martedì 24 settembre 2013

PARADOSSO, DUBBIO E RELATIVISMO. UN BREVE EXCURSUS




Cadono nell'auto contraddizione e rischiano di cadere nel paradosso del mentitore tutte quelle filosofie che fanno affermazioni riguardanti la totalità del mondo evidenziando nel contempo l'impossibilità della umana ragione ad avvicinarsi almeno un po' al vero. In misura ancora più accentuata rischiano di cadere nel paradosso tutte le filosofie che non solo negano la possibilità dell'uomo di conoscere qualcosa di vero me rifiutano il concetto stesso di verità. La stessa, notissima affermazione socratica: “so di non sapere” si avvicina pericolosamente al paradosso del mentitore: se so di non sapere qualcosa so. L'ignoranza socratica sfugge tuttavia al paradosso perché non è, esplicitamente, una ignoranza assoluta, totale, non comprende nell'ignoranza la affermazione positiva del non sapere. Almeno qualcosa io la conosco: la mia ignoranza, e, a considerare bene le cose, non si tratta di una conoscenza da poco. Conoscere il fatto che si è ignoranti significa conoscere qualcosa del mondo e dell'uomo e questo è un importantissimo punto di partenza per la ricerca del vero. Ed in effetti tutta la vita di Socrate è stata una costante, tenace, ricerca della verità. Nel momento stesso in cui ammette la sua ignoranza Socrate cerca il vero, di tutto chiede: “cosa è?” e sottopone ad accuratissima analisi razionale le varie riposte alla sua terribile domanda. “Cosa è il coraggio? Cosa sono la virtù, la santità, l'amore?” chiede Socrate e non si accontenta di nessuna risposta, analizza, approfondisce, cerca la verità, anche se non riesce a trovarla. La tensione al vero salva l'ignoranza socratica dalle sabbie mobili del paradosso e dello scetticismo.

Le varie forme di relativismo si avvicinano tutte al paradosso del mentitore. Naturalmente ci stiamo riferendo al relativismo inteso in senso “forte”, non a quel relativismo innocuo e del tutto accettabile che sottolinea il carattere sempre limitato, correggibile e falsificabile delle umane conoscenze e che si identifica in ultima analisi col pluralismo.
La prima e forse ancora la migliore forma di relativismo “forte” resta a mio avviso quella di Protagora secondo cui “l'uomo è la misura di tutte le cose”.
Platone conduce nel “Teeteto” una critica serrata del relativismo di Protagora. Val la pena di seguirla attentamente.
Per Protagora l'uomo, lo si è già detto, è la misura di tutte le cose. A Tizio lo zucchero appare dolce, ma Caio sente un sapore amaro toccando lo zucchero con la lingua; un certo oggetto sembra leggero a Carlo e pesantissimo ad Anna. Gli esseri umani hanno sensazioni diverse e non esiste un criterio universale per determinare a quale sensazione corrisponda la verità. La verità quindi non esiste, varia da uomo a uomo e, nello stesso uomo, da momento a momento, da luogo a luogo. Quello che, visto da una certa prospettiva, mi appariva celeste mi appare ora, da una diversa angolazione, verde, quello che per me è oggi un suono rilassante potrebbe risultarmi irritante domani, si potrebbe continuare.
Ma se le cose stanno così, se cioè è la sensazione soggettiva del momento ad essere la misura del vero, perché mai dovrebbe essere
l'uomo la misura di tutte le cose?
“Come mai” si chiede Socrate “principiando quel suo libro su
la verità (Protagora) non abbia detto così che di tutte le cose è principio il porco o il cinocefalo o qualunque altro anche più strano essere capace di sensazione. In codesto modo fin dal principio egli ci avrebbe parlato con un magnifico e grandioso dispregio, mostrandoci che mentre noi lo ammiravamo per il suo sapere come un dio, in realtà egli non valeva per intelligenza niente di meglio non dico di altr'uomo qualsiasi, ma nemmeno di un girino o di una ranocchia” (1)
Il discorso del Socrate platonico in effetti non fa una grinza. Se la verità coincide con la sensazione soggettiva allora non si capisce perché Protagora debba essere considerato più sapiente di qualsiasi altro né perché debba essere
l'uomo la misura di tutte le cose. Anche i maiali hanno sensazioni, quindi si potrebbe dire che è il maiale la misura di tutte le cose...
In questa fase del dialogo Platone evidenzia le conseguenze nichiliste del relativismo di Protagora: “Se per ognuno sarà vera quella opinione ch'egli si forma da ciò che sente, né quel che capita ad uno sarà capace un altro di giudicarlo meglio di quello, né mai alcuno avrà maggiore autorità di valutare l'opinione di un altro se è vera o se è falsa, bensì, come si è detto più volte, ciascuno potrà avere opinioni di ciò che direttamente lo tocchi, e queste opinioni tutte quante saranno giuste e vere; perché mai, o amico, Protagora soltanto aveva da esser sapiente?” (2)
Non siamo ancora al paradosso ma ci stiamo avvicinando ad esso. Che senso ha che qualcuno insegni qualcosa ad altri se tutte le opinioni sono vere? E' nel proseguo del dialogo tuttavia che il Socrate platonico evidenzia le contraddizioni logiche in cui si avviluppa il relativismo di Protagora.
“Se nemmeno Protagora avesse mai pensato che l'uomo è misura, né lo avesse pensato, come difatti non lo pensa, la maggioranza degli uomini, necessariamente questa verità che Protagora ha così definita e predicata non esisterebbe per nessuno; se invece fu, si, pensiero di Protagora, ma la maggioranza non vi consente, tu capisci, anzi tutto, che quanto maggiore è il numero di coloro a cui questa verità non pare di quelli a cui pare, tanto di più essa non è di quello che è (…). Protagora relativamente alla propria opinione (che l'uomo è la misura) in quanto riconosce che tutte le opinioni degli uomini sono vere viene ad ammettere che sia vera anche la opinione di coloro che alla sua si oppongono e per la quale essi ritengono che egli abbia opinione falsa.” (3)
Se la verità coincide con l'opinione soggettiva allora è vera anche l'opinione di chi nega che l'opinione coincida con la verità: il relativismo di Protagora è auto contraddittorio, anche se non da vita alla forma perfetta del paradosso del mentitore. La proposizione: “tutte le opinioni sono vere” non può essere vera, infatti, come ben argomenta Platone, se sono vere tutte le opinioni, risultano vere anche quelle che dichiarano falsa la proposizione “tutte le opinioni sono vere”. Questa proposizione però può essere falsa: il suo essere falsa non la rende vera. Infatti è una proposizione che può essere falsificata dal semplice fatto che esistono alcune opinioni false e questo ovviamente non la rende vera.
Pur non dando vita ad una situazione paradossale identica a quella rappresentata dal paradosso del mentitore il relativismo di Protagora resta comunque auto contraddittorio; anzi, non dando vita ad una situazione identica a quella del paradosso del mentitore il relativismo di Protagora è in una posizione forse anche peggiore rispetto a questo: la verità del relativismo implica necessariamente la sua falsità ma la sua falsità non implica altrettanto necessariamente la sua verità.




I grandi problemi logici e filosofici sono gli stessi, o quanto meno, sono molto simili, sotto tutti i cieli, anche se, ovviamente, a latitudini diverse esistono interessi e sensibilità diverse e le soluzioni ai problemi logici e filosofici possono divergere nettamente (questo del resto accade molto spesso anche alla stessa latitudine...).
Nell'antica Cina i seguaci di Mo Tze, oppositore e insieme grande ammiratore di Confucio, sottopongono a critica alcune teorie della scuola dei nomi e dei taoisti con argomenti che ricordano la confutazione platonica del relativismo di Protagora.
“Apprendere è utile” affermano i tardo mohisti in polemica contro la negazione taoista della necessità dell'apprendimento, “la prova è data da quelli stessi che vi si oppongono (…) affermare che gli uomini non sanno che l'apprendere è inutile, è informarli che l'apprendere è inutile; questo è insegnare. Ritenere che l'apprendere è inutile e nello stesso tempo insegnare, questo è incongruente”(4)
Ed ancora: “Ritenere che ogni parlare sia incoerente è incoerente (…) se il parlare di di quest'uomo (colui che sostiene la tesi) è ammesso, allora questo suo parlare non è incoerente e quindi non ogni parlare è incoerente, se il parlare di quest'uomo non è ammesso, allora non si può ritenere esatto il suo parlare” (5).
Le critiche dei tardo mohisti non hanno scosso le convinzioni i taoisti per i quali la contraddizione non costituisce un pericolo, al contrario. E' comunque stupefacente vedere come il problema del paradosso, in una forma molto simile a quella classica del paradosso del mentitore, sia presente in una cultura lontanissima dalla nostra ed affiori nella discussione di tesi filosofiche assai diverse da quelle in cui era impegnato Platone. Affiora in termini quasi identici... con buona pace di quanti sostengono che le culture sono entità del tutto diverse l'una dall'altra, una sorta di monadi incomunicabili. Platone e Protagora, Lao Tze e Mo tze ci dicono che questo, molto semplicemente, non è vero.

Il pericolo di cadere nell'auto contraddizione o addirittura nel paradosso è una sorta di costante nel pensiero filosofico, colpisce non solo il relativismo ma lo scetticismo in generale, quanto meno nella sua versione forte.
Torniamo in occidente e facciamo un salto di alcuni secoli. Il quadro storico, culturale, politico è radicalmente cambiato dai tempi di Socrate e Protagora, però, il rischio del vecchio paradosso è sempre presente. Nelle “Meditazioni metafisiche” Cartesio spinge fino alle conseguenze estreme il dubbio. La gran maggioranza delle cose che sappiamo ci sono date dai sensi, ma spesso i sensi ci ingannano, perché mai non potrebbero allora, si chiede Cartesio, ingannarci sempre? Ed ancora, a volte sogno ed i miei sogni sono talmente nitidi che è impossibile distinguerli dalla realtà. Non potrebbe darsi allora che tutto sia un sogno e che la vita, apparentemente tanto reale, sia tutta una illusione? Le stesse verità matematiche non sono esenti dal dubbio. Può essere che Dio mi inganni, afferma Cartesio, “tutte le volte che fo l'addizione di due e di tre, o che enumero i lati di un quadrato, o che giudico di qualche altra cosa ancora più facile” (6) e, se non è possibile pensare che Dio, infinitamente buono, ponga in essere un simile inganno è ben possibile immaginare che questo venga posto in essere da un demone maligno che si diverte a ingannarmi. “Io supporrò che vi sia (…) un cattivo genio, non meno astuto e ingannatore che possente, che abbia impiegato tutta la sua industria ad ingannarmi. Io penserò che il cielo, l'aria, la terra, i colori, le figure, i suoni e tutte le cose esterne che vediamo non siano che illusioni e inganni, di cui egli si serve per sorprendere la mia credulità” (7). Io non so nulla perché tutto ciò che credo di sapere è, o può essere, il risultato del perfido inganno di un genio malefico. Un dubbio talmente esteso cade inevitabilmente nella auto contraddittorietà: come posso dire che dubito se non so nulla? Per dire che dubito non devo almeno sapere che sto dubitando? Siamo in una situazione che si avvicina pericolosamente a quella del paradosso del mentitore. Se la proposizione “dubito di tutto” è vera allora non dubito di tutto: non dubito di dubitare; se è falsa allora io dubito anche del mio dubitare. In effetti il dubbio cartesiano non investe tutto. Qualcosa la so, scopre Cartesio, qualcosa che sfugge alle stesse arti malefiche del genio ingannatore: “io esisto se egli (il genio) mi inganna; e mi inganni fin che vorrà, egli non saprà mai fare che io non sia nulla, fino a che penserò di essere qualche cosa. Di modo che, dopo avervi ben pensato , ed avere accuratamente esaminato tutto, bisogna infine concludere, e tener fermo, che questa proposizione: io sono, io esisto, è necessariamente vera tutte le volte che la pronuncio, o che la concepisco nel mio spirito” (8)
Penso, dunque sono, questa verità è certa, assolutamente certa, e sfugge alle arti malefiche del genio ingannatore. Il dubbio che mi circonda non è dunque universale, qualcosa la so. Cartesio parte, come si sa, dal “cogito” per costruire una conoscenza “a prova di genio malefico”. In nessun momento della sua speculazione Cartesio intende arrendersi al dubbio, questo, nella sua estensione e nella sua radicalità, gli serve per dare un fondamento di indubitabile certezza all'umana conoscenza. Affidandosi al “cogito” quale basilare ed indubitabile conoscenza Cartesio sfugge alle trappole dell'auto riferimento e del paradosso, viene a trovarsi in una situazione simile a quella di Socrate e del suo “sapere di non sapere”, entrambi sfuggono l'auto contraddizione ed il paradosso non generalizzando l'ignoranza o il dubbio. A proposito di Cartesio è però possibile porsi una domanda: era davvero necessario spingersi fino al “cogito” per dare una risposta ragionevole al dubbio? Non è questo stesso dubbio viziato da una irragionevolezza di fondo?
Il procedimento cartesiano che fa del cogito la certezza primaria ed indubitabile, base di ogni passo avanti del sapere, è stato in effetti sottoposto a molte critiche. Ai fini del nostro discorso due appaiono particolarmente importanti perché investono, specie la seconda, le radici stesse del dubbio cartesiano e della sua sostenibilità logica. La prima è quella che Kant fa nella celebre “confutazione dell'idealismo” contenuta nella seconda edizione della “Critica della ragion pura”. La seconda è contenuta nella critica di Wittgenstein al linguaggio privato.



“Io ho coscienza della mia esistenza come determinata nel tempo” afferma Kant, ma “ogni determinazione temporale presuppone qualcosa di permanente nella percezione. Ma questo qualcosa di permanente non può essere qualcosa in me, perché appunto la mia esistenza nel tempo non può essere determinata se non da questo qualche cosa di permanente. Dunque la percezione di questo permanente non è possibile se non mediante una cosa fuori di me, e non mediante la semplice rappresentazione di una cosa fuori di me” (9)
Cartesio immagina un essere pensante totalmente avulso dal mondo esterno, un cogito ridotto ad unica realtà fluttuante in un mondo di fuggevoli sensazioni. Me se il mondo fosse un insieme fuggente di sensazioni sarebbe impossibile la stessa coscienza di se da parte del soggetto e con questa la formulazione del pensiero. Il cogito cartesiano, ben lungi dall'essere l'unica realtà, la base apoditticamente certa di ogni conoscenza, dipende dal mondo, dall'esistenza di un mondo che abbia almeno un certo livello di stabilità e permanenza spaziale e temporale. Questo il succo della critica kantiana all'idealismo cartesiano, critica che viene ripresa, da un punto di vista del tutto diverso da Wittgenstein.



“Immaginiamo una tabella che esista solo nella nostra immaginazione, per esempio un vocabolario”scrive Wittgenstein, “mediante un vocabolario possiamo giustificare la traduzione di una parola X con una parola Y. Ma sarà il caso di parlare di giustificazione anche quando questa tabella venga consultata solo nell'immaginazione? (…) La giustificazione consiste nell'appellarsi ad un ufficio indipendente . Però posso anche appellarmi da un ricordo ad un altro. Per esempio, non so se mi sono impresso esattamente nella memoria l'ora di partenza del treno e, per controllarlo, (…) richiamo alla memoria l'immagine dei fogli dell'orario delle ferrovie. Non ci troviamo qui di fronte allo stesso caso? No, perché questo procedimento deve effettivamente evocare il ricordo esatto. Se non fosse dato controllare l'esattezza dell'immagine mentale dell'orario ferroviario, come potrebbe, questa, confermare l'esattezza del ricordo precedente? (Sarebbe come acquistare più copie dello stesso giornale per assicurarsi che le notizie in esso contenute siano vere).” (10)
Wittgenstein qui polemizza con i sostenitori del linguaggio privato, cioè con quanti sostengono che il linguaggio è qualcosa di solo “mio” che mette in relazione parole e sensazioni. Il linguaggio non è e non può essere, sostiene Wittgenstein, qualcosa di solo mio perché, se così fosse, il senso delle parole potrebbe continuamente cambiare senza che io neppure me ne renda conto (e in questo modo la stessa affermazione del linguaggio privato perderebbe ogni senso). Un linguaggio ha bisogno di regole, di significati e questi non possono che essere intersoggettivi, pubblicamente controllabili, un linguaggio è, insomma, qualcosa di oggettivo. Un linguaggio affidato unicamente alla memoria ed alle sensazioni lascerebbe la memoria priva di strumenti di controllo e verifica. Il “cogito” di Cartesio è solo in apparenza assolutamente soggettivo, privo di legami col mondo e di controlli e verifiche nel mondo. In realtà si può dire “penso, dunque esisto” perché esiste un linguaggio con le sue regole, i suoi significati, perché esistono, indipendentemente da me, altri esseri parlanti e pensanti. Per Cartesio il “cogito” costituisce il punto di partenza, la base incrollabile della conoscenza del mondo. In realtà è il mondo a rendere possibile il “cogito”, non viceversa. Percorrendo una via molto diversa Wittgenstein giunge a conclusioni simili a quelle di Kant.
Il dubbio universale di Cartesio si avvicinava, lo si è visto, al paradosso. Da questo lo salva la scoperta di una conoscenza, a suo parere, assolutamente certa e originaria, il “cogito”. In realtà però il dubbio devastante delle “meditazioni” cartesiane non distrugge solo, se non bloccato, se stesso cadendo nel paradosso. Distrugge anche, e di questo Cartesio non si accorge, i presupposti che lo rendono esprimibile. Il dubbio è comunque una affermazione (affermo di dubitare) ed una forma di conoscenza (so di dubitare). La sue generalizzazione è quindi paradossale ed autodistruttiva. Ma, in quanto affermazione, in quanto forma di conoscenza, il dubbio ha dei presupposti. Per dubitare devo conoscere un linguaggio, per dubitare del mondo devo essere in rapporto con qualcosa che viene chiamato mondo, per poter dire “la realtà non esiste” devo riferirmi a qualcosa che viene chiamato “realtà”. Pensare che tutte queste cose possano essere messe in qualche modo tra parentesi in attesa che io possa raggiungere una conoscenza di base assolutamente certa è fuorviante e contraddittorio: ciò che dovrebbe essere messo fra parentesi è in realtà ciò che rende possibile la mia stessa ricerca. Il sapere non può essere fondato da una meditazione che sospenda il giudizio sul mondo e lasci il soggetto pensante assolutamente solo con se stesso. In quella sospensione di giudizio sarebbe proprio il soggetto pensante ad annullarsi.



Il dubbio come auto distruzione quindi, e mancato riconoscimento dei presupposti che permettono la sua stessa espressione. Da un diverso punto di vista invece il dubbio non fa altro che lasciare completamente immutata quella realtà che vorrebbe corrodere, ed in questo modo finisce di nuovo per mostrare la propria irragionevolezza di fondo.
L'argomento del sogno e quello del genio malefico sono ricorrenti nella storia delle filosofia e sono stati più volte riproposti in termini scientificamente aggiornati. Il sogno o il genio malefico sono stati sostituiti da elettrodi piantati nel cervello del soggetto senziente da uno scienziato che si diverte a farci credere che stiamo vivendo esperienze in realtà fittizie, da varie forme di realtà virtuale e così via, ne è un esempio divertente il film “Matrix”. Non è forse possibile, si argomenta, che l'esperienza che sto vivendo altro non sia che un sogno, o il frutto di un inganno messo in atto da qualcuno enormemente potente? Non potrebbe tutta la mia vita essere un sogno, o una illusione? Come si vede qui il dubbio abbandona, sembra, il suo carattere eminentemente distruttivo, non ci conduce nel nulla, si limita ad avanzare l'ipotesi che possa esistere un livello di realtà diverso da quello in cui noi siamo convinti di vivere. La nostra realtà è solo una illusione, la realtà “vera” è un'altra ed è nascosta, inaccessibile, assolutamente inaccessibile alla nostra conoscenza.
Si può rispondere una sola cosa a simili ipotesi: “si, tutto questo è possibile... e allora?”.
La distinzione fra realtà e illusione, veglia e sogno ha senso solo se esistono dei criteri di verità in grado di rendere insieme sensata e possibile tale distinzione. Nella vita di tutti i giorni io posso distinguere il sogno dalla veglia, la realtà dall'illusione. Se vado a vedere lo spettacolo di un illusionista che d'improvviso si mette a volare sopra la mia testa posso ben dire: “il volo del mago è solo una illusione, il mago in realtà non vola, un trucco me lo fa credere”. Parimenti se un incubo mi sveglia nel cuore della notte posso ben dire: “per fortuna era solo un sogno”. Ma una volta che il sogno o l'illusione vengono a coincidere con tutta la realtà che senso ha distinguerli dalla realtà? Se tutto è sogno allora è un sogno anche la distinzione fra sogno e veglia, se tutto è illusione il volo del “mago” è illusorio quanto il trucco che lo rende possibile. Definire “illusorio” un certo evento, ad esempio il volo apparente del “mago”, significa negarne il carattere reale, ma questo ha senso solo se è possibile distinguere il reale dall'illusorio. Se tutto è illusione però è illusoria anche la distinzione fra illusione e realtà, e parimenti illusoria risulta la convinzione che definire “illusorio” un evento significhi depotenziarne la realtà. Considerazioni simili possono farsi sul genio malefico di Cartesio o sulla affermazione, sempre di Cartesio, che se le sensazioni ci ingannano qualche volta possono ingannarci sempre. Se tutta la mia vita è un inganno del genio malefico (o dello scienziato che ha ficcato degli elettrodi nel mio cervello) allora è inganno anche l'ipotesi del genio malefico o degli elettrodi. E posso dire che i sensi mi ingannano a volte solo perché so che non mi ingannano sempre. Se i sensi mi ingannassero sempre io non avrei alcun criterio per distinguere la verità dall'errore e dovrei affermare che i sensi non mi ingannano mai. Partito con l'intenzione di dissolvere la realtà, ridurla a sogno o illusione, errore o inganno lo scettico non fa altro che far coincidere illusione (o sogno, o inganno, o errore) e realtà. La realtà non viene modificata di un millimetro dalla critica scettica. Affermare che tutto è illusione è un po' come dire che tutte le banconote sono false: una simile affermazione non modifica di una virgola l'economia e la finanza.
L'argomento dello scettico si riduce a questo: forse alla base del nostro mondo e della nostra vita sta una realtà nascosta e misteriosa, in linea di principio sottratta ad ogni possibilità di controllo. E questa realtà misteriosa è un uomo che dorme e sogna, o i cui sensi lo ingannano e che vive in una totale illusione... e noi saremmo la sua illusione. Si tratterebbe di un ben strano essere umano, bisogna dire, di un essere umano che non ha mai coscienza di se, che mai si può conoscere, che mai può pensare, parlare sentire, perché noi siamo i suoi pensieri e le sue sensazioni. Ed ancora, sarebbe un essere umano che ha sogni ben strani, sogni i cui personaggi vivono l'uno fuori dall'altro, ritengono a loro volta di sognare, hanno una coscienza che lui non ha. E sarebbero molto strani gli “errori” e le “illusioni” in cui cadrebbe questo misterioso essere umano, errori ed illusioni che noi non siamo assolutamente in grado di distinguere da ciò che errore ed illusione non è, e che nemmeno lui è in grado di distinguere da ciò che errore ed illusione non è, perché, di nuovo, noi, che siamo illusione ed errore, siamo tutto ciò che questa persona misteriosa può pensare e sentire.
Forse le cose stanno davvero così, o forse no. L'ipotesi dello scettico è inconfutabile, ovviamente. Ma, ha una qualche importanza confutarla?





Note

1) Platone Teeteto in Opere complete, vol. secondo Laterza 1982 pag.107.
2) Ibidem.
3) Ibidem pag. 119 120
4) Citato in Fung Yu Lan: Storia della filosofia Cinese, Mondadori 2004, pag. 101.
5) Ibidem.
6) Cartesio: Meditazioni metafisiche, la nuova Italia 1982 pag 21.
7) Ibidem pag. 22
8) Ibidem pag. 27
9) Kant: Critica della ragion pura. Laterza 1983. Primo volume pag. 230.
10) L. Wittgenstein: Ricerche filosofiche. In “I grandi filosofi – Wittgenstein. ed. Il sole 24 ore 2006 pag. 398.



















Nessun commento:

Posta un commento