venerdì 14 giugno 2013

UN DOCUMENTO SCONVOLGENTE, E RIVELATORE




Il 10 dicembre 1937, a meno di tre mesi dall'inizio del terzo grande processo di Mosca alla vecchia guardia bolscevica, Nikolai Bucharin, scrisse una lettera a Giuseppe Stalin. Nikolai Bucharin era stato uno dei dirigenti bolscevichi più prestigiosi, il “prediletto del partito” lo aveva definito Lenin. Alleato di Stalin nella lotta contro Trotskij entrò successivamente in rotta di collisione col georgiano. Nel 1937 era ormai finito politicamente. Arrestato venne costretto a “confessare” di essere un traditore al soldo dell'imperialismo, un terrorista, un sabotatore. La lettera che inviò a Stalin è un documento sconvolgente, che la dice lunga sulla natura del comunismo. Val la pena di esaminarla.

“Onde evitare malintesi”, esordisce Bucharin, “tengo a dirti che per il
mondo esterno (la società)
1 – Non ritirerò niente, pubblicamente, di quanto ho scritto durante l'istruttoria.
2 – Non ti domanderò niente che riguardi
quello, e tutto ciò che ne deriva, non ti implorerò di far nulla che possa nuocere alla faccenda, che deve seguire il suo corso. Ti scrivo unicamente per tua informazione personale. Non posso lasciare questa vita senza averti scritto queste ultime righe, perché sono tormentato da diverse cose che devi sapere.
1 – Dato che mi trovo sull'orlo di un baratro senza ritorno, ti do la mia parola d'onore di non aver commesso i crimini che ho riconosciuto durante l'istruttoria.
2 – Non avevo altra soluzione se non confermare le accuse e le testimonianze degli altri e ampliarle: in caso contrario si sarebbe potuto pensare che non deponevo le armi”.

Non esiste una sola verità afferma Bucharin. Per il mondo esterno vale la verità dell'istruttoria. Per il popolo, per i lavoratori di cui i bolscevichi si dicono i più fedeli difensori, Bucharin è, deve essere, un traditore, un terrorista. Ma a Stalin, ed ad una ristrettissima elite dipartito, lui può dire la verità “vera”: non è un traditore e un terrorista, non ha commesso crimine alcuno. Bucharin “confessa” la sua innocenza a Stalin nel momento stesso in cui lo rassicura. Collaborerà alla farsa, non chiederà nulla che riguardi “
quello”, non farà nessuna ritrattazione. Insomma, sarà un attore disciplinato, sino alla fine, solidale con l'apparato che lo sta distruggendo.
Così procede Bucharin:

“Esiste la
grande e audace idea della purga in generale
a) in rapporto alla minaccia di guerra b) in rapporto al passaggio alla democrazia.
Questa purga riguarda: a) i colpevoli, b) gli elementi che nutrono dei dubbi, c) coloro che potenzialmente potrebbero nutrire dei dubbi (…) in questo modo la direzione del partito non nutre alcun rischio dotandosi di una garanzia totale.
Ti prego di non pensare che, applicando a me stesso tali ragionamenti, intenda muoverti dei rimproveri. Sono maturato, capisco che i
grandi piani, le grandi idee, i grandi interessi sono più importanti di qualsiasi altra cosa e che sarebbe meschino mettere la questione della mia miserabile persona sullo stesso piano di questi interessi di importanza mondiale e storica, che gravano innanzitutto sulle tue spalle.”

La mia vita non vale nulla se confrontata ai grandi interessi, alle grandi idee di cui il partito è portatore, afferma Bucharin. Il partito fa bene ad organizzare le grandi purghe, ad eliminare anche chi solo potenzialmente potrebbe nutrire dubbi sulla sua linea. Fa bene a farlo perché è il levatore della storia e nulla e nessuno devono, in alcun modo, ostacolare la sua azione redentrice. Non appare strano
che, partendo da questi presupposti, Bucharin, che pure ha “confessato” a Stalin la sua innocenza, si dichiari in qualche modo colpevole. Non colpevole di sabotaggio o di terrorismo, non colpevole di essersi alleato con Hitler e con “l'imperialismo” per distruggere il “paese del socialismo”. No, Bucharin si dichiara colpevole di qualcosa d'altro, se possibile ancora più grave:

“Ritengo di dover espiare per gli anni in cui ho combattuto la linea del partito (…) è questo l'episodio che più mi tormenta, il peccato originale, il peccato di Giuda. (…) e ora espio per tutto questo, pagando con il mio onore e la mia vita. Perdonami per questo Koba (Koba era un precedente nome di battaglia usato da Stalin n.d.B.). Non posso morire senza averti chiesto ancora una volta perdono. Ecco perché non sono in collera con nessuno, né con la direzione del partito né con chi ha condotto l'istruttoria, e ti chiedo ancora una volta perdono”.

Bucharin era stato arrestato, accusato di crimini mai commessi, torturato crudelmente, obbligato a firmare una confessione di piena colpevolezza, eppure chiede perdono ai suoi carnefici. Perdono di cosa? Di non aver condiviso, per un certo periodo, la linea del partito, per aver portato ad essa delle critiche. Quello che in ogni altro partito era, ed è, una prassi del tutto normale diventava “peccato originale”, “peccato di Giuda”, nel partito bolscevico, un crimine per cui
è giusto pagare con la perdita dell'onore e con la morte. La cosa incredibile, incredibile per chi non conosce il comunismo, è che, anche nel momento supremo, Bucharin è d'accordo con un tale sistema, esalta la macchina che sta per ucciderlo, si dice addirittura disposto a collaborare ancora con essa. Se Stalin fosse tanto generoso da salvargli la vita Bucharin vorrebbe essere esiliato in America dove potrebbe condurre una lotta a morte contro il trotskismo e contro tutti coloro che in qualsiasi modo, si oppongono al “padre dei popoli”.

“Condurrò una campagna sui processi (…) porterò dalla nostra parte larghi strati dell'intellighenzia, sarò in pratica un anti Trotsky. (…) Potresti mandare con me un cekista esperto e, come garanzia supplementare, tenere mia moglie in ostaggio in URSS. (…) Se invece nutri anche un minimo dubbio a riguardo, (esiste) questa possibile alternativa: essere esiliato per 25 anni a
Pecora o a Kolyma, in un campo di lavoro. Vi organizzerei una università, un museo, una stazione tecnica, degli istituti, una galleria d'arte, un museo etnografico, un museo zoologico, un giornale da campo. Farei insomma un lavoro da pioniere”.

Pecora e Kolyma erano due orribili lager, luoghi in cui i condannati ai lavori forzati morivano, letteralmente, come le mosche. Eppure Bucharin dà mostra di credere che si tratti di qualcosa di simile ad un college inglese, luoghi in cui si discetta amabilmente di zoologia e di etnografia. Non c'è da stupirsi troppo, in fondo. Lui, si proprio lui che aveva subito in maniera brutale le dolcezze della istruttoria staliniana, era pronto a dichiarare di fronte al mondo che i processi erano assolutamente regolari e rispettosi dei diritti degli imputati, e non trovava nulla di strano nel fatto che la moglie avrebbe dovuto fungere da ostaggio nelle mani del suo fraterno amico Koba.
Le “proposte” che Bucharin fa a Stalin potrebbero far pensare che egli nutrisse qualche speranza, si facesse illusioni sulla sua sorte. Così probabilmente non è, ne è prova il drammatico finale della sua lettera, una sinistra mistura di consapevolezza della fine ormai prossima e di reiterate dichiarazioni d'amore per i suoi assassini.

“Josif Vessarionovic! Con me tu hai perduto uno dei tuoi generali più capaci e devoti. Mi preparo interiormente a lasciare questa vita e sento per voi tutti, per il partito, per la nostra
causa solo un sentimento d'amore immenso, senza limiti. La mia coscienza è pura davanti a te, Koba. (…) Ti stringo fra le braccia con il pensiero. Addio per l'eternità e non provare rancore per lo sventurato che sono”.

Nikolay Bucharin fu fucilato il 1
5 marzo 1938. Sarebbe ingiusto nei suoi confronti considerare insincera la sua lettera, leggerla come un supremo tentativo di impietosire il suo nemico, di aver salva la vita. Forse il “figlio prediletto del partito” aveva qualche speranza, forse, ma ridurre il suo testamento ad un meschino espediente per salvarsi vuol dire non aver capito nulla del comunismo e dei comunisti. In realtà in questa sua drammatica lettera Bucharin è, nell'essenziale, sincero. Sincero di quella sincerità che è, insieme, insincerità.
Bucharin era stato uno dei massimi dirigenti del partito bolscevico, e come tale responsabile della edificazione nel suo paese di un mostruoso apparato totalitario. Era anche stato alleato di Stalin nella lotta contro l'opposizione trotskista, era un uomo che conosceva l'apparato e sapeva bene come funzionava. Aveva infine sperimentato sulla sua pelle i metodi dell'apparato, non ignorava nulla. Eppure è sincero quando dichiara di amare il partito, la causa, lo stesso Stalin. La lettera di Bucharin è un esempio da manuale dell'orwelliano bispensiero. Bucharin sa di essere innocente ma è convinto anche di essere colpevole, crede che i campi di lavoro favoriscano la rigenerazione degli esseri umani anche se sa che sono luoghi di morte, sa che Stalin è un sanguinario (lo aveva definito “un barbaro” in una conversazione privata) ma sente di amarlo, sa benissimo che i lavoratori non hanno nella Russia sovietica alcun diritto ma crede che la Russia sovietica sia il paese dei lavoratori, sa che i partiti “borghesi” dell'occidente hanno ragione quando denunciano come una farsa i processi di Mosca ma è pronto rintuzzare “col massimo entusiasmo” le loro “menzogne”, ama la moglie ma è pronta ad offrirla come ostaggio a garanzia della sua virtù rivoluzionaria.
Danton fu ghigliottinato dopo un processo farsa, ma gli fu concessa la possibilità di affermare con forza la sua fede rivoluzionaria, di sbattere in faccia ai suoi accusatori tutto il suo disprezzo. “Tu mi seguirai, Robespierre”, disse mentre si avviava al patibolo. Il privilegio del martirio fu invece negato a Bucharin e agli altri protagonisti dei processi di Mosca. Comunista da sempre, Bucharin morì urlando al mondo di essere un miserabile nemico del comunismo, perse la dignità prima di perdere la vita. Eppure amava la causa, il partito, i suoi carnefici, amava Stalin. Come è possibile un tale pervertimento della logica, una simile corruzione morale, una distruzione tanto radicale di sentimenti umani fondamentali? Cosa rende possibile una simile mostruosità? La risposta è molto semplice: la
ideologia.

Sono in molti coloro che ritengono “bella” l'idea comunista, che assimilano il comunismo ad un romantico “amore per la povera gente” o al nobile desiderio di vedere sanate le troppe ingiustizie che ancora esistono nel mondo. Il comunismo realizzato è stato orribile, ma l'idea comunista era e resta bella, forse un po' irrealistica ma degna di rispetto, così argomentano in tanti. A tutti coloro che la pensano in questo modo, ed hanno un minimo di onestà intellettuale, la lettera di Bucharin pone un problema teorico enorme. Come è possibile che una idea “bella”, una dottrina “generosa” suscitino comportamenti simili? Come può essere “umana”, “nobile”, “generosa” una idea che spinge un essere umano a proporre al suo carnefice di prendere in ostaggio sua moglie? O che lo induce a mentire deliberatamente, ad accusare ingiustamente gli altri e se stesso? Che umanità può mai trovarsi in una dottrina che spinge le vittime ad amare i loro boia? Ad amarli, attenzione, non di amore cristiano, non perché dietro al boia c'è comunque l'uomo, no, spinge le vittime ad amare i boia in quanto boia, ad esaltare la loro funzione di carnefici. Dove si può trovare un grammo di “umanità” in simili perversioni?
In realtà il comunismo
non mira ad aiutare la “povera gente”, né a sanare le numerose ingiustizie che affliggono il mondo, mira a qualcosa d'altro, e di ben diverso. Mira a modificare radicalmente la natura umana, a rivoltare come un guanto la società. Il comunismo non è mosso dall'amore per gli esseri umani che vivono qui ed ora nel mondo, vuole imporre a questi esseri umani una torsione violenta della loro natura, li vuole ricostruire dalle radici e con loro vuol ricostruire dalle radici la società. E se la società nella sua spontaneità non accetta di farsi rivoltare come un guanto? Se gli esseri umani non vogliono che la loro natura venga “rigenerata”? Tanto peggio per loro. Il rovesciamento totale dell'uomo e della società, la ricostruzione da zero del mondo sono fini assoluti nel cui nome tutto è possibile; e se per ottenerli occorre fare il male, questo automaticamente si trasforma in bene, se occorre perdere la dignità questo diventa il massimo esempio di dignità, se occorre perder la vita lo si fa amando il proprio carnefice. I comunisti non compiono nefandezze al fine di edificare il bene, dichiarano buona ogni nefandezza se è compiuta al fine di realizzare il fine sovrumano che si sono posti. Il male compiuto da un buon comunista è per definizione un bene.
Un comportamento come quello di Bucharin resta incomprensibile se lo si fa dipendere “dall'amore per la povera gente”. La “povera gente” che circondava Bucharin erano i contadini russi che Stalin stava massacrando, o le centinaia di migliaia di reclusi nei gulag. Per costoro Bucharin non prova alcun sentimento di amore, l'ingiustizia che devono subire non suscita le sue lacrime. Il comportamento di Bucharin diventa invece comprensibilissimo se lo si mette in relazione col fine assoluto in cui lui, e con lui gli altri comunisti, crede ciecamente e fanaticamente: la trasformazione totale del mondo, la assoluta rigenerazione dell'uomo, il mutamento radicale della sua natura.
Il fine comunista è sovrumano, per questo i comunisti non dimostrano alcun amore, nessuna simpatia per gli esseri umani in carne ed ossa che popolano il mondo, per questo sono disposti anche alla abiezione contro se stessi pur di avvicinarsi a quel fine, e di salvaguardare il partito che lo incarna e lo persegue.
Obiettivo della furia omicida di Stalin, Bucharin è, insieme, vittima e carnefice, carnefice di se stesso,
monumento dei livelli di mostruosità che il fanatismo ideologico può raggiungere. La sua figura tragica dovrebbe far pensare, anche oggi, i molti, troppi, che si baloccano con gli assoluti terreni.

1 commento:

  1. Si rimane senza parole, con una rabbia che monta, che monta. Mai più questi fatti, mai più.

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