle “Meditazioni metafisiche”.
In queste Cartesio si misura col dubbio, un dubbio totale,
onnicomprensivo. Io non posso esser certo di nulla, afferma Cartesio.
Gli oggetti che vedo, sento e tocco potrebbero essere solo un insieme
di sensazioni, o di rappresentazioni, il nome in fondo poco conta,
in me. Certo, quando vedo un albero o il mare sono del tutto
certo che qui c'è l'albero e lì il mare, ma anche quando sogno ho
la sensazione di vivere una vita reale, circondato da oggetti reali,
eppure... sto sognando. Come faccio allora ad essere indubitabilmente
certo dell'esistenza del mondo che mi circonda, del mio stesso corpo?
Non posso esserlo, questa la desolante conclusione di Cartesio. Anzi,
non posso esser certo neppure di verità che da sempre appaiono
indubitabili, come le verità matematiche. Potrebbe infatti esserci
un genio maligno che mi induce continuamente in errore su tutto.
Cartesio immagina un essere pensante solo, tragicamente solo, in un
oceano tenebroso di dubbio. L'esistenza del mondo fisico e degli
altri esseri umani, le stesse verità matematiche non poggiano su
alcuna incrollabile base di certezza. Il dubbio cartesiano sfocia
coerentemente nel solipsismo più radicale e distruttivo.
“
Ora, chi può assicurarmi che questo Dio non abbia fatto in modo che
non vi sia niuna terra, niun cielo, niun corpo esteso, niun luogo e
che tuttavia io senta tutte queste cose e tutto ciò mi sembri
esistere non diversamente da come lo vedo? Ed inoltre, come io
giudico qualche volta che altri mi ingannino anche nelle cose che
credono di sapere con la maggior certezza, può essere che Egli abbia
voluto che io mi inganni tutte le volte che fo l'addizione di due e
di tre, o che enumeri i lati di un quadrato o che giudico di qualche
altra cosa ancora più facile...” (4)
Una simile, malvagia
volontà di inganno non può essere attribuita a Dio, si affretta ad
aggiungere Cartesio, perché Dio è infinitamente buono, si può
tuttavia supporre “che vi sia non già un vero Dio che è fonte
sovrana di verità, ma un certo cattivo genio non meno astuto e
ingannatore che possente che abbia impiegato tutta la sua industria
ad ingannarmi” (5).
“Salvata”, per ovvi motivi, la bontà
divina la X pensante di Cartesio si ritrova, sola, immersa nel
dubbio cosmico.
Sappiamo quale è per Cartesio la via d'uscita da
una simile, angosciosa, situazione. C'è qualcosa d cui non posso
dubitare: il fatto di stare dubitando, quindi pensando. Ma se penso
esisto, di questo posso essere assolutamente certo. Lo stesso genio
ingannatore non può distruggere questa mia incrollabile
certezza.
“Non v'è dunque dubbio che io esisto, s'egli mi
inganna; e m'inganni fin che vorrà, egli non potrà mai fare che io
sia nulla, fino a che penserò di essere qualcosa” (6)
Penso,
esisto, questa la verità prima, incrollabile. Una verità che
riguarda i miei stati interni e solo quelli. Una volta
raggiunta questa base incrollabile Cartesio procede dimostrando
l'esistenza di Dio e, come conseguenza, del mondo, dei corpi, delle
altre menti e degli altri esseri umani. Il dubbio solipsistico è
battuto ed il sapere posto su una granitica base di certezza.
Non
è questa la sede per seguire il complesso itinerario cartesiano, né
per esaminare le varie obiezioni cui questo è stato sottoposto, né
ancora per cercare di avanzare risposte a vari argomenti scettici
(quello del sogno, ad esempio). Quello che qui interessa sottolineare
è la assoluta preminenza accordata da Cartesio agli stati interni.
Di ciò che è in me non posso dubitare. Non so se esista l'albero ma
so di provare la sensazione, o l'impressione, dell'albero.
C'è
però una cosa di cui Cartesio sembra non rendersi conto: del fatto
di usare, per esprimere il suo dubbio solipsistico, il linguaggio
privato. Di conseguenza Cartesio salva dal dubbio una cosa molto
importante: la costanza di significati del linguaggio
stesso.
Dubito di tutto, afferma Cartesio, ma non dubita del
fatto che parole come “dubbio”. “pensare”, “verità”,
“genio ingannatore” ed altre conservino il loro significato nel
corso del tempo. Cartesio arriva a scoprire la base incrollabile di
ogni certezza nel cogito, ma ci arriva usando un linguaggio che non
può essere altro che il suo linguaggio privato, basato su sensazioni
e ricordi di sensazioni. Se l'interno ha la assoluta preminenza
sull'esterno il linguaggio con cui il pensante si esprime deve essere
il linguaggio interno, il suo discorso un dialogo con se stesso.
Ma
è possibile una cosa simile? Qui si innesta la critica di
Wittgenstein.
Il linguaggio privato si riferisce agli stati
interni del soggetto unificati e di volta in volta richiamati dalla
sua memoria. Ma, lo si è visto, con l'argomento del coleottero, gli
stati interni sono solo e inesorabilmente privati. Se il termine
“coleottero” significasse ciò che solo io vedo, l'ospite della
mia privatissima scatola, inaccessibile a tutti tranne che a me, se
questo fosse il suo significato, tale termine non potrebbe far parte
di un discorso intersoggettivo. Tutti, o molti, sanno cosa significa
“coleottero”, usano questo termine nel linguaggio di tutti i
giorni, ma, se il discorso sul linguaggio privato è fondato, questa
è solo una illusione. Il “tuo” coleottero è qualcosa di
assolutamente diverso dal “mio” e nessun paragone è possibile
fra i due. Io e te che parliamo di coleotteri in realtà facciamo
discorsi che non significano nulla. Il linguaggio privato, che
Cartesio usa senza probabilmente rendersene conto, rende insensata la
comunicazione fra soggetti diversi. Questa però non è una critica
definitiva al dubbio cartesiano. Cartesio infatti accetta di buon
grado, all'inizio delle sue “meditazioni”, l'isolamento
solipsistico. Il suo soggetto che dubita è solo al mondo, dialoga
con se stesso. E' solo più avanti, con la scoperta del “cogito”
e la dimostrazione dell'esistenza di Dio che si apre al discorso con
gli altri. Però... però è possibile questo iniziale dialogo con se
stesso? La domanda è fondamentale ed a questa Wittgenstein risponde:
NO. Il linguaggio privato non distrugge solo la possibilità
di un discorso intersoggettivo, rende impossibile anche il dialogo
del soggetto con se stesso, mina l'unità dell'io pensante quindi
anche la possibilità stessa del pensiero.
“Immaginiamo”
scrive Wittgenstein sempre nelle ricerche filosofiche, “una
tabella che esista solo nella nostra memoria, per esempio, un
vocabolario. Mediante un vocabolario possiamo giustificare la
traduzione di una parola X con una parola Y. Ma sarà
il caso di parlare di giustificazione anche quando questa tabella
venga consultata solo nell'immaginazione? Ebbene, si tratterà
appunto di una giustificazione soggettiva. Ma la giustificazione
consiste nell'appellarsi ad un ufficio indipendente. Posso però
anche appellarmi al ricordo di un altro. Per esempio, non so se mi
sono impresso esattamente nella memoria l'ora di partenza del treno
e, per controllare l'esattezza di questo ricordo richiamo alla
memoria l'immagine dei fogli dell'orario delle ferrovie. Non ci
troviamo qui di fronte allo stesso caso? No; perché questo
procedimento deve effettivamente evocare il ricordo esatto. Se
non fosse dato controllare l'esattezza dell'immagine mentale
dell'orario ferroviario, come potrebbe questa confermare l'esattezza
del ricordo precedente? (sarebbe come acquistare più copie dello
stesso giornale per assicurarci che le notizie in esso contenute
siano vere)”. (7)
Il soggetto di Cartesio è solo con le sue
sensazioni che si trasformano immediatamente in ricordi. Ogni
controllo sulla esattezza dei ricordi si basa sul confronto fra un
ricordo e l'altro, si tratta quindi di un controllo che non porta a
nulla, non può garantire certezza alcuna, esattamente come comprare
più copie dello stesso giornale non ci permette di verificare
l'esattezza di quanto quel giornale riporta. Il discorso di
Wittgenstein qui non è affatto contrario a quella cosa che alcuni
filosofi disprezzano in massimo grado: il senso comune. Ognuno di noi
ricorda qualcosa perché controlla costantemente i propri ricordi con
la corposa realtà del mondo. So dove si trova casa mia perché ci
vivo gran parte del mio tempo. Ricordo cosa pensa una tal persona
perché parlo spesso con lei. Ricordo cosa dice Kant nella prima
critica perché ogni tanto do un'occhiata ad un vetusto volume. Se
cerco un indirizzo in una città che che non visito da moltissimo
tempo consulto una mappa o chiedo informazioni. Ogni ricordo si
rapporta al mondo, è ricordo del mondo. Si riduca tutto a
ricordo e a ricordo di ricordo e non solo non si ha più diritto
di parlare di esattezza dei ricordi, ma la stessa unità dell'io
ricordante si sfalda.
Cartesio non è uno scettico, al
contrario, vuole fondare la scienza su alcune indubitabili certezze.
Parte dal dubbio per raggiungere una verità indubitabile su cui
costruire l'edificio del sapere. Il suo punto di partenza sono gli
stati interni perché è convinto della loro assoluta superiorità
rispetto alle percezioni esterne. Ma, come sottolinea Roger Scruton
in “filosofia moderna compendio per temi”, questa
convinzione si basa su una illusione grammaticale. Cartesio riduce
tutto ai suoi stati interni, qualcosa di unicamente, rigorosamente
“suo”, e, senza neppur rendersi conto dell'incongruenza, cerca di
esprimerli usando un linguaggio pubblico, intersoggettivo,
l'unico che possa avere un senso.
Per Cartesio l'unica,
indubitabile verità è il “cogito”. Penso, esisto, su questo il
genio malefico non può ingannarmi. Kant sosterrà, nella
“confutazione dell'idealismo” aggiunta alla seconda
edizione della “critica della ragion pura” che l'io
pensante può avere coscienza della sua permanenza nel tempo solo se
inserto in un mondo di oggetti permanenti che esistono fuori di lui,
nello spazio. Wittgenstein sottoporrà ad ulteriore critica il
“cogito” cartesiano contestando la possibilità stessa del
linguaggio privato, l'unico che il soggetto solipsistico di Cartesio
possa usare (ma che in realtà non usa perché il linguaggio
non può essere privato)
Il linguaggio non può che essere
pubblico, questo è il punto decisivo. Un linguaggio non è
qualcosa che appartenga ai singoli soggetti, al contrario relaziona
fra loro i diversi soggetti. Senza una pluralità di parlanti (e
pensanti, e scriventi) non esiste linguaggio. E non esiste senza
regole grammaticali, sintattiche, semantiche, pubbliche. La parola
“demone” ha quel certo significato perché questo è fissato
nelle regole del linguaggio e prima ancora negli atteggiamenti di
coloro che di quel linguaggio fanno uso. La proposizione. “Giovanni
è un uomo” ha senso. “Giovanni perlopiù metafisica” invece
non ha senso alcuno perché l'accostamento a casaccio di parole
contravviene ad ogni regola pubblica del linguaggio e, prima ancora,
perché nessuna comunità di esseri razionali si esprime in modo
simile, a meno che qualcuno non voglia fare esempi di non senso o
divertirsi a dire cose insensate (la supercazzola).
Ribadire
che il linguaggio è qualcosa di pubblico non risolve però tutti i
problemi. Gli stati interni esistono, ovviamente. Noi non vediamo le
immagine mentali del mondo ma il mondo tramite le nostre immagini
mentali. Questo elimina la possibilità del soggettivismo scettico ma
anche di ogni tentativo di ridurre l'essere umano ai suoi
comportamenti, eliminando il “mentale”. Un simile eliminazione
non è solo assai discutibile sul piano scientifico, ma porta ad un
radicale impoverimento dell'uomo, lo trasforma in un robot privo di
anima. Il mentale, l'interno esistono quindi; ognuno di noi sente di
essere vivo e, da vivo, il centro unificante della propria
esperienza, Ma come entra l'interno, per definizione privato,
soggettivo, in un linguaggio pubblico? Questa la difficoltà.
Può aiutarci a risolverla la distinzione di
Wittgenstein fra sintomi e criteri.
Il sintomo
indica l'esistenza di qualcosa, il criterio rappresenta la condizione
identificativa di questo qualcosa. Il fumo può essere sintomo di un
incendio, ma le fiamme che divorano un bosco, il fumo che oscura il
cielo, il crepitio del legno descrivono la situazione che designiamo
col termine “incendio”.
Scrive John Searle in “vedere le
cose come sono”:
“Wittgenstein fa notare che dobbiamo
distinguere fra 'criteri' e 'sintomi'. Se vedo un uomo che, mentre
stringe il proprio fianco, fa delle smorfie, potrei inferire
che egli ha male al fianco. Sta manifestando i sintomi del
provare dolore. Ma se vedo un uomo che è appena stato investito da
un'automobile e posso vedere la sua gamba che viene tirata sotto
dall'automobile e lo sento urlare dal dolore, allora ciò che osservo
in questo caso non sono i sintomi del dolore; questa è (...) una
situazione che chiamiamo 'provare dolore' ” (8)
Il sintomo ci fa
inferire qualcosa, il criterio mostra la situazione in
cui è lecito dire che questo qualcosa esiste. Se Tizio dice di
sentire dolore allo stomaco posso inferire che forse egli ha una
gastrite, me se urla, si contorce, ha conati di vomito non faccio
nessuna inferenza fra questi comportamenti ed il suo stato interno
chiamato “dolore”. Dico semplicemente: “Tizio prova dolore”
perché la sua situazione è quella cui ci riferiamo con le parole
“provare dolore”.
Ovviamente possiamo sbagliarci. Tizio si può
dimenare ed urlare e non provare dolore: sta fingendo; ma, appunto,
sta fingendo di provare dolore, esibisce i criteri del dolore, ne
simula la situazione. Potrebbe essere, continua Searle riferendosi
all'esempio dell'uomo investito da una macchina “ che tutto
l'accaduto fosse parte di un film di Holliwood (…) ma è importante
notare che (...) la scena recitata è precisamente quella di un uomo
che 'prova dolore'. Vale a dire: in questo caso (…) il gioco
linguistico dell'attribuire dolore è tale che questo è un caso che
legittimamente chiamiamo dolore perché i criteri sono
soddisfatti” (9).
Gli stati interni esistono ed hanno la massima
importanza, ma quando ci relazioniamo gli un agli altri altri usando
un linguaggio pubblico non mettiamo in atto alcuna inferenza fra le
cose che i nostri interlocutori ci dicono ed i loro stati interni.
Semplicemente sappiamo ciò di cui noi e loro stiamo parlando perché
comprendiamo il linguaggio che stiamo usando ed i criteri
che di questo fanno parte. Se Tizio mi dice che è appena stato dal
dentista ed ora ha mal di denti capisco ciò che dice, non effettuo
alcuna inferenza per arrivare al suo stato interno, so, senza dubbio alcuno, cosa sia il dolore che prova
Molte tesi sia del “primo” che del
“secondo” Wittgenstein sono discutibili ovviamente. L'attacco
alla possibilità stessa della metafisica presente nel “tractatus”
non mi pare accettabile e Il suo insistere, nelle “ricerche”
sullo stretto rapporto fra significato e giochi linguistici può
portare, forse, a forme inaccettabili di relativismo. Con tutto
questo Wittgenstein resta, a modesto parere di chi scrive, uno dei
più grandi, forse il più grande, pensatore dello scorso
secolo. Il suo attacco al linguaggio privato è fondamentale per
smontare il nichilismo solipsistico dello scetticismo radicale, ed in
una direzione simile vanno, sempre a modesto parere di non
esperto, le sue riflessioni sulle proposizioni di senso comune cui
lavorò sino a due giorni prima di morire.
In un'epoca di
imbecilli “post - qualcosa” (post moderni, post comunisti,
post liberali, post politici, post industriali, post filosofi)
seguire Wittgenstein nel suo stile telegrafico è spesso assai arduo,
ma assomiglia al respirare l'aria pura di montagna mentre si effettua
una faticosa escursione. Si è stanchi, sudati, i muscoli dolgono. Ma
ci si sente sottilmente appagati.
Note
1) L. Wittgenstein: Ricerche filosofiche in “i
grandi filosofi Wittgenstein”. Ed sole 24 ore 2007 pag. 405.
2)
Ibidem pag. 405
3) Ibidem pag. 406
4) R. Descartes: Meditazioni metafisiche. La Nuva Italia
1983 pag. 21.
5) Ibidem pag. 22
6) Ibidem pag. 27
7) L.
Wittgenstein, op. cit. pag.397 - 398. Sottolineature di W.
8) John
Searle: Vedere le cose come sono. Raffaele Cortina editore 2015 pag.
231.
9) Ibidem pag. 231 sottolineatura di S.
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