domenica 23 giugno 2013

LA MORALE DI KANT



Per Kant, come tutti sanno, il fondamento della morale è qualcosa di solo ed unicamente formale. Se l’imperativo morale fosse basato su qualche caratteristica empirica dell’uomo esso perderebbe ogni universalità. Se il fondamento della morale fosse ad esempio il piacere la legge morale diventerebbe inevitabilmente qualcosa di soggettivo. Ad A piace X, a B piace invece Y, se le azioni morali di A e di B dovessero essere determinate da ciò che a loro piace non esisterebbe più alcuna normativa morale universale, valida per A, B, C, per tutti insomma. Nella tradizione filosofica precedente è il concetto di bene a precedere quello di legge morale. E’ morale ciò che ha per fine il bene. Kant rovescia questa impostazione: il bene è tale se si accorda con la legge morale: “Posto che ora volessimo cominciare col concetto di bene, per far derivare da esso le leggi della volontà, questo concetto di un oggetto (come buono) darebbe nello stesso tempo quest’oggetto come l’unico motivo determinante della volontà. Ora, siccome questo concetto non avrebbe nessuna legge pratica a priori come sua regola; così la pietra di paragone del bene e del male non potrebbe consistere in altro che nella concordanza dell’oggetto col nostro sentimento del piacere e del dispiacere e l’uso della ragione potrebbe consistere solo in questo, nel determinare questo piacere e questo dispiacere (….) sarebbe così esclusa affatto la possibilità di leggi pratiche a priori” (1). Il discorso è abbastanza chiaro: se il concetto di bene precede quello di legge la legge decade a qualcosa di empirico, accidentale. Ogni universalità è distrutta e si aprono le porte al relativismo morale. La conclusione di Kant è quindi molto netta: “Non è il concetto di bene, come concetto di un oggetto, che determina e rende possibile la legge morale, ma al contrario è la legge morale che anzitutto determina e rende possibile il concetto del bene, in quanto esso meriti davvero questo nome” (2).
Per rendere ancora più chiaro il proprio discorso Kant ricorda che il termine “bene” può essere inteso in due sensi diversi ed espresso in tedesco da due diverse parole. Esiste un bene empirico, un bene sensibile che in tedesco è designato dal termine wohl. Con questo termine si designa il bene che è in relazione al nostro sentimento del piacere e del dispiacere. Esiste poi il bene in sé, il bene considerato nella sua relazione alla volontà, “in quanto questa è determinata mediante la legge razionale a far di qualcosa il suo oggetto” (3) e questo tipo di bene è designato dalla parola gut. Ora, l’uomo è un essere sensibile e deve certamente avere a cuore il suo wohl, tuttavia “egli non è affatto così animale da essere indifferente a tutto ciò che la ragione per se stessa dice, e da usare questa solo come strumento del suo bisogno, in quanto egli è essere sensibile” (4). E’ del tutto legittimo perseguire il proprio wohl ma non lo si può mai fare a discapito del gut. Se gut e wohl entrano in conflitto non possono esserci dubbi su chi debba prevalere.

In quanto slegata da ogni accidentalità empirica la legge morale deve essere per Kant unicamente formale: “opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale” (5). La legge morale determina la volontà per sé stessa. I suoi comandi (imperativi) valgono sempre, incondizionatamente, sono categorici. La legge morale vale in tutte le situazioni, quali che siano le condizioni empiriche in cui ci troviamo ad agire. Non ha senso interrogarsi sulle conseguenze dell’obbedienza alla legge: occorre obbedire, sempre e comunque. La legge ci costringe in base al fatto che è una legge formale, universale; nessuna considerazione per il nostro bene (wohl), nessuna valutazione della situazione in cui ci troviamo ad operare può giustificare la disobbedienza all’imperativo categorico. Chi non obbedisce all’imperativo morale compie una azione immorale, punto e basta. La legge morale non trae la sua validità dal fatto che gli esseri umani seguano i suoi precetti, varrebbe anche se nessuno al mondo li seguisse. E’ difficile seguire i dettami dell’imperativo categorico, non è un caso che nessuno li segua sempre e che molti non li seguano mai. Ciò non toglie nulla alla loro validità.
Come si sa Kant ha fornito diverse formulazioni dell’imperativo categorico. L’ultima sembra superare in parte il suo formalismo rigorista. Essa afferma infatti: “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona che in quella di ogni altro, sempre anche come un fine e mai semplicemente come un mezzo” (6). Qui sembra in effetti che il formalismo kantiano si dia un contenuto: l’uomo, l’uomo nella sua materialità empirica, l’uomo come ente che esiste qui ed ora nel mondo. Una simile interpretazione forzerebbe però il pensiero di Kant. Per Kant in effetti l’uomo va rispettato ma va rispettato non tanto per ciò che egli è empiricamente ma per il fatto che le sue azioni possono essere determinate dall’imperativo morale. E’ l’umanità che si deve rispettare, l’umanità che vive nell’uomo. “Questo principio dell’umanità” afferma Kant “non ha origine empirica; prima di tutto per la sua universalità, perché comprende tutti gli esseri ragionevoli in generale (…) secondariamente perché in questo principio l’umanità è concepita non come fine degli uomini (soggettivo) ossia come un oggetto che noi stessi eleviamo a fine, ma come un fine oggettivo che, a prescindere dai fini che ci proponiamo, deve costituire, in quanto legge, la condizione limitatrice suprema di tutti i fini soggettivi (..) cioè: il fondamento della legislazione pratica si risolve oggettivamente nella regola e nella forma dell’universalità (..) e soggettivamente nel fine “ (7). Anche se parlando dell’uomo come fine in sé Kant sembra contraddittoriamente concedere qualcosa all’empiria non c’è dubbio che nel suo discorso prevalga ancora, e nettamente, l’impostazione formalistica che del resto è alla base di tutta la sua concezione della morale.

E’ indubbio che la concezione kantiana della morale contenga molto di positivo. Tutte le concezioni della morale che si basano sul concetto di bene o di vita buona sono destinate ad scontrarsi con difficoltà insormontabili. Nell’”Etica nicomachea” Aristotele espone la sua concezione di vita buona e virtuosa. Si tratta di una concezione abbastanza condivisibile, a modesto parere di chi scrive. Ma una cosa è avere una concezione condivisibile di cosa debba essere la vita buona, cosa diversa è stabilire se su questa sia possibile fondare la morale. E’ quanto meno assai dubbio che la virtù aristotelica possa davvero fondare la morale. E’ proprio impossibile che l’uomo equilibrato di Aristotele possa macchiarsi di un crimine? Se io sono interessato a sviluppare in maniera armoniosa tutte le mie facoltà, se ho intenzione di studiare, se miro a vivere in maniera sana, se amo avere buoni amici, possedere un discreto patrimonio che mi liberi da un lavoro abbruttente, far del bene ai miei simili posso ipso facto evitare di diventare un assassino? Non è ipotizzabile che si possa compiere un delitto allo scopo di procurarsi i mezzi che consentano di vivere una vita virtuosa? Se la morale si identifica con la ricerca di una buona vita non si può mai escludere che diventi compatibile col mancato rispetto degli altri. Possiamo uccidere un nostro simile anche allo scopo, nobile scopo, di procurarci i mezzi che ci consentano di far del bene ad altri esseri umani. Un artista può compiere atti immorali al solo fine di poter meglio sviluppare le sue doti artistiche, gli esempi potrebbero continuare. Dietro al saggio greco esistevano gli schiavi; dicendo questo non si vogliono emettere moralistiche sentenze di condanna nei suoi confronti, ci si limita a sottolineare che il mancato rispetto degli altri può benissimo convivere con la virtù.

Le concezioni della morale basate sul concetto di bene o di vita buona sono destinate a sfociare in qualche forma, più o meno velata di utilitarismo. E’ buono ciò che risulta utile a raggiungere il bene, che ci consente di vivere una buona vita. Ma se il fine è la ricerca dell’utile non si può mai escludere a priori che in questa ricerca si calpestino i diritti dei nostri simili.
Le cose non cambiano se si passa dal concetto di vita buona individuale a quello di vita buona collettiva, se il bene dei molti si sostituisce a quello del singolo. Per alcuni l’azione morale deve mirare al massimo bene per il massimo numero, o alla massima utilità per il massimo numero. Ma se, come ci ricorda Dostoevskij ne “I fratelli Karamazov”, per raggiungere “la meta suprema di render felici gli uomini, di dar loro, alla fine, la pace e la tranquillità (..) si presentasse come necessario e inevitabile far soffrire per lo meno una sola minuscola creatura (…) e sulle sue invendicate povere lacrime fondare codesto edificio” ? (8) . Se il massimo bene per il massimo numero si fondasse “sul sangue ingiustificato di un piccino straziato?” (9). Potremmo ancora considerare “morale” una simile ricerca del bene comune? Il massimo bene per il massimo numero è anch’esso compatibile con il mancato rispetto dei nostri simili, spesso di un numero esorbitante di nostri simili. La morale di Kant pone dei limiti, dei limiti invalicabili, alla ricerca dell’utile, della felicità e della stessa virtù. Tutto ciò che faccio deve poter diventare norma di una legislazione universale. Se questo non avviene, se questo limite negativo non è rispettato non c’è discorso su felicità, utilità o virtù che tenga, ciò che faccio è immorale.

Ma l’universalismo astratto di Kant va anch’esso incontro a gravi difficoltà. Kant pretende che l’imperativo morale sia forma pura, completamente slegata da ogni contenuto, ma è sostenibile una simile pretesa? E soprattutto, anche se una pretesa simile fosse fondata sarebbe in grado di giustificare il nostro giudizio su quelle che consideriamo azioni morali o immorali? Spieghiamoci meglio. Esistono azioni che sono comunemente considerate immorali dagli esseri umani ed altre che sono invece considerate morali o comunque conformi alla morale. Uccidere un bambino innocente è giudicato immorale, salvarlo dalla aggressione di un bruto morale. Ogni concezione della morale deve poter dare una giustificazione razionale di simili giudizi. Una concezione della morale che ci portasse a considerare morale uccidere un bimbo innocente non potrebbe non contenere qualcosa di profondamente sbagliato. Una morale completamente anti intuitiva non può essere giusta, non lo può esattamente perché non è in grado di dare un fondamento ed una giustificazione razionale dei nostri giudizi morali.
Ora, la morale kantiana cade molte volte precisamente in questo grave difetto. Appare (ed è) anti intuitiva, fredda, lontana anni luce dal comune modo di sentire degli esseri umani.
Per esemplificare esaminiamo questi due casi. Passeggio per strada e scorgo ad un tratto Giuseppe. Lo conosco, è una brava persona alle prese con gravi problemi economici. Suo figlio è malato, ha bisogno di cure costose, per farvi fronte Giuseppe ha chiesto un prestito in banca. Ad un tratto vedo che dalla giacca di Giuseppe cade un portafoglio, lo raccolgo, è colmo di banconote da 500 euro, si tratta senza dubbio del prestito. Esito un attimo, Giuseppe non mi ha visto... mi metto in tasca il portafoglio: stasera passerò una serata divertente dico fra me e me. Di certo non ho fatto il mio dovere, il mio comportamento sarebbe giudicato immorale da chiunque.
Immaginiamo ora un caso un po’ diverso. Passeggio per strada immerso in cupi pensieri. Mio figlio è malato, avrebbe bisogno di cure costose ma io sono senza un soldo, il piccolo rischia la vita. Un tale passeggia accanto a me, lo riconosco: si tratta di Mario, un essere spregevole, disonesto, pieno di soldi e avarissimo, gli ho chiesto un prestito giorni fa... niente da fare, non mi ha dato neppure un soldo. Dalla giacca di Mario cade il portafoglio, lo raccolgo, faccio per riportarglielo quando lo sguardo cade sulle banconote da 500 euro che contiene. E’ un attimo, Mario non si è accorto di nulla, per lui quei soldi non sono niente, per me tutto! Mi metto in tasca il portafoglio e mi allontano.
Posso anche ammettere che nel secondo caso io mi sia comportato in maniera immorale, ma di certo si tratta di una immoralità ben diversa da quella a cui si riferisce il primo caso. Se si prescinde da ogni considerazione empirica i due casi sono però assolutamente sullo stesso piano: in entrambi la formula dell’imperativo categorico è stata violata. Chiunque tuttavia può constatare che sono quanto meno diversi e nessuna speculazione filosofica potrà convincere un normale essere umano che non si tratti di una differenza importante.

Del resto Kant, spinto dal suo rigore e dalla ferrea logica che lo caratterizza, è giunto a conclusioni ancora più anti intuitive di quelle esposte nei nostri ipotetici casi. Nello scritto “Su un preteso diritto di mentire per amore degli uomini” Kant analizza il caso di una persona che mente ad un assassino in cerca della sua vittima. Ecco come il grande filosofo risponde al quesito se sia lecita in questo caso una menzogna: “La verità delle affermazioni che non si possono eludere è un dovere formale dell’uomo verso chiunque, per quanto grande sia il discapito che ne possa venire a lui o a un altro; e sebbene io non arrechi ingiustizia a colui che ingiustamente mi costringe alla dichiarazione, se la falsifico, con questa falsificazione, che allora può essere chiamata anche menzogna (…) compio tuttavia una ingiustizia in generale nel punto essenziale del dovere: ossia faccio in modo che, per quanto sta a me, le affermazioni (dichiarazioni) non diano alcun affidamento e dunque che anche tutti i diritti che sono fondati su pattuizioni perdano la loro forza” (10). Un criminale si presenta a casa mia e mi chiede dove si nasconde un bimbo che egli intende violentare e uccidere e io tranquillamente gli dico la verità, gli indico il nascondiglio dell’innocente! Lo faccio per amore del diritto in generale, della possibilità che possano continuare ad esistere relazioni fra gli uomini fondate sul diritto. Qui Kant forza probabilmente la sua stessa concezione della morale, alcuni hanno affermato che in un caso simile io avrei il dovere, non il diritto di mentire, tuttavia una risposta tanto sconcertante non è poi molto in contraddizione (mi sembra) con l’impostazione di fondo del suo pensiero morale. Ciò che è importante per Kant è l’umanità, non l’uomo empirico, è la universalità astratta, non l’universalità legata ad un contenuto concreto. Si salvi la norma e crolli pure il mondo! Dopo avere con parole bellissime definito l’uomo anche un fine in sé e non solo un mezzo Kant rischia di degradare l’uomo a mezzo par l’affermazione di una normativa astratta. Questo non è un difetto da poco della sua concezione della morale.

Ma è poi davvero fondata la pretesa kantiana di slegare completamente l’imperativo morale da ogni contenuto empirico? Proprio la sconcertante risposta al quesito se si debba o meno mentire ad un assassino in cerca della sua vittima dà un’ interessante indicazione al riguardo. Se io mento, afferma Kant, do il mio contributo a che tutte le pattuizioni perdano la loro forza. Mentendo io contribuisco a mettere in crisi un sistema di relazioni umane basate sul diritto. Ma, non è un fatto empirico l’esistenza di questo sistema? Non tutela forse un simile sistema gli uomini in carne ed ossa, i loro interessi legittimi, le loro aspirazioni? Non è forse questa fondamentale caratteristica empirica del diritto quella che consente la sua universalizzazione?
Esaminiamo un altro caso, assai più chiaro. Nella “Fondazione della metafisica dei costumi” Kant affronta il problema se mi sia lecito, in caso di difficoltà, fare una promessa (ad esempio di restituire il denaro che mi è stato prestato) ripromettendomi di non mantenerla. Se mi chiedessi se una simile promessa è lecita “mi renderei subito conto” afferma Kant “che se posso volere la menzogna non posso certo volere una legge generale che comandi di mentire, perché, stabilita questa legge, non ci sarebbe più propriamente alcuna promessa: sarebbe inutile dichiarare la mia volontà rispetto alle azioni future perché gli altri non presterebbero alcuna fede alle mie dichiarazioni o, se sconsideratamente lo facessero, mi ripagherebbero con egual moneta con la conseguenza che la massima , una volta trasformata in legge universale, non farebbe altro che distruggersi da se” (11). Il discorso di Kant come si vede è assai rigoroso. Non è possibile che la massima: “fai promesse non veritiere”sia generalizzata: non appena cercasse di generalizzarsi una tale massima si auto distruggerebbe. Tutto vero, ma, su cosa si basa una simile impossibilità se non sulla caratteristica empirica degli esseri umani che li porta a non fidarsi delle promesse di un mentitore o addirittura a ripagarlo con pari moneta? Se nessuno restituisse il denaro che ha ricevuto in prestito non esisterebbe più credito, questo è vero, ma l’impossibilità di generalizzare la pratica di chiedere credito senza onorarlo si basa sul concreto, concretissimo (e legittimo) interesse degli esseri umani a vedersi restituire ciò che hanno prestato.

Anche prescindendo da queste considerazioni resta comunque il punto fondamentale. Basta la forma della universalità a rendere morale un comportamento, una azione? Le considerazioni che si facevano poco sopra sul diritto o meno di mentire a fin di bene dovrebbero indurre almeno dei dubbi in proposito, ma altre se ne possono fare. E’ davvero impossibile concepire una azione malvagia che possa essere generalizzata? Forse, ma questa impossibilità si basa davvero sulla forma o non va piuttosto ricercata nel contenuto empirico di questa azione? “Amatevi e rispettativi gli uni con gli altri” può essere generalizzata, “uccidetevi tutti a vicenda” molto probabilmente non lo può, ma questa impossibilità non si basa, di nuovo, su una concreta caratteristica empirica degli esseri umani? Se dico: “Uccidetevi tutti a vicenda” ed il mio invito è accolto con tutta probabilità ci saranno dei superstiti, ma questo lo si deve solo al fatto che gli esseri umani cercano di sfuggire alla morte: in una lotta di tutti contro tutti ci sarà il più abile che ucciderà riuscendo a non essere ucciso a sua volta. Questo però è un fatto empirico, ha poco a che vedere con la forma più o meno universale della norma. Dal punto di vista puramente formale la massima “amatevi gli uni con gli altri” è sullo stesso piano di “odiatevi gli uni con gli altri”; “uccidetevi a vicenda” non è formalmente dissimile di “aiutatevi a vicenda”. La guerra di tutti contro tutti dal punto di vista formale è sullo stesso piano del rispetto generalizzato, tra l’altro la guerra di tutti contro tutti è possibile anche dal punto di vista empirico.

La possibilità di universalizzare una norma è un elemento essenziale della morale. In assenza di questo elemento la morale degenera inevitabilmente nel relativismo o nella stucchevole morale dei buoni sentimenti che ne costituisce spesso l’anticamera. Ognuno ha la sua morale perché ognuno ha la sua scala di valori. Tutti possono essere giustificati perché tutto ciò che facciamo avviene in certe circostanze empiriche che possono essere usate come scusante. Tizio ruba? Ha problemi economici, Caio uccide? Ha avuto una infanzia disagiata, Sempronio stupra? Ha sempre avuto problemi con l’altro sesso. E se tutte le giustificazioni particolari non reggono si può sempre incolpare di tutto la “società”, questa sorta di moderno feticcio capace di cancellare ogni responsabilità individuale, di trasformare ogni delitto in problema sociologico.
Ma l’universalizzazione non può essere fine a se stessa. In sé la possibilità di universalizzare un imperativo non basta a renderlo buono. Se l’imperativo “uccidetevi a vicenda” fosse universalizzabile non sarebbe per ciò conforme alla morale. Un imperativo è davvero morale quando ci comanda di rispettare universalmente qualcosa che è positivo per l’uomo, che gli consente di svilupparsi liberamente. E’ morale rispettare la vita, la libertà, l’autonomia degli esseri umani e la norma che ci impone di farlo non vale solo per me o per pochi altri, magari per i miei amici ed i miei familiari. La forma universale dell’imperativo morale vieta l’autoesenzione, non consente che qualcuno possa riservare a se solo qualche diritto o possa ritenersi esentato dall’obbligo di fare ciò che il dovere impone. Proprio per questo pone dei limiti alle nostre azioni, ci impedisce di violare i diritti degli altri e può impedircelo precisamente perché questi diritti sono universali, valgono per me ma anche per Tizio, Caio, Sempronio, per Laura e Maria, per tutti gli esseri umani. La forma universale che deve assumere la norma morale è quindi essenziale, ma lo è in quando difende e tutela universalmente cose che riguardano gli esseri umani in carne ed ossa, persone empiricamente determinate che vivono qui ed ora nel mondo (o che ci vivranno).
La forma universale non può prescindere dal contenuto, dal cosa si universalizza. Il contenuto dal canto suo è davvero qualcosa di morale solo se vale per tutti. La tutela della mia libertà non può essere disgiunta della tutela della libertà di tutti, altrimenti consente ogni prevaricazione; il sacrosanto diritto a godere dei frutti del mio lavoro apre le porte al furto ed allo sfruttamento se non si accompagna al riconoscimento di un pari diritto per tutti gli esseri umani. Forma e contenuto della norma morale non possono scindersi e contrapporsi, vanno, nei limiti del possibile, tenute unite.
Considerare unitariamente norma e contenuto dell'imperativo etico non vuol dire, si badi bene, cercare di giustificare l'uno tramite l'altra. Chi cercasse un simile tipo di giustificazione entrerebbe inevitabilmente in un circolo vizioso. La legge morale sarebbe buona perché tutela l'uomo e l'uomo sarebbe buono perché obbedisce alla legge morale. Il discorso è diverso: una situazione in cui ognuno rispetti la vita e la dignità di tutti gli altri è, intuitivamente, una situazione buona, di cui è impossibile fornire ulteriori giustificazioni, si tratta si un dato etico. Questo dato può essere espresso dicendo che è “buono” chi rispetta la vita e la dignità dei suoi simili o che è “buona” la legge che tutela chi è capace di un simile rispetto. Non si tratta, come si vede, di fondare una cosa tramite l'altra e viceversa ma di esprimere in modi diversi una stessa verità non ulteriormente analizzabile.

Tenere uniti forma e contenuto nella morale consente di superare certe conclusioni sconcertanti cui porta l’assoluto rigorismo morale di Kant. Esaminiamo il caso della mancata restituzione del portafoglio. Chi non restituisce al suo proprietario il portafoglio che questi ha perso commette sempre un’azione sbagliata, ma c’è una bella differenza fra i due casi che sono stati esposti sopra. Se l’universalizzazione è considerata del tutto scissa da ogni contenuto questa differenza non emerge, se invece si considerano insieme contenuto e forma essa emerge chiaramente: chi si appropria di un bene altrui al fine di passare una piacevole serata non può essere messo sullo stesso piano di chi lo fa per salvare un bimbo malato. Ed ancora, Kant ha ragione: mentire è male, ma mentire ad un assassino in cerca della sua vittima significa salvare una persona che proprio l’osservanza generalizzata dell’obbligo del rispetto per gli altri dovrebbe tutelare. In un caso simile io avrei il dovere prima che il diritto di mentire, ma questo dovere nasce precisamente dalla considerazione del contenuto della norma. Se si prescinde da tale contenuto la menzogna, anche in un simile caso non sarebbe ammissibile.

Considerare insieme la forma ed il contenuto dell’imperativo morale non risolve però tutti i problemi, al contrario. Una simile concezione è, per così dire, sempre in equilibrio instabile. Se si accentua il momento formale di questa unità si rischia di ricadere nel rigorismo assoluto di Kant, se invece si dà più importanza al momento contenutistico ed empirico si rischia di ritrovarsi su posizioni relativiste. Occorre universalizzare un contenuto, un contenuto che interessi all’uomo, ma... di quale contenuto deve trattarsi? Del mio, del suo, del loro? Comunque la si prenda emergono problemi, difficoltà. E non si tratta di difficoltà sempre ed interamente superabili. Considerare il contenuto lega la morale all’empiria, quindi, almeno potenzialmente, ne sminuisce l’universalità. Considerare la forma accentua il momento della universalità e della necessità dell’imperativo morale a scapito della sua concretezza, della capacità di interpretare le situazioni reali in maniera conforme al comune sentire umano.
Se vogliamo tenere uniti forma e contenuto possiamo dotarci al massimo di una norma regolativa, non di una massima. La massima ci offre una formula che da risposte sicure, la norma regolativa ci aiuta ad orientarci, non ci può sempre dire con certezza cosa è morale e cosa no, ci offre criteri di orientamento, non risposte definitive. Seguendo la massima (e la kantiana formula dell’imperativo categorico è una massima) sappiamo che strada percorrere, ricorrendo all’idea regolativa cerchiamo di orientarci, ed orientarsi significa avanzare per strade non sempre conosciute, tornare indietro; a volte chi cerca di orientarsi perde l’orientamento, non sa dove andare, deve fermarsi, e riflettere.
Chi segue la massima ha la risposta ai problemi morali e non si cura troppo delle conseguenze che mettere in atto tale risposta può avere. Chi segue una idea regolativa spesso dubita delle risposte di cui dispone, esamina sempre le conseguenze delle azioni che ritiene siano conformi alla morale. Per lui la massima “sia fatta giustizia e crolli il mondo” non può valere. Non può valere perché sa che la giustizia è un fatto di questo mondo. Chi segue una idea regolativa può, al contrario di chi segue una massima, trovarsi di fronte ad autentici dilemmi morali, a situazioni cioè in cui non si confrontano un bene ed un male ma due beni diversi o addirittura contrapposti e sa che quale che sia la sua la scelta in una simile circostanza essa non sarà mai perfettamente giusta.

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L’idea regolativa non è in grado di fornire sempre risposte certe, del tutto univoche. A ben vedere le cose però questa non può essere considerata una sua “colpa”. E’ la realtà ad essere difficile, è il mondo a non lasciarsi facilmente imbrigliare in giudizi definitivi. Per rendersene conto proviamo a riprendere in esame la domanda posta da Dostoewskji ne “I fratelli Karamazov”.
Sarebbe giusto che la felicità di tutti si basasse sulle atroci sofferenze di un bimbo innocente? La risposta ad una domanda così formulata non può essere che un no nettissimo. Ma proviamo a modificare la domanda del grande narratore russo. Se la sofferenza, o addirittura la morte di un bimbo innocente fosse il solo modo per ottenere la salvezza di numerose vite umane, comprese le vite di altri bimbi innocenti, come dovremmo comportarci? Potremmo accettare lo scambio fra la sofferenza e la morte di uno con la sofferenza e la morte di molti? Per un utilitarista il problema non dovrebbe neppure porsi. Una sofferenza che coinvolge uno solo è da preferire ad una sofferenza che coinvolge molti. Ma è davvero così semplice la risposta? Davvero le considerazioni sulla quantità di sofferenza possono risolvere il problema? Nessuno potrebbe mai convincere l’innocente condannato a sacrificarsi per la salvezza di molti che egli non sta subendo una enorme ingiustizia. Se davvero la quantità di sofferenza fosse l’unico o il prevalente criterio di scelta perché un essere umano, magari in età avanzata, non potrebbe essere ucciso al fine donare i suoi organi a molti giovani malati?
Anche per un rigorista kantiano non dovrebbero esserci troppi problemi: per lui la risposta sarebbe un no nettissimo. Ma, anche questa risposta è così scontata? Poniamo che io sia alla guida di un’auto e che d’improvviso i freni si guastino. L’auto corre all’impazzata, davanti a me c’è un gruppo di bambini, sto per travolgerli. Posso salvarli solo sterzando, ma se sterzo investo un altro bambino che se ne sta in disparte. Cosa devo fare? In questo caso è davvero ininfluente il numero delle vittime? E se, per fare un altro esempio, si dovesse scambiare la morte di un solo innocente con quella di alcuni milioni di esseri umani potremmo comunque disinteressarci del numero delle vittime? Se un atto di giustizia verso un solo innocente dovesse essere pagato in maniera tanto mostruosa non si trasformerebbe ipso facto in una ingiustizia? Colui che dispone non di una massima assoluta ma solo di una idea regolativa si rende conto del carattere drammatico di simili dilemmi e, soprattutto, si rende conto del fatto che ad essi non si può rispondere in maniera scontata. Quale che sia la risposta essa è destinata a lasciarci insoddisfatti, in ogni caso si avrebbe la sensazione, estremamente fondata, che la scelta che si è fatta contiene qualcosa di sbagliato, di non interamente conforme a ciò che consideriamo dovere morale.

Ma è proprio per questo che l’idea regolativa è da preferire alle massime assolute. E’ meglio rendersi conto che a volte i nostri criteri di scelta sono destinati a rivelarsi tragicamente inadeguati che bearsi nell’illusione di potersi sempre comportare in maniera assolutamente corretta. E’ la flessibilità, la capacità di adattamento, il carattere mai del tutto esaustivo dell’idea regolativa ciò che la rende preferibile all’assolutismo delle massime.
D’altro canto se è legittimo riconoscere l’imperfezione della idea regolativa non è però corretto accentuare più del dovuto tale imperfezione. Una morale che guardi sia alla forma che al contenuto è comunque possibile e ci consente nella maggioranza dei casi di riconoscere con sufficiente esattezza cosa è giusto fare. La stragrande maggioranza degli esseri umani sa intuitivamente che certe cose sono cattive ed altre buone. Le sofferenze inflitte ad un innocente vengono riconosciute da tutti come qualcosa di deplorevole. Ciò è talmente vero che anche chi tormenta i suoi simili cerca pretesti per giustificare il suo comportamento: parla di azioni che ripagano altre ingiustizie o nega che le sue vittime siano innocenti. Per tornare un attimo a due dei tre casi cui è fatto accenno in precedenza, quelli della persona anziana uccisa per donare i suoi organi e dell’auto impazzita, è abbastanza chiaro vedere cosa li differenzia. Nel caso della persona anziana io agirei volontariamente per ucciderla al fine di salvare altre persone e questo è decisamente inammissibile, nel caso dell’auto impazzita io sarei comunque costretto ad uccidere ed appare legittimo in un simile caso che cerchi di limitare i danni.
Un kantiano potrebbe ribattere che ragionando in questo modo teorizziamo una morale accidentale. Cosa rispondere ad una simile obiezione? Forse si può rispondere solo che in ogni morale esiste un ineliminabile momento di accidentalità. Se gli esseri umani non avessero la capacità di porsi problemi morali la morale non esisterebbe. Questa sola considerazione introduce, piaccia o meno la cosa, un momento accidentale nella morale. Si prescinda dalle caratteristiche empiricamente date dell’uomo e il discorso morale resta sospeso nel vuoto, non può neppure essere formulato.

Chi lega forma e contenuto dell'imperativo etico pone un dato alla base dell'etica: qualcosa è buono, punto e basta, oltre non si può andare. Anche il razionalismo etico di Kant deve accettare, alla fine una simile datità: l’imperativo morale è per Kant un fatto della ragione, un dato non ulteriormente spiegabile. In quanto essere morale l’uomo può solo accettare di obbedire ai comandi della norma morale, non può spiegarla, deve solo accettarla. “In qual modo per noi una ragione pura, senza altri moventi, qualunque sia la loro provenienza, sia per se stessa pratica, in qual modo cioè il semplice principio della validità universale di tutte le sue massime come leggi (…) offra per sé stesso un movente e susciti un interesse che posa dirsi puramente morale o, in altri termini, in qual modo la ragion pura possa essere pratica, nessuna ragione umana può assolutamente spiegare, e ogni sforzo ed ogni fatica per spiegarlo sono del tutto inutili “ (12)
L'imperativo morale ci obbliga perché è morale, oltre non si può andare, neppure per Kant. Noi non possiamo sapere perché la morale ci interessa, non possiamo sapere perché la legge ci obbliga, né come ci obbliga, possiamo solo accettare questo dato di fatto e assumerlo come vero. La concezione razionale e formale della morale di Kant incontra qui il suo limite invalicabile.
Il dato è ineliminabile da tutto ciò che è umano ed il dato è sempre qualcosa di accidentale. Nessuna necessità logica spiega perché esista qualcosa come l'imperativo etico e perché esista un ente interessato a tale imperativo. Può non piacere che il dato, quindi l'accidentale entri anche nella morale. Ma la morale è un fatto umano...







Note

1) I. Kant: Critica della ragion pratica. Laterza 1983. pag 78 79

2) I. Kant: opera citata pag. 79

3) Ibidem pag. 75

4) Ibidem pag. 77

5) Ibidem pag. 39

6) I. Kant: Fondazione della metafisica dei costumi. Laterza 1985 pag. 61

7) I. Kant: opera citata pag. 63

8) F Dostoevskij: I fratelli karamazov. Einaudi 1993 pag. 328 329.

9) F. Dostoevskij: opera citata pag. 329

10) I. Kant: Su un preteso diritto di mentire per amore degli uomini. In “I grandi filosofi: Kant”. Edizioni del “sole 24 ore” pag. 723. Sottolineature di Kant.

11) I. Kant: Fondazione della metafisica dei costumi. Laterza 1985 pag. 24

12) I. Kant: opera citata pag. 105-106. Sottolineatura di Kant











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