sabato 25 maggio 2013

LA DIALETTICA IN MARX




La dialettica in Hegel oscilla continuamente fra quelli che potremmo definire il momento logico ed il momento del divenire temporale. Da un lato ogni concetto si definisce tramite l’altro e nella sua relazione con l’altro, si rispecchia nell’altro e trapassa nell’altro. Questo definirsi, rispecchiarsi e trapassare sono però relazioni logiche fra concetti, non momenti di un divenire temporale. D’altro canto l’idea nella forma dell’altro da se è natura e come natura è sottoposta al divenire. Ed opera egualmente nella temporalità lo spirito che esplicita ed espone se stesso nella storia. Momento logico e momento temporale convivono in Hegel e non a caso. L’assoluto hegeliano deve contenere tutto, compresa l’estrinsecità spazio temporale della natura, compreso il divenire storico, anzi, è precisamente nel divenire storico che si realizza la riconciliazione dell’idea con se stessa. Che una simile convivenza di momento storico-temporale e di momento logico sia foriera di contraddizioni inestricabili è sin troppo ovvio. L’assoluto è sempre assoluto nella forma dell’altro da se? Come può l’auto esposizione puramente logica dell’assoluto convivere e compenetrasi con la sua auto esposizione storico temporale? Di nuovo la chiave di tutto è il “superamento” hegeliano del principio di non contraddizione.

Nella sinistra hegeliana ed in particolare in Marx il momento del divenire storico temporale prende tuttavia nettamente il sopravvento sul momento logico. In Hegel la storia è un momento, sia pure di enorme importanza, dell’auto esposizione dell’assoluto, in Marx diventa il terreno assolutamente privilegiato, se non unico, di applicazione del “metodo” dialettico. Ma la differenza forse più importante fra Marx ed Hegel è un’altra. In Hegel la filosofia è una ricapitolazione razionale del reale, ne evidenzia la necessità. Riferita alla storia la filosofia mostra la razionalità e la necessità di ciò che è accaduto. Come la nottola di minerva la speculazione filosofica prende il volo quando si fa sera, svolge la sua funzione chiarificatrice al termine di un periodo storico, illumina razionalmente il passato. La posizione di Marx da questo punto di vista è diametralmente opposta. Ben lungi dal limitarsi ad illuminare il passato la filosofia (che diventa in Marx teoria rivoluzionaria) deve indicare la via del futuro. Il marxismo non è ricapitolazione razionale di ciò che è avvenuto ma tensione al futuro, volontà di rivoluzionare il mondo. Questa tensione tuttavia non si riduce a puro volontarismo. La tensione al rivoluzionamento della realtà parte da e si giustifica con una visione complessiva del corso storico. In Marx la dialettica diventa interpretazione della storia e previsione “scientifica” del suo andamento futuro. La coincidenza hegeliana di razionale e reale viene a coincidere in Marx con la razionalizzazione del corso storico. La storia passata è stata così perché doveva essere così, il futuro sarà così perché così deve essere.

Marx offre un riassunto molto chiaro ed incisivo della sua concezione della storia nella celebre prefazione del ‘57 a “Per la critica dell’economia politica”. Cediamogli la parola.
“Nella produzione sociale della loro esistenza gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono ad un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate di coscienza sociale. (…) Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere ma e, al contrario il loro essere sociale che determina la loro coscienza. Ad un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (..) dentro i quali tali forze per l’innanzi si erano mosse. (…) E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura.” (1)
E, più avanti: “A grandi linee i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società. I rapporti di produzione borghesi sono l’ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale (…) ma le forze produttive che si sviluppano in seno alla società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si conclude dunque la preistoria della società umana” (2)
Il discorso come si vede è molto chiaro. La successione delle diverse epoche storiche, segnate dai diversi modi di produzione, prepara e rende possibile la conclusione comunista del divenire storico, la definitiva uscita dalla “preistoria” del genere umano. E’ interessante notare che in tale schema esiste una (notevole) sbavatura: il modo di produzione asiatico, contrariamente a quanto si evince dal testo marxiano, non precede affatto gli altri modi di produzione ma si sviluppa parallelamente ad essi. Non a caso il concetto stesso di modo di produzione asiatico è stato oggetto di una polemica durissima nel marxismo che si è conclusa con la cancellazione staliniana di questo concetto dal vocabolario marxista e con l’assimilazione del modo di produzione asiatico a quello feudale. Questo però è secondario nell'economia del presente scritto. Ciò che vale la pena di sottolineare è la razionalizzazione hegeliana che Marx compie della storia. La storia ha un inizio, uno svolgimento razionale ed una fine. L’avventura terrena dell’uomo, cosparsa di tanti lutti, lacrime e sangue si concluderà con la salvezza. L’uscita dalla preistoria aprirà le porte del paradiso.

Se si tiene conto del contributo dato al marxismo dall’opera di Engels la natura dialettica della concezione marxiana della storia diventa ancora più evidente. Engels parla infatti di una società comunista primitiva che avrebbe preceduto il sorgere della società di classe. Il dissolvimento della società comunista primitiva porta alla nascita dello sfruttamento, dell’oppressione della donna e dello stato, garante armato degli interessi della classe dominante. La originaria armonia ed unità fra gli esseri umani si spezza per dar luogo a società antagoniste. Il capitalismo rappresenta il culmine di questo antagonismo. Il capitalismo infatti non è caratterizzato solo dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Nel capitalismo questo sfruttamento si realizza in una società atomizzata e divisa. Le precedenti società di classe conservano, pur nel loro antagonismo, una natura in qualche modo organica, il tutto precede in esse le parti, anche se si tratta di un tutto iniquo ed oppressivo (ma, ha senso parlare di iniquità riferendosi ad una totalità organica? Il cervello è forse un “oppressore” degli arti a cui comanda?). Nel capitalismo questo legame organico fra gli esseri umani si spezza. Ogni uomo diventa un atomo, un mondo a sé i cui unici rapporti con gli altri esseri umani sono costituiti dalla egoistica ricerca del tornaconto individuale. E’ su questa base che nasce e si sviluppa lo sfruttamento capitalistico. A differenza dello sfruttamento schiavistico lo sfruttamento dell’operaio salariato si basa sullo scambio di equivalenti, sul rapporto formalmente libero fra soggetti formalmente uguali fra loro. Nel capitalismo si ha quindi contemporaneamente la frantumazione atomistica del vincolo sociale, lo sfruttamento dei proletari da parte dei borghesi e, in prospettiva, la crisi economica causata dal contrasto insanabile fra sviluppo delle forze produttive sociali e rapporti di produzione borghesi.
E’ lo stesso capitalismo, afferma Marx, ad avere sviluppato e a sviluppare sempre più la concentrazione del capitale. Lo sviluppo della produzione capitalistica ha distrutto o è destinato a distruggere l’artigianato, la piccola impresa, il lavoro autonomo. Tutto questo però non può proseguire oltre certi limiti nell’ambito del modo di produzione capitalistico. Il capitalismo socializza la produzione ma può farlo solo fino ad un certo punto e comunque in maniera profondamente antagonistica. “Il modo di appropriazione capitalistico che si genera dal modo di produzione capitalistico, e perciò la proprietà privata capitalistica” afferma Marx “sono la prima negazione della proprietà privata individuale, basata sul lavoro personale. Ma la produzione capitalistica partorisce dal suo seno, con la necessità di un processo della natura, la sua negazione. E’ la negazione della negazione. Essa ristabilisce non la proprietà privata, ma al contrario la proprietà individuale basata sulla conquista dell’età del capitale, sulla cooperazione e sul possesso collettivo del suolo e dei mezzi di produzione prodotti dal lavoro stessi” (3).
All’alba della storia esiste una società armonica ma povera. Ad essa seguono varie forme di società antagonistiche che hanno il loro culmine nella società capitalistica; in essa trionfano l’atomismo individualistico e lo sfruttamento. La stessa società capitalistica sviluppa però, a modo suo, la socializzazione della produzione e la sviluppa sino ad un punto tale che essa diviene incompatibile con i rapporti di produzione capitalistici. La soluzione di questa “contraddizione” è il comunismo che ristabilisce la originaria unità ma in forma diversa; si tratta di una unità che si basa non sulla miseria e su un rapporto semi animale dell’uomo con la natura ma sulle conquiste, grandi conquiste, che il modo di produzione capitalistico lascerà in dote al genere umano, soprattutto su uno straordinario sviluppo delle forze produttive sociali. Dalla unità si torna all’unità su una base nuova e più ampia. Bastano queste poche considerazioni per rendersi conto di quanto Marx sia debitore nei confronti di Hegel.

Si sente dire, meglio, si diceva, a volte, che il marxismo è una scienza. Non è il caso di ricordare qui i molti marxisti, o presunti tali, che non sono stati o non sono d’accordo con una simile definizione (basti pensare agli esponenti della scuola di Francoforte). E’ certo tuttavia che Marx, e, ancora più di lui Engels, erano sicuri di aver edificato il loro edificio teorico-pratico sulle solide basi del sapere scientifico. E’ grazie al marxismo che il comunismo cessa di essere un utopico ideale cui da sempre aspirano gli esseri umani per diventare una necessità storica. Non a caso Engels scrisse un opuscolo intitolato appunto: “L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza”.
Ma è fondata tale pretesa del marxismo? La scienza, quella vera, si basa su almeno due principi fondamentali. Innanzitutto la scienza non fa profezie ma previsioni, previsioni che l’esperienza può sempre smentire. Una scienza che pretendesse di prevedere con certezza quale sarà il corso storico nei prossimi cento anni non meriterebbe il nome di scienza. Tutte le teorie scientifiche sono vere fino a prova contraria. Nelle scienze sociali poi i vincoli al potere di previsione sono ancora maggiori e questo per il semplice fatto che tali scienze devono tenere conto di quel fattore spesso imponderabile che sono le scelte degli esseri umani. La scienza economica ad esempio non dice: il futuro sarà così e così, dice: il futuro sarà così se si fa X, sarà invece diverso se si fa Y. Se le banche centrali aumentano i tassi si avranno più difficoltà per lo sviluppo di produzione ed occupazione, se li abbassano troppo potrebbero manifestarsi tensioni inflattive. Marx invece si è avventurato in previsioni che andavano ben oltre i poteri di una scienza sociale rigorosa ed il marxismo a lui successivo ha fatto anche di peggio: ha continuato a ritenere valido l’essenziale della dottrina di Marx anche dopo che essa aveva ricevuto smentite sempre più eclatanti dal reale andamento degli eventi storico sociali. Marx parlava di contrasto fra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione borghesi. Ne parlava nel 1857, quando non c’erano aerei e viaggi nello spazio, PC e internet, biotecnologie e trapianti di organi. Oggi qualche marxista parla negli stessi termini. Non che le conquiste scientifiche contemporanee siano prive di rischi, figuriamoci, una cosa però è discutere di questi rischi e valutarli oggettivamente, altra è cianciare di stallo nello sviluppo delle forze produttive. Tale stallo in realtà si è verificato non nei paesi capitalisticamente sviluppati me negli sventurati paesi che hanno fatto l’esperienza del comunismo reale.
In secondo luogo la scienza distingue fra fatti e valori. Se il tale fenomeno ha le tali caratteristiche esse non potranno mai essere negate solo perché non ci piacciono. Se nella natura umana esistono istinti aggressivi non si potrà dire che questo non è vero perché la cosa disturba le nostre concezioni metafisiche. Se i rapporti fra animali, e in una certa misura anche fra gli uomini, si basano sulla lotta per l’esistenza non si potrà negare questo fatto in base alla considerazione che questa sarebbe una concezione “razzista”. Certo, uno scienziato ha dei valori, e compie scelte di valore, ma non piega a queste i risultati delle sue analisi scientifiche. Lo scienziato cercherà di mettere in atto i suoi valori tenendo conto dei risultati della ricerca scientifica ma non sacrificherà a quelli il rigore di questa..
Il marxismo, con tutta evidenza non rispetta questa impostazione. Il comunismo è per Marx un valore e nel contempo il risultato inevitabile del corso storico, è un valore che emerge dal divenire dei fatti. E’ qualcosa che va perseguito in quanto tale, un “dover essere” da realizzare e nel contempo un “essere” la cui necessità va analizzata come si potrebbe analizzare un’eclissi di sole. Marx era già comunista prima di “scoprire” l’inevitabilità storica del comunismo, il Marx politico lotta per realizzare ciò che il Marx scienziato scopre essere inevitabile. Non si tratta di un problema da poco.

Ma esiste un altro aspetto della dialettica marxiana che rende molto difficile l’assimilazione di questa alla scienza. Per Marx la rottura della comunità organica e la nascita di formazioni sociali antagoniste segna anche la frattura dell’uomo con se stesso, la separazione fra l’essenza e l’esistenza umane. Nella società di classe ed in maniera particolare nella società capitalistica l’uomo esce da se stesso, si aliena. L’uomo che vive nella società di classe non è in senso autentico un uomo. E’ un uomo che ha perso le sue caratteristiche umane essenziali. Non si tratta, si badi bene, di un uomo oppresso, sfruttato. Un uomo sfruttato, oppresso, ridotto in schiavitù continua ad essere un uomo, anzi, si può ridurlo in schiavitù precisamente perché è, o è in grado di essere, un uomo libero. L’uomo alienato è altra cosa: si tratta di un essere scisso in se stesso, un ente che è altro da se, un non-uomo. Solo nel comunismo sarà possibile la ricomposizione armonica della natura umana, l’uomo si lascerà alle spalle il suo penoso stato di alienazione e tornerà ad essere davvero umano. Nei “Manoscritti economico filosofici” il giovane Marx scrive: “Il comunismo sa già di essere la reintegrazione o il ritorno dell’uomo a se stesso, la soppressione dell’autoestraneazione dell’uomo”(4) e più avanti chiarisce ancor meglio lo stesso concetto: “Il comunismo come soppressione positiva della proprietà privata intesa come autoestraneazione dell’uomo e quindi come reale appropriazione dell’essenza dell’uomo mediante l’uomo e per l’uomo; perciò come ritorno dell’uomo per se, dell’uomo come essere sociale, cioè umano, ritorno completo, fatto cosciente, maturato entro tutta la ricchezza dello svolgimento storico sino ad oggi” (5).
Molti critici hanno sostenuto che le tesi esposte nei “manoscritti” del ’44 rappresentano solo una fase nella evoluzione del pensiero di Marx, una sorta di civetteria hegeliana che il Marx maturo avrebbe abbandonato. Ora, è certo che il Marx maturo, il Marx del “Capitale” per intenderci, dà, o cerca di dare, alla sua opera un carattere più marcatamente scientifico. Il Marx maturo si appassiona allo studio dell’economia politica, dedica più tempo a Smith e a Ricardo che non ad Hegel. Tuttavia la dialettica e la tematica della alienazione sono presenti anche nell’opera matura di Marx, nello stesso “Capitale”.
A questo proposito è di fondamentale importanza la lettura del celebre paragrafo del primo libro del “Capitale” intitolata: “il carattere di feticcio della merce e il suo segreto”. La produzione, sostiene Marx, è un fatto essenzialmente sociale. Gli esseri umani producono cooperando, dividendo fra loro compiti e funzioni, distribuendo ciò che hanno prodotto. In una società non conflittuale o anche in una società conflittuale di tipo non capitalistico questo carattere sociale della produzione appare immediatamente evidente. In una associazione di uomini liberi afferma Marx, “che lavorino con mezzi di produzione comuni e che impieghino con coscienza le loro molte forze lavorative individuali come un’unica forza lavorativa sociale (..) il prodotto complessivo è un prodotto sociale. Una parte a sua volta occorre come mezzo di produzione e rimane sociale, un’altra parte è consumata come mezzo di sussistenza dai componenti dell’associazione, perciò deve essere distribuita fra essi (..) I rapporti sociali degli uomini con i loro lavori e con i prodotti del loro lavoro restano qui semplici e chiari” (6).
Nella società capitalistica le cose sono radicalmente diverse. Qui ogni produttore opera per proprio conto, produce beni che scambiandosi sul mercato diventano merci che solo sul mercato troveranno (o potranno trovare) un acquirente. Il valore di scambio qui è nettamente scisso dal valore d’uso, la produzione assume carattere sociale non immediatamente ma tramite la mediazione del mercato. Sono le leggi astratte del mercato a determinare come verrà distribuita la produzione sociale, cosa, quanto e come si deve produrre. Ciò che in altre società è il risultato di scelte coscienti diventa qui la conseguenza dell’operare cieco di forze impersonali. Il prodotto del lavoro si distacca e si contrappone qui all’uomo, acquista una sua autonomia ed opera per proprio conto. Ma siccome l’uomo realizza nel lavoro la sua essenza umana questa estraniazione del prodotto del lavoro dall’uomo è estraniazione dall’uomo dell’essenza umana. La merce da prodotto del lavoro sociale umana diventa una cosa animata, un ente indipendente. Un feticcio.
“Il segreto della forma di una merce sta dunque solo nel fatto che tale forma ridà agli uomini come uno specchio l’immagine delle caratteristiche sociali del loro proprio lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose e perciò ridà anche l’immagine del rapporto sociale fra i produttori e il lavoro complessivo, facendolo sembrare come un rapporto sociale fra oggetti che esista al di fuori di loro. I prodotti del lavoro, tramite questo quid pro quo divengono merci, cose sensibilmente soprasensibili, ossia cose sociali” (7)
Il prodotto del lavoro diventando merce, diventa una cosa sociale, autonoma e contrapposta all’uomo, una cosa che vive di vita propria “Quello che qui prende per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è solamente il determinato rapporto sociale che esiste fra gli stessi uomini (..) Questo è quel che io chiamo feticismo, che si attacca ai prodotti del lavoro quando vengono prodotti come merci e che perciò è indisgiungibile dalla produzione di merci” (8). Non si tratta, si badi bene, di una semplice illusione. Nella società capitalistica questa autonomizzazione del prodotto del lavoro dal lavoratore è un fatto reale, la società borghese è realmente il regno della alienazione, dei rapporti umani fra cose e dei rapporti cosali fra gli uomini: “I rapporti privati si manifestano in effetti come articolazioni del lavoro complessivo sociale tramite i rapporti in cui lo scambio pone i prodotti del lavoro e, per mezzo di questi, i produttori. A questi ultimi perciò le relazioni dei loro lavori privati si manifestano come quel che sono, ossia non come rapporti direttamente sociali tra persone nei loro stessi lavori ma anzi come rapporti di cose tra persone e rapporti sociali fra cose” (9).
Le conclusioni come si vede sono simili a quelle dei manoscritti del ’44. La società borghese è il regno della alienazione, della riduzione a cosa dell’uomo e dell’innalzamento a rapporto sociale dei rapporti fra cose.

E' abbastanza chiaro come le concezioni appena esposte non abbiano nulla a che vedere con la scienza. Per la scienza non esistono realtà rovesciate o enti negativi. La medicina e la psicologia studiano, ad esempio, l'ente “uomo” quale positivo oggetto di analisi. Nulla è tanto estraneo ai loro procedimenti quanto l'affermazione che tale ente avrebbe “fuori di se” la propria “essenza”. E la scienza economica, per fare un altro esempio, studia come si formano i prezzi di quelle strane cose che sono le merci, ma a nessun economista verrebbe in mente di considerare "rapporti umani fra cose" il variare delle ragioni di scambio fra  automobili, tavoli e sedie.
Marx, da buon hegeliano, dimostra anche nella sua opera scientificamente più significativa di essere letteralmente ossessionato dal desiderio di riportare tutto ad unità. Certo, in una società di mercato la produzione non è immediatamente finalizzata al consumo, si produce per vendere e molto spesso (anzi, quasi sempre) non si sa a chi si venderanno i prodotti del proprio lavoro. Questo vuol dire che le merci diventano “persone” o che vivono di vita propria? No, ovviamente. Significa solo che in una società di mercato il passaggio dalla produzione al consumo è molto più mediato e complicato che non in società arcaiche in cui il carattere della produzione è immediatamente sociale, società per le quali tra l’altro Marx non ha troppe simpatie. Nelle società di mercato si producono valori di scambio ma il valore di scambio può davvero realizzarsi solo se diventa valore d’uso. E’ tramite lo scambio che le merci come valori d’uso possono raggiungere una massa enorme di consumatori e contribuire all’innalzamento del tenore di vita complessivo. Le società di mercato sono società aperte, basate sulla autonomia dei singoli. Certe società possono non piacere ma si tratta di società in cui l’uomo realizza alcune sue fondamentali aspirazioni. Farle passare per società in cui il rapporto fra le cose sostituisce il rapporto fra gli uomini è solo un gioco di prestigio dialettico.

Considerazioni simili possono farsi sulla avversione di Marx verso le leggi impersonali che regolano i rapporti sociali in una società di mercato. Queste leggi impersonali sono la conseguenza diretta del fatto che le fondamentali scelte inerenti la produzione ed il consumo in una società di mercato sono lasciate alla discrezione dei singoli. Sono io che scelgo cosa comprare, che lavoro fare, quanto consumare e quanto risparmiare, quanto ed in cosa investire. Se tutti i consumatori comprano il bene X il suo prezzo aumenterà, se tutti vogliono fare un certo lavoro e non un altro si avrà eccedenza di forza lavoro in un ramo dell’economia e deficienza in una altro, con conseguenze sul livello dei salari. Marx detesta questo stato di cose, per lui deve essere la comunità a decidere cosa si deve consumare e cosa si deve produrre, se questo non avviene si diventa schiavi delle cose e delle loro relazioni impersonali. Ma in una società in cui le scelte produttive siano sottratte ai singoli ed affidate ad una autorità pianificatoria, eventualmente anche democratica, il livello delle libertà individuali è destinato a contrarsi spaventosamente e questo porta prima o poi alla distruzione della stessa democrazia politica. Se io desidero sciare e la maggioranza dei “lavoratori associati” decide che sciare è una attività da “piccolo borghesi” e che quindi non si devono produrre sci potrò mai soddisfare il mio desiderio? E se desidero fare il poeta e la maggioranza dei “lavoratori associati” stabilisce che alla società servono ingegneri cosa farò? L’uomo può soddisfare la grande maggioranza dei propri desideri e delle proprie aspirazioni solo tramite il possesso di certi beni materiali. Chi ha il potere di decidere cosa e quanto produrre ha il potere di decidere quali devono essere i bisogni e le aspirazioni che gli esseri umani possono soddisfare e quali no. Non è affatto un caso che le teorizzazioni marxiane sulla società armonica ed integrata si siano tradotte nella pratica in forme spaventose di totalitarismo. Le leggi impersonali del mercato pongono vincoli e condizioni all’operare degli esseri umani e richiedono che la politica intervenga per porre freno a situazioni critiche che spesso possono sorgere in conseguenza del loro funzionamento spontaneo. Esse però sono compatibili con la libertà dei singoli e la democrazia politica e si sono rivelate storicamente un poderoso strumento atto ad incrementare lo sviluppo delle forze produttive ed il benessere sociale, cosa che Marx stesso riconosce. Le leggi “personali” invece, cioè la pretesa di stabilire d’imperio natura, fini ed obiettivi della produzione e del consumo sono, sia in linea teorica che pratica, in contrasto con la libertà dei singoli, la democrazia politica e lo sviluppo economico. La storia è stata su questo estremamente chiara.

In Marx convivono tre esigenze che solo faticosamente possono evitare di entrare in contraddizione. In primo luogo Marx è un politico comunista, fermamente convinto che il comunismo rappresenti la più alta forma di sviluppo dell’uomo e della sua libertà. In secondo luogo Marx è un filosofo fortemente influenzato dall’opera di Hegel. Come filosofo hegeliano Marx fa propria la concezione della storia tesa alla realizzazione di un fine ad essa immanente, fine che coincide col comunismo. Per Marx però l’essere sociale determina la coscienza degli uomini, e gli uomini vivono oggi nella società borghese. La coscienza degli esseri umani non può andare oltre l’orizzonte borghese. Gli operai in carne ed ossa non sognano il comunismo, vogliono solo vendere a caro prezzo la loro forza lavoro. Contrariamente ai suoi tardi epigoni Marx non disprezza l’uomo di oggi, l’uomo alienato, non comunista; sa che la rivoluzione può scoppiare solo se i bisogni di questo ente, di questo uomo alienato e deforme, non potranno essere soddisfatti nella società borghese. Il comunismo è la fine del lavoro salariato, non si identifica certo con più salario e meno orario, ma la rivoluzione può scoppiare solo se la società borghese si rivela incapace di garantire ai lavoratori più salario e meno orario. Per questo Marx è, o cerca di essere, anche scienziato. Studia con passione l’economia politica, esamina le possibili cause di crisi del sistema, profetizza lo scontro fra sviluppo delle forze produttive sociali e rapporti di produzione capitalistici. Il Marx scienziato esamina uno specifico modo di produzione, cerca di scoprire le leggi del suo sviluppo e del suo declino, lo fa perché è convinto che solo questo declino può innescare l’esplosione rivoluzionaria. Purtroppo però il Marx politico ed il Marx filosofo hanno assai spesso la meglio sul Marx scienziato. La visione globale del corso storico e del suo fine comunista prevale su e condiziona la analisi scientifica del modo di produzione capitalistico, né potrebbe essere diversamente visto che in Marx l’analisi scientifica ha precisamente questo compito: scoprire ed analizzare le condizioni del crollo del capitalismo e quindi della affermazione del comunismo

Marx è stato un grande pensatore. Con lui il momento economico e produttivo della natura e della attività umane acquistano quella dignità che la gran parte della tradizione filosofica gli aveva negato. L’uomo di Marx non è puro pensiero, non disprezza i beni materiali, vive nella, ed è influenzato dalla, società, e la società è anche scambio, divisione del lavoro, produzione e consumo di beni economici. Partendo da queste posizioni del tutto condivisibili Marx, condizionato fortemente dalla sua impostazione hegeliana, tende però ad unificare tutto. L’indubbia importanza del momento economico-produttivo nella vita dell’uomo lo spinge a sottovalutare il pensiero e la sua autonomia rispetto all’essere sociale. L’attesa escatologica del comunismo viene incorporata nella storia come realizzazione di un fine immanente ad essa, l’analisi scientifica del modo di produzione capitalistico diventa il mezzo per risolvere il problema della possibilità di fuoriuscita dallo stesso. Partito come sistema critico il marxismo si trasforma così in un sistema totalizzante ed onnicomprensivo, una sorta di religione mondana. Una religione con i suoi santi ed i suoi eretici, i suoi eroismi ed i suoi crimini, i suoi tribunali dell’inquisizione ed i suoi roghi; una religione con le sue guerre di religione e le sue vittime. Innumerevoli vittime che nessuna delle religioni intolleranti del passato ha mai prodotto. Marx merita ancora di venire letto e studiato, ma anche severamente criticato. Non certo di venire santificato.





Note

1) Karl Marx prefazione a “Per la critica dell’economia politica”. Editori Riuniti 1969. pag. 5

2) Ibidem pag. 6

3) K: Marx: Il Capitale. Libro primo, parte seconda. Avanzino e Torraca. 1965. pag. 546

4) Karl Marx: Manoscritti economico filosofici. Einaudi 1968 pag. 110-111

5) Ibidem pag. 111

6) Karl Marx: Il Capitale. Avanzino e Torraca 1965, pag 77 sottolineature di Marx

7) K Marx. op. citata pag. 69

8) Ibidem pag. 69

9) Ibidem pag. 70. Sottolineature mie

























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