lunedì 10 giugno 2013

LIBERTA' ED UGUAGLIANZA. DUE


Robert Nozick

Natura o società?

Molti egualitaristi rifiuterebbero con sdegno l’accusa di volere un appiattimento generale degli esseri umani. A dover essere eliminate sono le disuguaglianze sociali, non le differenze naturali, “tutti eguali ma diversi”, questo slogan riassume bene le loro concezioni. Eliminare le disuguaglianze sociali sarebbe per costoro il mezzo per far risaltare al massimo le differenze naturali che ci caratterizzano. La società capitalistica massifica gli esseri umani, fa perdere all’uomo molte delle sue caratteristiche riducendo tutti alla sola dimensione dell’avere. L’uomo che vive nelle società capitalistiche avanzate, dominate da una tecnologia alienante, è, diceva Marcuse, un uomo ad una dimensione un uomo che vive solo per produrre e consumare, privo di rapporti autenticamente umani con gli altri, alienato dalla sua autentica essenza.
Non è il caso di dilungarci troppo sulla immagine catastrofica che Marcuse, e con lui altri esponenti della scuola di Francoforte, hanno dato delle società capitalistiche avanzate e, più in generale, di tutte le organizzazioni sociali caratterizzate da un elevato sviluppo tecnologico. Il capitalismo è un sistema socio economico in cui le fondamentali scelte relative alla produzione ed al consumo non sono decise centralmente ma sono lasciate all’autonomia dei singoli. Nelle società libere ognuno può scegliere lo stile di vita che preferisce; può tentare di diventare un grande imprenditore o entrare in convento, può fare sport con l’obiettivo di guadagnare un sacco di soldi o per il puro piacere di farlo, può fare il lavoratore dipendente o autonomo, può amare il successo o aspirare ad una vita anonima. Però deve essere coerente con le scelte che fa. Non può lamentarsi di non aver troppo denaro se ha scelto di praticare da professionista uno sport che non piace molto alle masse, né può pretendere che lo stato finanzi la sua attività artistica che non riesce a trovare estimatori. Per essere brevi, non si può pretendere ricchezza e successo nel momento stesso in cui si esprime un aristocratico disprezzo verso questi beni mondani.
Se l’economia di mercato ha prodotto e produce quantità prima inimmaginabili di beni ciò è dovuto, tra l’altro, al fatto che questi trovano acquirenti, che gli esseri umani amano possedere beni materiali. Lo stato in una società libera non educa i cittadini, chi produce dal canto suo lo fa non per migliorare spiritualmente i consumatori ma per venire incontro alle loro esigenze. Ricorda Ludwig von Mises: “i capitalisti perdono il loro denaro non appena mancano di investirlo in quei rami che soddisfano meglio le esigenze del pubblico” (1). Ma non dover subire l’”educazione” dello stato o di qualche produttore non significa perdere la propria essenza umana, decadere da animale razionale ad animale consumista; solo chi ha una fede superstiziosa nello stato e nei burocrati può pensare cose simili. L’uomo che vive nelle società libere ad economia di mercato non è necessariamente impegnato solo a produrre, guadagnare e consumare; semplicemente ha la fortuna di non dover avere a che fare con un potere politico che cerca di imporgli fini di vita che a lui non piacciono e di poter disporre (almeno in molti casi) di alcuni degli strumenti materiali necessari a realizzare le proprie aspirazioni. Se poter viaggiare, leggere, vivere in una casa comoda, nutrirsi decentemente, non dover lavorare dieci ore al giorno solo per potersi sfamare massifica, l’uomo di oggi è massificato al massimo grado, per fortuna, potremmo dire.

Ma torniamo alla formula “tutti uguali ma diversi”, torniamoci perché merita di venire analizzata attentamente. Una simile formula sarebbe del tutto condivisibile se col termine “uguali” si intendesse formalmente uguali o ci si riferisse ad una situazione in cui oltre ad essere tutti formalmente uguali, gli esseri umani potessero disporre di alcune protezioni sociali volte a garantirli dalle turbolenze del mercato e da sempre possibili eventi disastrosi. Ma per eguali qui si intende “socialmente uguali", ci si riferisce cioè, se le parole hanno un senso, ad una società in cui non dovrebbero esistere disuguaglianze sociali fra gli esseri umani, o per lo meno queste dovrebbero essere contenute entro limiti estremamente ridotti. Sarebbe precisamente questa eguaglianza delle condizioni sociali a garantire il pieno dispiegamento delle differenze naturali che ci caratterizzano. L’egualitarismo sociale garantirebbe un accettabile individualismo, si potrebbe avere eguaglianza senza appiattimento.
Anche se affascinante una simile formula è intimamente contraddittoria. Non è possibile affermare che le differenze naturali fra gli esseri umani siano un fatto positivo e farsi promotori nel contempo dell’egualitarismo sociale. Chi propugna una simile concezione non può neppure affrontare il problema delle conseguenze sociali delle differenze naturali fra gli esseri umani.
Se ho una intelligenza superiore a quella di altri, se ho una migliore capacità di apprendere o una maggior forza di volontà, probabilmente riuscirò a raggiungere una posizione sociale migliore della loro, sarà proprio il riconoscimento del valore delle mie caratteristiche naturali a permettermelo. Le differenze naturali fra gli esseri umani hanno molto spesso conseguenze sociali. Un atleta capace di correre i 100 metri piani in nove secondi e sette decimi non solo vincerà medaglie alle olimpiadi ed ai campionati del mondo; stipulerà contratti vantaggiosi con i migliori sponsor, guadagnerà somme più elevate di quelle percepite da molti suoi competitori meno dotati. Per impedire situazioni di questo genere bisognerebbe fare in modo che le differenze naturali fra gli esseri umani fossero prive di conseguenze sociali, ma questo porta, oltre che a restrizioni della libertà personale paragonabili a quelle che sono state esaminate nel punto precedente, anche a situazioni al limite dell’assurdo. Poniamo che l’atleta Tizio corra i 100 metri in nove e sette, cosa occorrerebbe fare per impedire che questa sua superiorità atletica si tramuti in disuguaglianza sociale? Stabilire d’ufficio che Tizio non possa vincere più di tante gare? Ogni atleta dovrebbe avere assicurato un quantum di medaglie: tante d’oro, tante d’argento e tante di bronzo? O il pareggio dovrebbe essere il risultato, deciso a priori, di tutte le competizioni? O bisognerebbe impedirgli di trarre profitti dalla sua abilità? Se Tizio gareggia gli stadi si riempiono però lui non dovrebbe avere un centesimo dei maggiori introiti derivanti dalla sua sola presenza. A qualcuno questa potrebbe apparire una buona soluzione, ma, trattato in questo modo, Tizio potrebbe rifiutarsi di gareggiare. Lo si dovrebbe allora obbligare? L’illiberalismo di certe concezioni è palese.
Il filosofo americano Robert Nozick in “Anarchia, stato e utopia” immagina che il governo di un certo paese, poniamo un governo democraticamente eletto, decida una certa distribuzione dei beni, una distribuzione equa che risponda alle esigenze di uguaglianza votate dalla maggioranza della popolazione “Chiamiamo D1 questa distribuzione” (2) afferma Nozick. Anche il campione di basket Wilt Chamberlain partecipa a questa equa divisione dei beni; il governo stabilisce quale quota della ricchezza sociale deve andare ai giocatori di basket e Chamberlain riceve esattamente quanto gli altri giocatori. Visto però che è fortemente richiesto dalle squadre di basket, Chamberlain firma con una di esse il seguente contratto: “Per ciascuna partita in casa avrà venticinque centesimi del prezzo di ogni biglietto d’ingresso (…) Supponiamo che in una stagione assistano alle sue partite in casa un milione di persone, e Wilt Chamberlain concluda con 250.000 dollari, una somma di gran lunga maggiore del reddito medio e maggiore perfino di quanto abbia chiunque altro. E’ ingiusta” si chiede Nozick “questa nuova distribuzione D2?” (3). Per il filosofo americano (ed io, modestamente, concordo) la risposta è no. Le persone che hanno pagato per vedere Chamberlain possedevano legittimamente il loro denaro: era stato loro assegnato dallo stato in base ad una distribuzione giusta. “Ciascuna di queste persone ha scelto di dare venticinque centesimi del suo denaro a Chamberlain. Avrebbero potuto spenderlo andando al cinema o in un negozio di dolciumi o acquistando copie della rivista Dissent o della Montly Review. Invece tutti, o quanto meno un milione di loro, convengono nel darli a Wilt Chamberlain in cambio dello spettacolo che offre giocando a basket. Se D1 era una distribuzione giusta e le persone si spostano volontariamente da questa a D2 (…) non è forse giusta anche D2?” (4)
Si ammetta che esistano differenze naturali fra gli esseri umani, che alcuni siano più abili o forti o simpatici o intelligenti di altri, si conceda loro un minimo di libertà e qualsiasi modello di “equa” distribuzione dei beni è destinato ad essere modificato dalle scelte dei singoli. “Per mantenere un modello” conclude Nozick ”si deve interferire continuamente per impedire alla gente di trasferire risorse secondo i suoi desideri” (5) e tutto ciò ha conseguenze devastanti per la libertà. Chi mette in atto comportamenti capaci di modificare il modello di distribuzione (chi va a veder giocare Chamberlain per capirci) “andrà forse rieducato o costretto a sottoporsi ad autocritica” (6)?. La storia ha purtroppo risposto affermativamente a questa domanda.

Nozick parte dall’ipotesi che lo stato divida in maniera egualitaria la ricchezza patrimoniale fra i cittadini. Si possono, volendo, fare ipotesi anche più restrittive che conducono tutte allo stesso risultato. Si supponga che lo stato decida non solo la distribuzione della ricchezza patrimoniale ma anche l’ammontare dei redditi. Il nostro Wilt Chamberlain stavolta non può firmare contratti vantaggiosi con le varie società di basket, deve accettare il reddito deciso dal potere politico. Nessuno però impedirà ai dirigenti della società per cui Chamberlain gioca di pagare un premio ulteriore al campione per invogliarlo a giocare meglio, non solo, potrebbero essere gli spettatori ad accettare di pagare un biglietto maggiorato per finanziare il loro idolo. L’unico modo per impedire che le libere scelte dei singoli modifichino il modello di distribuzione egualitaria dei redditi dovrebbe consistere nella proibizione di questi comportamenti, non solo lo stato deciderebbe i redditi dei cittadini, ma impedirebbe a questi di trasferire ad altri parte di quelli. Si può anche ipotizzare che lo stato non solo decida i redditi ma anche il lavoro delle persone. Chamberlain in questo caso non farà il giocatore di basket ma l’impiegato di banca, finalmente non potrà trarre vantaggi sociali dalle sue doti naturali! Ma Chamberlain potrebbe, finito il lavoro, organizzare partite con i suoi amici e chiedere un compenso a chi volesse vederlo, potrebbe anche allenarsi a giocare a basket e chiedere denaro a chi assiste ai suoi allenamenti. Ancora una volta la possibilità di scelta concessa agli esseri umani scompaginerebbe i piani egualitari del potere politico. Per impedire che le scelte libere dei singoli scompaginino i vari modelli politici di equa distribuzione dei beni occorre che le limitazioni della libertà personale siano sempre più ampie, estese, profonde. Non solo le idee politiche ma le idee in generale dovrebbero essere controllate, e non solo le idee, ma i comportamenti, e non solo i comportamenti, ma i desideri, le aspirazioni, le pulsioni degli esseri umani dovrebbero essere sottoposte ad un controllo statale soffocante. L’ideale di chi sogna un generale egualitarismo è una società integralmente controllata dal potere politico, meglio, una società un cui il potere politico non controlla ma stabilisce quali devono essere le idee, le aspirazioni, i desideri, i comportamenti, le pulsioni degli esseri umani. Va da sé che una simile società oltre a distruggere ogni libertà creerebbe la più grave ed intollerabile forma di ineguaglianza che sia possibile concepire: quella che contrappone chi può decidere sul destino di moltissimi suoi simili a chi invece può solo subire le scelte del potere. E queste non sono, sia ben chiaro, fantasie, esercitazioni logiche. C’è chi ha tentato simili esperimenti sociali che non a caso hanno sempre avuto esiti disastrosi.




Note

1) Ludwig von Mises: La mentalità anticapitalistica: Armando editore, 1988. Pag. 24.

2) Robert Nozick: Anarchia, stato e utopia. Il saggiatore 2005. Pag. 174

3) Robert Nozick: opera citata pag. 174

4) Robert Nozick, opera citata pag. 174. Sottolineature di Nozick

5) Robert Nozick: opera citata pag. 176

6) Robert Nozick: opera citata pag. 176.



Le cerimonie in ricordo di Kim Jong-il


L’eguaglianza di opportunità

La richiesta che tutti possano disporre nella vita di eguali opportunità appare assai meno estremistica della rivendicazione dell’egualitarismo sociale. Lo appare ed in una certa misura lo è. Chi rivendica l’eguaglianza di opportunità vuole uguali punti di partenza, non uguali punti di arrivo. Noi tutti siamo diversi, è vero, ed è anche vero che le differenze naturali fra noi hanno profonde conseguenze sociali, danno vita a situazioni di disuguaglianza. Tutti però abbiamo diritto ad avere gli stessi punti di partenza. Forse Tizio è migliore di me, forse è destinato ad occupare una posizione sociale migliore della mia, nulla da eccepire se questo avviene, ma non è giusto che Tizio parta avvantaggiato nei miei confronti. Se Tizio è destinato a superarmi che lo faccia in una gara in cui entrambi partiamo alla pari; se questo non avviene la gara è truccata.
Posizioni di questo tipo sono del tutto accettabili se intese in senso debole, se si traducono cioè, oltre che nella sacrosanta richiesta della più rigida uguaglianza formale, nella rivendicazione di riforme sociali miranti a garantire ad ognuno una certa quantità di opportunità che gli consentano di cercare di realizzare le proprie aspirazioni e, perché no, i propri sogni. Ma molto spesso l’eguaglianza di opportunità non viene intesa in questo modo. Ciò che si teorizza non è una società in cui tutti possano godere di certe opportunità, una società, per intenderci, in cui esista una scuola dell’obbligo, in cui i capaci e meritevoli possano trovare i mezzi per proseguire gli studi fino ai livelli più elevati (borse di studio, prestiti sull’onore ecc.) o in cui siano garantiti a tutti certi livelli di previdenza e di assistenza sanitaria. No, quella che si teorizza spesso è la assoluta uguaglianza dei punti di partenza. Perché il rampollo di una ricca famiglia può accedere tranquillamente alle migliori università mentre il figlio di un bracciante, non in grado di pagare le tasse universitarie, se vuole laurearsi deve sperare in una borsa di studio o contrarre un prestito? E anche nella scuola dell’obbligo c’è forse vera parità fra gli studenti? Anche prescindendo dal fatto che un giovane benestante può usufruire di lezioni private, magari frequentare una scuola privata eccetera, il solo fatto che i ragazzi di classi sociali diverse vivano in diversi ambienti sociali non crea fra loro enormi disuguaglianze? Sono davvero sullo stesso piano il figlio di un medico ed il figlio di un borgataro semi analfabeta? Il primo vive in un ambiente colto, ha genitori che parlano correttamente l’italiano e magari altre lingue, abita in una casa piena di libri, viaggia; il secondo invece vive con genitori che non vedono l’ora che egli lasci la scuola per guadagnare qualche soldo. Il fatto di frequentare la stessa scuola rende davvero uguali i loro punti di partenza? Gli esempi potrebbero continuare. Davanti ai giudici un povero immigrato assistito da un avvocato d’ufficio è davvero uguale all’industriale che può farsi difendere da un principe del foro? Il ricco che può pagarsi i migliori specialisti gode della stessa tutela della salute di colui che può solo fare ricorso alla sanità pubblica? L’eguaglianza di opportunità, a vedere bene le cose, è una pura illusione; ognuno di noi affronta il gioco della vita non partendo alla pari con gli altri, ma da posizioni di privilegio o di svantaggio. Chi vuole una vera eguaglianza di opportunità dovrebbe eliminare tutti i privilegi che rendono le opportunità di ciascuno diseguali, spesso molto diseguali, da quelle degli altri.
Che rispondere ad argomentazioni di questo tipo? Al di là delle esagerazioni esse contengono molto di vero. Ad esse si può rispondere solo: “E allora?”
Certo, i punti di partenza di tutti non sono mai del tutto uguali, non possono esserlo. Nessuno di noi partecipa al gioco della vita partendo da posizioni uguali a quelle degli altri, e questo per il semplicissimo motivo che è proprio questo gioco a differenziare continuamente le posizioni, a renderle diseguali. Tizio e Caio possono anche partire da posizioni uguali, se Tizio però ha più fortuna di Caio, o è più abile di lui, le loro posizioni subito si differenziano. Tizio e Caio hanno iniziato la scuola da posizioni uguali ma Tizio è arrivato sino all’università, Caio si è fermato prima. Il proseguo della loro esistenza sarà segnato da questa disuguaglianza, i nuovi punti di partenza di Tizio e Caio non saranno più uguali. Tizio sarà avvantaggiato quando entrambi cercheranno un lavoro, i suoi titoli conteranno di più in un concorso, forse godrà di un certo vantaggio sull’amico-rivale anche corteggiando le ragazze. Caio potrà superare a sua volta Tizio, ovviamente, ma la cosa gli costerà più di quanto costi a Tizio conservare il vantaggio acquisito. I figli di Tizio e Caio poi partiranno da posizioni ancora più nettamente diseguali; ereditando quanto di positivo e di negativo (e non mi riferisco solo alla ricchezza materiale) hanno loro lasciato i genitori essi verranno da subito a trovarsi in posizioni diseguali, non avranno le stesse opportunità. Come ovviare a una tale “ingiustizia”? Stabilendo fra tutti gli esseri umani posizioni di assoluta eguaglianza sociale e naturale? Abbiamo già visto nei punti precedenti che questo distrugge la libertà e crea nel contempo nuove, spaventose forme di disuguaglianza. Intervenendo continuamente per ristabilire la parità di opportunità che è stata modificata? Questo è del tutto assurdo. Farlo significherebbe permettere la concorrenza ma intervenire di continuo per modificare i risultati della sfida concorrenziale, favorire la meritocrazia ma togliere a chi ha più meriti ciò che ha saputo conquistare per darlo a chi è rimasto indietro. Meritocrazia e concorrenza sono incompatibili con l’egualitarismo sociale, quindi anche con l’assoluta eguaglianza delle opportunità. Correggere continuamente i risultati del gioco della vita è un po’ come giocare a poker intervenendo ogni due o tre mani per ridistribuire i premi fra i giocatori, accettare il rischio salvo poi pretendere che chi perde venga rimborsato e chi vince perda ciò che ha vinto. Una assurdità del tutto contraddittoria.

In società davvero libere e democratiche le ineguaglianze anche assai marcate che esistono non conducono, almeno nella maggioranza dei casi, a situazioni drammatiche ed è comunque compito dei governi operare affinché queste situazioni non si producano. Molto spesso le ineguaglianze sono sentite come intollerabilmente ingiuste solo da chi ritiene l’uguaglianza il valore assolutamente prioritario. Per chi invece non considera l’uguaglianza, l’uguaglianza reale o sostanziale, il valore più importante non è gravissimo che, ad esempio, a scuola il figlio di un bracciante non sia sullo stesso piano del figlio di un medico. La superiorità del figlio del medico non è un problema troppo grave se si hanno scuole che funzionano bene, con insegnanti preparati e buoni strumenti didattici. In una scuola simile il figlio del bracciante potrà avere buone possibilità di conseguire un livello di istruzione più che accettabile, ed è questo che davvero conta. In una società libera inoltre le disuguaglianze non sono quasi mai definitive. Se è vero che i punti di partenza non sono mai del tutto uguali è anche vero che non sempre chi parte avvantaggiato riesce a conservare il vantaggio sui chi è partito dietro. Dove la disuguaglianza non è garantita per legge le posizioni possono sempre rovesciarsi, l’ultimo di ieri può diventare il primo di domani, le grandi fortune così come si accumulano possono disfarsi; l’affermato imprenditore che non riesce a tener dietro ai mutamenti del mercato è destinato al declino, il giovane rampante appena entrato nella sfida concorrenziale, e che gli anziani guardano con commiserazione, può affermarsi, scoprire nuovi mercati, lanciare nuovi prodotti, inventare nuovi processi produttivi e in poco tempo tutti smetteranno di guardarlo con commiserazione. Se dal mercato volgiamo lo sguardo alle elitès della società possiamo renderci conto che è quanto meno azzardato affermare che queste provengono sempre, o anche solo prevalentemente, dalle classi ricche. In maggioranza i grandi artisti, scienziati, filosofi, statisti non appartengono né appartenevano alla elite finanziaria o alla nobiltà. I più erano di origini abbastanza umili, provenivano dalle classi medie o addirittura da quelle povere. Molti uomini che hanno onorato se stessi, il loro paese ed il genere umano con le loro opere sono partiti da posizioni di grande svantaggio sociale, sicuramente molto indietro rispetto a loro coetanei di cui oggi nessuno ricorda il nome. Per tutta la vita Mozart è stato tormentato da problemi economici, Kant era figlio di un sellaio, il padre di  Einstein era proprietario di una modesta officina che gestiva col fratello, tutti sono stati poco favoriti dalla sorte, ciò non ha impedito loro di fare quello che hanno fatto. Le disuguaglianze hanno la loro importanza, ovviamente, ma in molti casi meno di quanta comunemente si attribuisca loro.

Molto spesso il discorso sulla disuguaglianza dei punti di partenza è ampliato alla competizione politica. Si sente spesso dire che la competizione politica non è davvero uguale, che certi partiti possono godere di grandi finanziamenti di cui altri sono invece privi, che solo chi dispone di grandi somme può aspirare alla presidenza degli Stati Uniti e cose simili. Sulla competizione politica possono farsi considerazioni analoghe a quelle fatte a proposito degli individui. I partiti già affermati godono di un indiscutibile vantaggio su quelli nuovi, chi dispone di ingenti finanziamenti o di notevoli ricchezze private avrà maggiori possibilità di essere eletto presidente degli Stati Uniti eccetera. Anche qui la situazione può essere parzialmente corretta ma non eliminata. Si possono riservare a tutti i partiti degli spazi televisivi, garantire un tot di visibilità a tutte le posizioni politiche che godono di un minimo di seguito, molto oltre non si può, e a mio modesto parere non si deve, andare. Significa poco o nulla il fatto che un candidato alla presidenza degli Usa debba disporre di elevati mezzi finanziari. Come si potrebbe correggere un fatto tanto ovvio? Finanziando con denaro pubblico chiunque voglia tentare la scalata alla presidenza? Dovremmo pagare le tasse per consentire a Luigi Rossi o Mario Bianchi di diventare presidenti? Considerazioni simili possono farsi sul finanziamento ai partiti. Se io, mia moglie ed un amico fondiamo un partito abbiamo forse diritto, in nome della eguaglianza delle opportunità, di godere di finanziamenti pubblici? O chi finanzia il partito X deve essere obbligato a finanziare anche me? O si deve impedire a chiunque di finanziare un partito? E se io invece lo voglio finanziare? Se decido di versare tutti i mesi una certa somma su un conto intestato al partito X, perché non dovrei poterlo fare? Iscriversi a un partito pagando tessera, contributi e quant’altro non significa finanziare quel partito? E se è lecito finanziare un partito diventando suoi iscritti perché non dovrebbe esserlo finanziarlo senza iscriversi? Certo, molto spesso dietro al finanziamento privato ai partiti ci sono tangenti, corruzione e tante cose poco chiare. Il problema però sono la corruzione e le tangenti, non il finanziamento privato in quanto tale.
Ma la critica degli egualitaristi alla politica democratica è più sottile. Per far politica occorrono notevoli mezzi finanziari, questo proverebbe secondo loro che gli unici interessi che le forze politiche proteggono sono quelli delle classi agiate. Se i partiti sono costosissimi apparati, se i candidati alla carica di presidente o primo ministro sono persone piene di soldi come si può pensare che possano tutelare gli interessi della povera gente? Noam Chaomsky lo ha detto chiaramente parlando della corsa alla casa bianca: entrambi i candidati hanno alla spalle grossi potentati economici, nessuno quindi rappresenta davvero il popolo. L’impareggiabile Noam dovrebbe spiegare perché quel popolo che nessuno rappresenta non abbia mai dato il minimo sostegno a formazioni di estrema sinistra, che non hanno alle spalle i potentati economici. Il partito comunista americano è sempre stato solo una piccola setta, la stessa cosa può dirsi a proposito della sezione americana della trotskista “quarta internazionale”. Quando negli anni 70 dello scorso secolo il partito democratico presentò quale candidato alla presidenza un uomo nettamente schierato a sinistra come il senatore Mc Govern subì la sconfitta più bruciante della sua storia. Noam Chaomsky forse dovrebbe prendersela col suo popolo, e forse sotto sotto lo fa…

In effetti i partiti sono apparati piuttosto costosi e sono spesso finanziati da gruppi di potere economico, questo però non dimostra affatto che non possano e debbano cercare di soddisfare con la loro azione le esigenze dei loro elettori. Se un gruppo di potere economico finanzia il partito X lo fa perché ritiene di essere in qualche modo avvantaggiato dal suo programma. Ma il partito X andrebbe incontro alla scomparsa se elaborasse i suoi programmi tenendo conto unicamente o prevalentemente delle esigenze del suo potente finanziatore. La forza di un partito in ultima analisi sta tutta nella sua capacità di mettersi in sintonia con le idee, gli interessi, le aspettative, i sentimenti di grandi masse di esseri umani. Se un partito riesce davvero ad interpretare e a fare sue le esigenze profonde di larghi strati della popolazione è destinato a diventare forte, a contare e quindi anche ad ottenere finanziamenti. Se invece un partito diventa solo la cassa di risonanza politica di certi potentati economici è destinato a giocare un ruolo marginale nella competizione politica. Il partito nazionalsocialista riuscì, purtroppo, nella Germania del primo dopoguerra a mettersi in sintonia con i sentimenti profondi di larghi settori del popolo tedesco. La satanica grandezza politica di Hitler consistette precisamente nel saper assimilare le ansie, i timori, le pulsioni di larghe masse di tedeschi. Questo e solo questo spiega il mistero di un fallito, che entra in un partitino praticamente sconosciuto e riesce in poco tempo a diventare il dittatore assoluto di uno stato come la Germania. Il partito nazionalsocialista non è diventato forte grazie ai finanziamenti di alcuni magnati dell’industria, è vero il contrario: i magnati dell’industria hanno deciso, commettendo un imperdonabile atto di cecità e criminalità politica, di finanziare il partito nazionalsocialista dopo che questo aveva già acquistato un notevolissimo seguito di massa. Gli stessi, o altri magnati del resto finanziavano anche altri partiti ma questo non impedì a tali partiti di essere spazzati via dal trionfo dell’oscuro demagogo austriaco.

Il fatto che non tutti i partiti politici siano sullo stesso piano, che abbiano a disposizione mezzi non del tutto uguali non falsifica quindi la competizione politica, non rende illusoria la democrazia. I partiti che interpretano davvero le esigenze di vasti settori della popolazione troveranno le loro fonti di finanziamento (va ricordato per inciso che una delle principali fonti di finanziamento di un partito sono i suoi iscritti, i militanti, i simpatizzanti, gli elettori), altri che si dimostrano incapaci di assolvere questo compito perderanno alla lunga anche i finanziamenti e per primi perderanno quelli dei loro militanti, simpatizzanti, elettori. Ho fatto sopra l’esempio di Hitler, altri sono possibili. I partiti socialisti non avevano al loro nascere grandi mezzi, ciò non ha impedito loro di crescere e di affermarsi, la lega nord al suo nascere era quasi completamente priva di mezzi ed era inoltre osteggiata da tutti i media. Però interpretava esigenze e sentimenti assai diffusi nel “profondo nord”, per questo ha avuto successo. Il segreto del successo di Berlusconi non sta nei suoi soldi, anzi, questi hanno offerto ai suoi rivali innumerevoli argomenti polemici. Berlusconi si è imposto perché è riuscito ad apparire come l’uomo nuovo della politica italiana, ha saputo sintonizzarsi con le idee ed i sentimenti di milioni di italiani anticomunisti che la distruzione della vecchia DC aveva lasciato politicamente orfani.
L’assoluta parità di opportunità è una chimera anche in politica ma questo non ha risultati necessariamente disastrosi. Le disuguaglianze fra forze politiche hanno la loro importanza, ed è bene ridurle, ma non sono un fattore decisivo. La democrazia è minacciata assai più che dalla disuguaglianza di opportunità dalle ventate di irrazionalismo che spesso attraversano i corpi elettorali, avvelenando la vita politica e culturale di intere nazioni. Il caso di Hitler è assai significativo ed inquietante, ma lo è anche il fatto che per decenni milioni di onesti lavoratori abbiano visto in uno Stalin il loro leader e potenziale liberatore. Forse non è un caso che chi protesta con più veemenza contro la disuguaglianza delle opportunità in politica cavalchi ed alimenti queste ondate di pericoloso irrazionalismo. Ma questo è un altro discorso.










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