domenica 24 novembre 2013

LA FALLACIA DELLA PIANIFICAZIONE






Il piano o i piani?

E' forse la più diffusa e deleteria fra le fallacie. Nel suo bellissimo libro “del buon uso del pessimismo” il filosofo inglese Roger Scruton la definisce come la convinzione che “si possa progredire collettivamente verso degli obiettivi adottando un piano comune, e lavorando in tal direzione sotto la guida di una qualche autorità generale come lo stato. E' la fallacia di credere che le società possano essere organizzate come eserciti, con un sistema di comando gerarchico dall'alto al basso e un sistema di responsabilità dal basso all'alto, garantendo la coordinazione efficace di molti intorno ad un piano elaborato da pochi” (1)
Per molti la programmazione segnerebbe il trionfo della razionalità contro l'”irrazionale” ed “anarchica” economia di mercato. In effetti, cosa è più razionale di un “piano”? Pianificare vuol dire fissare degli obiettivi ed individuare i mezzi atti a conseguirli, qualcosa di molto razionale, non c'è dubbio. Pianificazione come trionfo della ragione quindi, ma, ci si potrebbe chiedere, di quale pianificazione stiamo parlando? E, di quale ragione, della ragione di chi? Tizio, Caio e Sempronio sono esseri umani, ognuno di loro pianifica, in una certa misura, la propria vita, si dà degli obiettivi e cerca gli strumenti atti a realizzarli, ognuno di loro è razionale ed usa, ai suoi fini, la propria ragione. I teorici della pianificazione non oppongono piano ad anarchia, ragione ad irrazionalismo. Oppongono un piano centralizzato ed imposto a tutti i cittadini agli innumerevoli piani individuali che ognuno di noi elabora per la propria vita, oppongono una ragione centralizzata, onnipotente (o presunta tale), autoritaria alla ragione che tutti noi usiamo per far fronte alle incombenze del nostro esistere. Le scelte economiche fondamentali: quanto, cosa e come produrre e consumare spettano ad ognuno di noi, in coordinamento con gli altri, o devono essere monopolio di una autorità centrale che possa imporle a tutti? Questa è la vera alternativa fra ordine di mercato ed ordine della pianificazione.

Pianificazione e razionalità economica.
Fiedrich Von Hayek e Ludvig Von Mises hanno sollevato contro la presunta razionalità della pianificazione delle obbiezioni per molti aspetti decisive.
Von Mises ricorda come il sistema dei prezzi sia un ottimo indicatore della razionalità delle scelte economiche. L'imprenditore Tizio investe 100 per produrre televisori e vende ogni televisore al prezzo di 10. Però, in quel certo momento i consumatori, o una parte dei consumatori, non desiderano acquistare televisori, o, se intendono acquistarli, sono disposti a pagare non 10 ma 8 . Tizio ha quindi due possibilità: o vende i televisori a 8 o li lascia, almeno in parte, invenduti. In entrambi i casi subisce una perdita. Il meccanismo anonimo dei prezzi e del mercato ha detto a Tizio che la sua scelta di investimento è stata sbagliata. La società non vuole televisori, o non li vuole pagare al prezzo di 10. Tizio dovrà o razionalizzare la produzione o dovrà cambiare investimento, produrre ad esempio, dei PC invece che dei televisori.
Ma, funziona ancora questo meccanismo se Tizio viene sostituito dallo stato che detiene la totalità dei mezzi di produzione? Evidentemente no, argomenta Von Mises. Se tutte le scelte economiche sono appannaggio dello stato, che detiene la totalità dei mezzi di produzione, il fatto che certi beni restino invenduti non ha, per lo stato, conseguenza alcuna. A voler essere precisi, in una economia pianificata i beni non vengono venduti ma, più propriamente, distribuiti ai cittadini da parte dello stato pianificatore. L'autorità pianificatrice decide cosa e quanto produrre e poi distribuisce, secondo cuoi criteri, quanto prodotto ai cittadini consumatori. Se quanto viene distribuito non piace ai cittadini, tanto peggio per loro! Anche se i cittadini rifiutassero ciò che lo stato distribuisce loro questo non cambierebbe minimamente le cose. Lo stato resterebbe unico “proprietario” della totalità dei mezzi di produzione anche se i beni prodotti restassero a marcire nei magazzini statali. Questo è avvenuto nella Russia staliniana durante la collettivizzazione dell'agricoltura. Il grano strappato ai “kulaki” restava molto spesso a marcire al sole; questo aveva conseguenza tragiche per i contadini, ma nessuna per lo stato pianificatore che non ha caso proseguiva con le sue folli politiche. Fenomeni altrettanto gravi si sono verificati nella Cina di Mao, nella Cambogia di Pol Pot, a Cuba, in Corea del nord. L'economia pianificata non è in senso proprio una economia. In essa si decide sul come, il quanto e il cosa produrre non in base alle preferenze dei consumatori ed alle disponibilità degli investitori, ma in base a pure logiche politiche. Si tratta di economie di comando, del tutto scisse dal calcolo economico, dal raffronto cioè fra il costo di un investimento e la sua utilità sociale, misurata dal meccanismo della domanda e dell'offerta. Se per economia si intende quella attività volta a soddisfare determinati bisogni al minor costo possibile, appare evidente che le economie di comando, prive come sono di calcolo economico, sono quanto di più economicamente irrazionale si possa concepire.
Fra chi seguiva le lezioni di economia di Von Mises ci fu anche, per un certo periodo di tempo, l'esule Nikolaj Bucharin, esponente di primo piano del partito bolscevico. Bucharin fu molto impressionato dalle argomentazioni di Von Mises, e si convinse che anche una economia pianificata doveva dotarsi di un efficiente sistema dei prezzi. Ebbe a dire che i comunisti dovevano essere grati al loro nemico Mises per aver loro ricordato l'importanza di un simile problema. Però restò in fiero disaccordo con Von Mises, che riteneva impossibile la convivenza di economia pianificata e sistema dei prezzi. Bucharin tornò quindi in Russia ed ebbe una parte di primo piano nella politica del partito bolscevico vittorioso. Questa scelta gli costò la vita. Bucharn finì i suoi giorni di fronte ad un plotone d'esecuzione, simbolo estremo di quella economia di comando che lui riteneva compatibile con la razionalità del calcolo economico.

Le obiezioni di Von Hayek all'ordine della pianificazione sono di tipo diverso, ma altrettanto calzanti. Hayek si concentra non sul calcolo economico ma sulla dispersione delle conoscenze. La conoscenza non riguarda solo le leggi generali, non è solo conoscenza dell'universale. Esiste anche la conoscenza di fatti particolari, riguardanti il qui e l'ora, e si tratta di una conoscenza che ha la massima rilevanza in economia. Il direttore di una piccola filiale di banca ha una conoscenza del merito creditizio di questo o quell'imprenditore locale molto maggiore di quella del più sofisticato analista di bilancio. Un commerciante bene inserito in un certo mercato conosce l'andamento dei prezzi e la qualità di molte merci prodotte in loco assai meglio di un laureato alla Bocconi, e un tecnico che effettua da anni la manutenzione di certi macchinari ne sa su quelli più di un ingegnere plurilaureato. Tutte queste conoscenze particolari sono disperse fra milioni di esseri umani e nessun programmatore centrale può appropriarsene; è il meccanismo anonimo del mercato che può centralizzare questa enorme massa di informazioni e conoscenze e permettere così a tutti di trarne beneficio. La onniscenza del pianificatore centrale è solo una finzione propagandistica: cercare di decidere a Roma, o a Bruxelles, cosa e come si debba produrre in un piccolo paese vuol dire solo rinunciare a quella gran massa di informazioni particolari che, sole, possono rendere davvero razionale la decisione. Ancora una volta la razionalità della pianificazione centralizzata si rivela una falsa razionalità. E' una pseudo razionalità che semplifica in maniera ridicola la realtà, non tiene conto delle caratteristiche specifiche in cui questa si articola e si traduce in una incredibile perdita di conoscenze preziose.

Un esempio di quanto questo autentico spreco di conoscenze del particolare possa avere conseguenze profondamente negative è costituito dai deliri programmatori della unione europea. L'unione europea non pretende di programmare centralmente l'economia dei paesi europei, anzi, si proclama a gran voce favorevole al libero mercato. Solo, impone a tutti, in nome della “salute”, della “sicurezza” della “tutela dell'ambiente” e di tantissime altre cose, norme che hanno il solo risultato di inceppare la crescita economica e di rendere sempre più difficile la vita dei cittadini europei. Un gruppo di burocrati si riunisce a Bruxelles e decide che, ad esempio, per “rispettare la salute” occorre che la produzione di quel certo bene avvenga in quel certo modo. Non conosce le realtà locali, le esigenze delle imprese che operano nelle più svariate situazioni, il clima, la conformazione naturale di questo o quel territorio, i gusti delle popolazioni. Conosce solo le sentenze inappellabili dei suoi “esperti”, e le impone a tutti, autoritariamente, come il più burocratico ed autoritario dei governi nazionali. Con una aggravante rispetto a questi. I governi nazionali impongono vincoli e divieti emettendo delle leggi che possono successivamente essere discusse e modificate, e che comunque sono decise da parlamenti democraticamente eletti. Le norme iper burocratiche dell'unione europea invece sono decise da organismi che nessuno ha eletto, e, una volta che gli stati membri le abbiano accolte, sono inserite nei trattati europei e diventano di fatto
immodificabili. Oggi le regolamentazioni europee ammontano a più di 170.000 (CENTOSETTANTAMILA) pagine e si occupano di tutto: dalla lunghezza dei gambi di carciofo al collaudo degli stivali di gomma, dal diametro della pizza alla temperatura dell'acqua con cui si fa il caffè espresso.
Nella sua opera già citata Roger Scruton ricorda che “A partire dal 1996 l'unione europea ha diramato una serie di direttive sulla qualità dell'aria, limitando la dimensione e la quantità delle particelle di polvere presenti in essa. Le direttive, approvate nella legge olandese del 2001, stabiliscono che le concentrazioni di polveri siano talmente basse da essere impossibili per un territorio densamente popolato come i paesi bassi dove, in ogni caso, il sale marino e le polveri dei terreni costituiscono il 55% delle polveri atmosferiche e due terzi delle rimanenti provengono dall'estero. La legge (…) ha implicato l'annullamento di un gran numero di progetti di costruzione, fra cui strade, parchi industriali e complessi abitativi (…). Numerosi studi epidemiologici indicano che, a causa delle polveri atmosferiche, la durata di vita di alcune migliaia di persone è ridotta di una frazione di tempo che va da pochi giorni a pochi mesi” (2)
Ovviamente la disoccupazione e la difficoltà a trovare alloggi hanno, non solo sul benessere, ma sulla salute e sulla aspettativa di vita delle persone, effetti assai più devastanti che non le famigerate polveri, ma questo non interessa gli euro burocrati. Ognuno di loro tiene conto solo del particolare settore che deve pianificare. I tecnici delle polveri non tengono conto della particolare conformazione dei paesi bassi o delle conseguenze economiche, sociali ed umane delle loro direttive, tutto questo riguarda l'”ufficio accanto”: altri burocrati, altri “tecnici” che emetteranno altre norme minuziosissime che avranno a loro volta effetti indotti negativi, per far fronte ai quali sarà creato un altro particolare ufficio e saranno pagati (profumatamente e coi soldi dei contribuenti) altri burocrati e così via, in una spirale infernale senza fine. La follia programmatoria distrugge una quantità enorme di conoscenze e priva in questo modo i presunti onniscienti burocrati degli strumenti che potrebbero consentir loro di operare in maniera davvero razionale, tenendo conto delle conseguenze reali delle loro azioni. Ancora una volta la presunta razionalità della programmazione si rivela per quella che è: una razionalità fasulla. Non a caso moltissime direttive della onnipotente commissione europea appaiono, agli occhi delle persone dotate di normale buon senso, indice non di razionalità ma di autentica follia.

Pianificazione e libertà.
Scrive il filosofo liberale Isaiah Berlin: “Normalmente si ritiene che io sia libero nella misura in cui nessun individuo o società di individui interferisce con la mia attività. In questo senso la libertà è semplicemente l'area entro cui una persona può agire senza essere ostacolata da altri. Nella misura in cui mi si impedisce di fare qualcosa che altrimenti potrei fare, io non sono libero; se quest'area viene ridotta oltre un certo limite minimo si può dire che io sia costretto con la forza o, forse, ridotto in schiavitù” (3). Esiste,
deve esistere per Berlin, un'area dentro la quale solo io ho il potere di decidere. Che lavoro voglio fare? Preferisco il mare o la montagna? Dove andrò a vivere? Di chi mi innamoro? Mi sposero, avrò dei figli? Quali sono le mie preferenze sessuali? E quali quelle alimentari? Kant mi convince più o meno di Hegel? Credo in Dio? A tutte queste domande posso rispondere solo io, quanto meno, solo io ho su questi argomenti il diritto di dire l'ultima parola. Nessuna autorità, neppure una assemblea democraticamente eletta, o il più autorevole consesso di “esperti”, può stabilire se io mi devo o non mi devo sposare, o può costringermi ad andare in vacanza in una certa località, o a preferire le verdure alle bistecche. “Esiste”, prosegue Berlin, “una certa area minima di libertà personale da non violarsi per nessuna ragione: se essa fosse calpestata, l'individuo si troverebbe in uno spazio troppo ristretto persino per uno sviluppo minimale delle sue facoltà naturali. (…). Si tratta dunque di segnare un confine tra l'area della vita privata e quella dell'autorità pubblica. Dove esso vada tracciato è materia di discussione, anzi, di trattativa” (4). Si può discutere su quanto sia ampia l'area delle mie decisioni private, ma questa deve esistere e non essere troppo angusta. Si può limitare questa area per garantire le altrui libertà, per le esigenze della vita sociale, per tutelare valori diversi dalla libertà, ma a volte egualmente importanti, per garantire a tutti un livello minimo di benessere ad esempio. Ma se si restringe troppo quest'area si distrugge la libertà e con questa ciò che di più essenziale esiste in noi, ciò che ci fa, propriamente, uomini.

Stabilito che un certo livello almeno di libertà individuale è irrinunciabile per gli esseri umani, ci si può porre la domanda: questa libertà è compatibile con una economia globalmente pianificata? In altre parole, posso essere libero in un paese ove l'autorità pubblica decide quanto, e come e cosa si debba produrre? La risposta è molto semplice: NO.
L'uomo è un essere finito, limitato. Ha bisogno di cose, oggetti materiali per raggiungere i propri fini, ne ha bisogno quasi sempre. Anche al più spirituale dei poeti occorrono penna ed inchiostro per scrivere le sue poesie, e un amante della musica ha bisogno quanto meno di uno spartito e di uno strumento da suonare, chi prova un piacere intenso nel leggere impazzirebbe se non ci fossero quegli strani oggetti chiamati libri. Siamo nel mondo e dipendiamo dal mondo, da un mondo che non è stato creato per noi e che dobbiamo modificare per procurarci ciò che ci serve per vivere. Chi stabilisce cosa, quanto e come si debba produrre stabilisce anche cosa e quanto noi possiamo consumare, e come e quanto e dove dobbiamo lavorare; stabilisce in questo modo come noi possiamo vivere.
Io vorrei fare il medico a Genova, ma l'autorità pianificatrice decide che servono guardie forestali in Calabria, quindi è li che dovrò vivere e lavorare. Vorrei avere un figlio, ma il pianificatore ha deciso che siamo già in troppi, quindi, dovrò rinunciare alle gioie della paternità. Mi piacciono le escursioni in montagna, ma un comitato di esperti psicologi ha stabilito che chi ama la montagna è un individuo introverso, poco propenso alla socializzazione, amante della solitudine, ed ha anche deciso che è socialmente utile contrastare queste pericolose tendenze antisociali. Quindi il pianificatore stabilisce che non si producano scarponi da montagna, né linee ferroviarie che mi portino nelle località montane, e che in queste non siano costruiti alberghi, né case da dare in affitto a pericolosi turisti amanti della solitudine. Io devo rinunciare alla mia passione. Si potrebbe continuare, ovviamente. Chi stabilisce i mezzi decide anche sui fini. Piaccia o non piaccia la cosa, la pianificazione è incompatibile con la libertà.
 

La libertà invece non è incompatibile con l'esistenza di ammortizzatori sociali che difendano gli individui dalle turbolenze, spesso micidiali, dell'economia di mercato. Lo stesso, ultraliberista, Hayek parla chiaramente di “reti protettive” che, fuori dal mercato, abbiano il compito di tutelare gli esseri umani dal suo andamento a volte sussultorio e consentano a chi, senza colpa, è stato espulso dalla attività produttiva di rientrarci al più resto e senza subire nel frattempo, danni devastanti. Il vero limite del mercato non consiste nella sua presunta natura “non sociale”. Il mercato è qualcosa di essenzialmente sociale e sociali, nel senso più proprio del termine, sono le relazione che si instaurano nel mercato. Il mercato è un ottimo selettore degli investimenti, lo si è visto. Il mercato è invece, spesso, spietato coi singoli, questo è il suo vero limite. Se una certa fabbrica produce beni che nessuno più richiede la sua chiusura è la soluzione migliore, dal punto di vista sociale. Ma, che debbono fare degli individui che ci lavorano? Possono essere considerati “scarti” di una produzione obsoleta? NO, ovviamente. Non sono “scarti”, sono esseri umani, esseri umani le cui esigenze vanno tutelate. Da qui le varie politiche sociali che, quando non degenerano in forme deplorevoli di assistenzialismo parassitario, non sono solo perfettamente compatibili col liberalismo, ma, attenuando il conflitto sociale, contribuiscono alla sopravvivenza ed allo sviluppo di una società libera.

La pianificazione totale.
Al peggio non c'è mai fine. Nella esperienza dei grandi totalitarismi dello scorso secolo il controllo statale sulla vita dei cittadini non è avvenuto solo in maniera indiretta, tramite la pianificazione della produzione e del consumo. No, è avvenuto anche direttamente, con una intrusione sempre più ampia dello stato nella vita quotidiana dei singoli, fino ad annullare del tutto il concetto stesso di vita privata. Quella sfera in cui solo io posso decidere, la cui esistenza è per Berlin è l'essenza stessa della libertà, si è via via sempre più contratta, sino a sparire del tutto. Alle proibizioni si sono sommati i comandi, ed ai comandi sul fare quelli sul pensare, e poi sul desiderare, sull'amare, sull'essere. In uno stato totalitario il cittadino, meglio, il suddito, non è solo obbligato a fare certe cose, deve anche pensarne certe altre, pensarle con convinzione, e deve amare certe istituzioni, meglio ancora, certe persone che di quelle istituzioni sono la vivente incarnazione. La pianificazione totale riguarda il corpo come la mente degli esseri umani, il loro fare ed insieme il loro pensare, desiderare, amare. Non può esistere nessuna autonomia, nessuna spontaneità, a nessun livello, perché ogni autonomia, ogni spontaneità metterebbero in discussione il piano e la sua presunta “razionalità”. Non a caso uno dei nemici di ogni stato totalitario e pianificatorio è stata, sempre, ovunque, la famiglia. Nella famiglia gli esseri umani stanno insieme perché si amano, la famiglia sorge perché sorgono legami di amore fra esseri umani, autonomi, spontanei legami d'amore. La famiglia costituisce un'area di “privatezza” che nessuno può, o potrebbe, o dovrebbe violare. Quando sono in casa mia, con la mia famiglia si alza una sorta di muro fra me ed il resto del mondo, sono nell'area del “solo mio”. Certo, altri possono entrare in quell'area: amici, parenti, conoscenti, ma siamo io ed i miei cari a decidere chi può entrarvi. Tutto questo è inaccettabile per i totalitari che non a caso odiano la famiglia, ed intendono distruggerla.
E la hanno distrutta in effetti. Nelle comuni agricole staliniane e maoiste tutto era comune, pentole e piatti compresi, si mangiava e si dormiva tutti insieme, in grandi anonime camerate, padri e figli, mariti e mogli venivano spesso separati. La convivenza forzata imposta dallo stato sostituiva la convivenza volontaria della famiglia. Il processo ha raggiunto le punte più aberranti nella esperienza cambogiana, quando la divisione forzata delle famiglie divenne pratica diffusa, ed era lo stato, meglio i tirannelli locali della “Kampucea democratica” a decidere se Tizio e Caia potevano sposarsi.

Purtroppo tendenze alla pianificazione totale sono ben presenti nell'occidente odierno, asservito al politicamente corretto. Certo, tendenze non così devastanti come l'orrore istituzionalizzato nella Cina di Mao o nella Cambogia di Pol Pot ma molto, molto preoccupanti.
I burocrati del politicamente corretto cercano di pianificare il linguaggio, imponendo a tutti, a partire dai media, una orrenda neo lingua, quella dei “genitori uno e due”, dei “femminicidi” o dei “verticalmente svantaggiati”.
E cercano di ridurre al minimo l'influenza dei genitori sui figli, stabiliscono i criteri della “buona genitorialità”, vorrebbero controllare il tipo di educazione che chi di noi ha figli impartisce loro.
E si preoccupano della nostra salute, del nostro benessere fisico e mentale, intendono obbligarci a star bene. E stanno bene attenti che i nostri sentimenti verso certi soggetti siano improntati all'amore ed alla comprensione, e sono pronti ad accusarci di “razzismo” se per caso nutriamo sentimenti diversi.
E si preoccupano della nostra sessualità, dei rapporti coi nostri mariti e le nostre mogli, o i nostri e le nostre amanti. Li preoccupa la pubblicità che guardiamo, e se in essa compare una ragazza a seno nudo subito strillano contro la “mercificazione” del corpo femminile. E vedono ovunque offese a questo e a quello, così che ogni opinione non piaccia a loro diventa, automaticamente, una “offesa”. Si potrebbero scrivere pagine e pagine su questi argomenti.
In una società libera lo stato fornisce agli individui alcuni fondamentali supporti, i pubblici servizi, la scuola soprattutto, e fissa alcune rigide proibizioni: non si può aggredire, offendere, picchiare, molestare nessuno. Ognuno è tenuto, è obbligato, a rispettare gli altri. Tutto il resto, l'evolvere cioè delle concezioni del sesso, delle pratiche educative, dei rapporti interpersonali, del linguaggio è lasciato all'autonomia delle persone e della società. Ai totalitari questo non piace. Non piace perché i totalitari sono convinti di essere enormemente più intelligenti, più profondi, più lungimiranti della stragrande maggioranza degli esseri umani. Lasciare autonomia agli esseri umani è per loro sinonimo di degrado, irrazionalità, perdizione. E così, in maniera subdola ma costante, cercano di condizionare tutto, di comandare su tutto, di sottoporre tutto al loro controllo ossessivo. E riescono solo a immiserire, degradare, far imputridire tutto, e tutti. Ci sono riusciti, alla grande, nelle tragiche esperienze totalitarie dello scorso secolo. Ci stanno riuscendo oggi in formato minore. I danni che stanno facendo sono oggi di certo assai meno gravi di ieri, non per questo sono da sottovalutare, o da prendere alla leggera.


NOTE

Roger Scruton: Del buon uso del pessimismo. Lindau 2011. Pag, 103.
Ibidem pag. 120 121.
Isaiah Berlin: due concetti di libertà. Feltrinelli 2000. pag. 12.
Ibidem pag. 15.


2 commenti:

  1. Per quanto mi riguarda, stai illustrando delle ovvietà ma, evidentemente, non per tutti lo sono, altrimenti non saremmo vittime delle pianificazioni europeiste e delle adeguate politiche nazionali. Ti consiglio, però, di rileggere il tuo articolo, ti accorgerai di alcuni errori grammaticali.
    A presto
    Lisa Piccolo (alias Atea Devota)

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  2. Caro Giovanni, io ho vissuto la programmazione democratica in Italia, quella, per intenderci, "inventata" da Ugo la Malfa, come un'esaltante avventura e la sua cancellazione violenta come un vero sopruso. Rimpiango ancora quei tempi, forse perché avevo poco più di vent'anni?

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