martedì 28 maggio 2013

LA TEORIA MARXIANA DEL VALORE E DELLO SFRUTTAMENTO



Sfruttamento e teoria del valore

Lo sfruttamento è sempre esistito nella storia umana, ed esiste anche oggi. Gli schiavi dell'antichità erano senza dubbio sfruttati come lo erano i servi della gleba nel medio-evo. Erano sfruttati i neri che lavoravano come schiavi nelle piantagioni della Virginia e della Florida, erano sfruttati, ed in maniera durissima, gli innumerevoli ospiti dei gulag, usati nella Russia staliniana come mano d'opera d'infimo costo. Sono sfruttate oggi milioni di persone che subiscono forme più o meno mascherate di lavoro forzato.
Lo sfruttamento si basa in tutti questi casi sulla violenza. Lo schiavo, il servo della gleba, il condannato ai lavori forzati non possono scegliere, non possono decidere se scambiare o meno il loro lavoro con una certa quantità di denaro. Devono lavorare perché vi sono costretti. La remunerazione e le condizioni di lavoro sono loro imposte da chi ha il potere e la forza per farlo. Lo sfruttamento è qui negazione dello scambio e della libertà di scambio.
Marx conosceva queste forme di sfruttamento (ad eccezione naturalmente di quelle che sarebbero state messe in atto dai suoi discepoli) ma non concentra su di esse la sua critica. Il nemico di Marx è il capitalismo e capitalismo significa mercato, scambio, libertà di contratto. Nel capitalismo lo stato si limita a porre regole generali uguali per tutti, all'interno di queste regole ognuno è libero di scambiare con chi vuole il prodotto del suo lavoro o il suo stesso lavoro. Lo "sfruttamento capitalistico" non si basa sulla violenza, sulla limitazione della libertà di contratto, questo Marx lo riconosce senza esitazioni.
L'essenza del capitalismo è lo scambio di equivalenti, di merci aventi valore eguale. Nella sua analisi Marx non prende neppure in esame il caso di merci vendute al di sotto del loro valore da proprietari assillati da particolari necessità o minacciati da pressioni e violenze. Marx non si interessa di queste eccezioni alla regola aurea del capitalismo: lo scambio di equivalenti. Per Marx lo sfruttamento nasce proprio dallo scambio di equivalenti.

La teoria dello sfruttamento è legata in Marx alla teoria del valore-lavoro. Ogni merce non è che lavoro umano cristallizzato, generica capacità lavorativa umana che assume la forma di abiti o mobili, libri o generi alimentari. Il valore di scambio di tutte le merci presenti sul mercato è dato dal tempo di lavoro socialmente necessario a produrle. Se un abito vale quanto due paia di scarpe ciò significa che il tempo di lavoro socialmente necessario a produrre un abito è doppio rispetto a quello occorrente per produrre un paio di scarpe. Ciò che si scambia nella compra-vendita è in realtà generico lavoro umano, lavoro astratto che assume via via le forme fenomeniche più disparate.
Ma se è il lavoro a costituire l'essenza del valore qual'è il valore del lavoro? Marx risponde in maniera molto netta a questa domanda cruciale. Il valore altro non è che lavoro, proprio per questo il lavoro in quanto tale non ha valore. Quando un capitalista paga un certo salario ai "suoi" operai egli non compra il loro lavoro, ciò che egli compra è la loro forza-lavoro. La forza-lavoro altro non è che la generica capacità dell'operaio di svolgere un determinato lavoro. Il valore della forza-lavoro è dato a sua volta dal valore delle merci che permettono la vita e la riproduzione della classe operaia. Si tratta della famosa teoria del "minimo vitale": il capitalista paga agli operai ciò che serve a conservare e a riprodurre la "razza" degli operai, non un centesimo in più o in meno. Il capitalista non viola in questo modo la legge dello scambio di equivalenti, paga la forza lavoro al suo "giusto" prezzo, non compie alcuna violenza contro gli operai.
Una volta acquistata la forza-lavoro il capitalista la può usare come gli pare e per tutto il tempo che gli pare, così come chi acquista una zappa o un televisore può farne l'uso che crede. Ma la forza-lavoro è una merce particolare: il suo uso crea valore. In un primo momento l'uso della forza-lavoro riproduce il valore del salario pagato dal capitalista all'operaio, in seguito crea nuovo valore che non va all'operaio ma al capitalista: il plusvalore. Se una giornata lavorativa dura 8 ore nelle prime 4 il lavoro degli operai riproduce il valore dei loro salari, nelle altre 4 crea plusvalore che resta al capitalista. Dal libero contratto nasce in questo modo lo sfruttamento, lo scambio di equivalenti si trasforma in scambio ineguale, il rapporto fra individui formalmente liberi ed eguali si tramuta in un rapporto di spoliazione.

La teoria del plusvalore e dello sfruttamento, appena esposta in termini telegrafici, si basa su due cardini: la teoria del valore-lavoro e quella del minimo vitale. Nessuno di questi regge tuttavia ad un minimo di analisi critica e al confronto con i fatti.
Abbiamo visto come Marx risponde alla domanda: "se il valore è dato dal lavoro qual'é il valore del lavoro?". In quanto tale il lavoro non ha valore perché esso è valore risponde Marx. Tutte le merci altro non sono che lavoro in forma fenomenica modificata. Chiedere qual'é il valore del lavoro equivale a chiedere qual'é la lunghezza di un metro. Valore e lavoro corrispondono.
La risposta di Marx non spiega però proprio nulla. Marx instaura due tipi diversi di equivalenza. Da un lato afferma che tutte le merci altro non sono che lavoro cristallizzato, generico dispendio di forza lavorativa umana che assume la forma fenomenica di questo o quell’oggetto. D’altro lato Marx eguaglia valore e lavoro. Libri e televisori, auto e bistecche, giocattoli e personal computers sono lavoro umano in forma di merce, manifestazioni fenomeniche dell’essenza “lavoro”. Questa essenza dal canto suo è ciò che conferisce a televisori, giocattoli e bistecche il loro valore di scambio. Ma è corretta questa duplice riduzione che Marx effettua? A questa domanda non si può che rispondere: no.

Tutte le merci sono lavoro cristallizzato afferma Marx; con la stessa ragione si potrebbe però dire che tutte le merci sono natura modificata, materia prima in forme modificate. L’essenza della merce, che Marx individua nel lavoro, potrebbe benissimo essere individuata in altre componenti di ciò che si compra e si vende sul mercato. Se in ogni merce è compreso del lavoro (e già questa è una affermazione discutibile) in ogni merce, è compresa una materia prima (anche questa affermazione è discutibile ma di certo non più della precedente..). A parte queste considerazioni il punto davvero importante però è che l’impostazione generale del discorso marxiano, volto a stabilire quale sia l’essenza della merce che si nasconde dietro il suo apparire fenomenico, non fa fare un solo passo avanti verso la soluzione del problema del valore. Si ammetta pure che tutte le merci altro non siano che lavoro, ebbene, perché quel lavoro ha valore? Rispondere a tale domanda affermando che lavoro e valore coincidono è un volgare truismo, equivale a dire che il lavoro ha valore perché il valore.. è lavoro. Simili affermazioni danno per risolto il problema prima ancora di affrontarlo.
In realtà valore e lavoro non coincidono. Se io lavoro anni per costruire qualcosa che non interessa a nessuno e che nessuno vuole il mio lavoro non ha alcun valore. Se lavoro poche ore per costruire qualcosa che tutti vogliono e sono disposti a pagare a prezzo altissimo il mio lavoro ha moltissimo valore. Marx stesso si rende conto dell’obiezione e cerca di rispondere ad essa con la teoria del lavoro socialmente necessario.
Questa nasce da una semplice obiezione alla teoria del valore: se il valore deriva dal lavoro incorporato nelle merci se ne dovrebbe dedurre che un paio di scarpe prodotte in otto ore da un calzolaio poco abile abbiano valore doppio di un paio di scarpe prodotte in quattro ore da un calzolaio più abile e veloce, e la cosa è profondamente anti intuitiva.
Il lavoro che conferisce valore alle merci è, replica Marx, quello necessario in una certa società, ad un certo livello di sviluppo della tecnologia e delle forze produttive. Se in un certo momento per produrre un paio di scarpe bastano in media quattro ore di lavoro, chi le produce in otto spreca lavoro.
La risposta di Marx non risolve però il problema. Poniamo esista una macchina che consenta di produrre nello stesso tempo una quantità doppia di scarpe. Il proprietario di un calzaturificio deciderà di comprare questa macchina solo se valuterà, a torto o a ragione, che sul mercato esiste o può esistere una domanda di scarpe che permetta l'assorbimento della maggior produzione. Ad essere fondamentale come fonte del valore non è tanto il lavoro tecnologicamente necessario quanto la attitudine dei suoi prodotti a soddisfare determinate esigenze che si manifestano sul mercato. Se io utilizzo molto lavoro per produrre qualcosa che solo pochi richiedono il mio non è lavoro socialmente necessario. E visto che non è socialmente necessario la tecnologia in esso impiegata sarà socialmente priva di valore, un puro spreco.

Lo ha evidenziato molto bene Robert Nozick in “Anarchia, stato e utopia”: la teoria del valore marxiana è circolare. Da un lato il lavoro è valore, dall'altra questo valore dipende dalle caratteristiche delle merci e dal variare dei gusti degli acquirenti.  Un certo prodotto dovrebbe valere perché in esso è incorporata una certa quantità di lavoro sociale, il valore del lavoro sociale però dipende a sua volta dal valore di quel certo prodotto. L’essenza lavoro dovrebbe determinare il valore del fenomeno merce, invece è il valore di questo a determinare il valore di quella. Si eliminino termini come lavoro sociale, lavoro astratto, lavoro socialmente necessario e si vedrà che lo stesso Marx è obbligato a fare notevoli concessioni alla teoria secondo cui il valore è determinato sul mercato dal punto di incontro fra domanda ed offerta dei beni.

Astratto e concreto

L'incongruenza appena esaminata della teoria del valore è parte di, e deriva da, una più generale incongruenza del discorso marxiano. Per Marx, lo abbiamo visto, le merci altro non sono che lavoro umano cristallizzato, generico dispendio di attività lavorativa umana, “gelatina” di lavoro umano. Non è un caso che Marx usi tante espressioni diverse per cercare rendere l’idea dell’essenza lavoro che si manifesta nel fenomeno merce. Un destino simile tocca a tutti i tentativi di rendere comprensibili concetti profondamente anti intuitivi. Cediamogli comunque la parola.
“Il valore di una merce, per esempio della tela, è ora espresso in infiniti altri elementi del mondo delle merci. Ogni altro corpo di merci diviene specchio del valore della tela. Questo stesso valore appare così per la prima volta, in verità, come gelatina di lavoro umano indifferenziato. Infatti il lavoro che lo costituisce è presentato adesso esplicitamente come lavoro equivalente ad ogni altro lavoro umano, qualunque forma naturale possa avere, e sia che esso si oggettivi nell’abito o nel grano, o nel ferro o nell’oro ecc.” (1)
I lavori del tessitore, del contadino o del sarto sono diversi, sono differenti lavori concreti che producono merci concretamente diverse. Queste diverse merci tuttavia si scambiano fra loro in base alla quantità di lavoro astratto in esse contenuta e questo perché tali merci altro non sono che lavoro, lavoro astratto che si presenta in numerose forme fenomeniche. Lasciamo di nuovo la parola a Marx: “non è lo scambio a determinare la grandezza di valore delle merci ma viceversa è la grandezza di valore della una merce che regola i suoi rapporti di scambio. (…) E così anche i vari generi di lavoro determinato, concreto, utile racchiusi nei diversi corpi di merce contano come altrettante forme particolari di realizzazione o di manifestazione di lavoro umano puro e semplice” (2)
Malgrado lo stile un po’ esoterico il concetto non è difficile. Le merci sono modi di apparire, fenomeni di un’unica essenza: il lavoro umano. Non ovviamente il lavoro umano concreto, particolare. Il lavoro del sarto è cosa del tutto diversa dal lavoro del fabbro o dell’elettricista così come tre metri di tela sono del tutto diversi da un quintale di grano o da un televisore. Il lavoro che si manifesta, che appare nelle singole merci è lavoro umano generico, indifferenziato, “gelatina” o “cristallo” di lavoro, come lo chiama Marx. E’ questo lavoro indifferenziato l’essenza di cui le merci concrete sono la manifestazione fenomenica, è questa gelatina di lavoro ciò che è comune alle varie merci e permette che esse possano scambiarsi fra loro.

Ma è fin troppo chiaro che questo discorso si scontra con una difficoltà insormontabile. Come può il lavoro concreto, particolare diventare lavoro generico? Come possono i lavori del fabbro, del muratore e del contadino trasformarsi in “gelatina” di lavoro? Come possono diventare lavoro genericamente umano e quindi scambiarsi fra loro? All’interno dell’impostazione di Marx non ci può essere risposta questo interrogativo. Se, come afferma Marx, è il valore a determinare lo scambio e non viceversa il passaggio dal lavoro concreto al lavoro astratto resta un mistero. Se si esce da tale impostazione la risposta invece è semplicissima. Il passaggio dal concreto all’astratto, dal particolare all’universale avviene nello scambio e grazie allo scambio. Se io scambio due paia di scarpe, prodotto del lavoro del calzolaio, con un abito, prodotto del lavoro del sarto, eguaglio il valore dell’abito a quello di due paia di scarpe, essi entrano in un rapporto che è solo quantitativo. Alla base di questo rapporto quantitativo c’è però la valutazione dei consumatori che ritengono profittevole scambiare un abito con due paia di scarpe e viceversa. In una parola: il lavoro concreto diventa lavoro astratto, generico lavoro umano, nel mercato in seguito agli scambi fra produttori e consumatori. Non è l’esistenza del lavoro astratto a rendere possibile lo scambio, è lo scambio che rende possibile il passaggio dal lavoro concreto al lavoro astratto. Le merci non si scambiano sulla base del lavoro sociale in esse contenuto, al contrario è il lavoro contenuto nelle merci che diventa sociale nello e grazie allo scambio. Marx in effetti si avvicina più di una volta ad una simile conclusione, specie quando parla del rapporto fra prezzi e valori, ma non la fa mai propria esplicitamente perché essa scalza dalle fondamenta tutta la sua concezione del valore.
Non appena si esamini il processo che sul mercato trasforma il lavoro concreto in lavoro astratto, cioè, per Marx, in valore di scambio, emerge del resto una ulteriore incongruenza della teoria del valore. Ogni merce rappresenta per Marx una certa cristallizzazione di tempo di lavoro astratto. Ma in una merce è compreso sia il lavoro vivo, quello degli operai che hanno contribuito a produrla, che il lavoro morto, quello cioè “cristallizzato” nei mezzi di produzione. Poniamo che per produrre una certa merce, un tavolo ad esempio, occorrano 5 ore di lavoro. Nel valore del tavolo però non sono comprese solo le 5 ore necessarie a produrlo, in quel valore confluisce anche il valore dei mezzi di produzione usati dal costruttore di tavoli. Poniamo che il tempo di lavoro necessario a produrre questi sia pari a 7 ore; nel tavolo è compreso quindi tempo di lavoro pari a 12 ore. Sul mercato quel lavoro concreto diventa, come si è visto, lavoro astratto. Ma, le 7 ore comprese nei mezzi di produzione sono, o dovrebbero essere seguendo la teoria marxiana del valore, già lavoro astratto, gelatina di lavoro umano. Lo sono già perché sono già passate nella trafila che sul mercato trasforma il lavoro concreto in lavoro astratto. Cosa succede allora al nostro tavolo? Solo le 5 ore di lavoro vivo in esso contenute passano dal concreto all'astratto? E come fare a distinguere quelle 5 ore dalle altre 7? Oppure dobbiamo ritenere che le 7 ore subiscano un nuovo processo di passaggio dal concreto all'astratto? Ma come è possibile una cosa simile se il valore 7 è già dall'inizio della produzione valore astratto, cristallizzazione di generico lavoro umano? E come distinguere nel tavolo in legno e chiodi le 7 ore di lavoro “morto” dalle 5 di lavoro “vivo”?
Più ci si addentra nei meandri della teoria del valore più ci si avvolge in insolubili difficoltà. E più ci si allontana da qualsivoglia possibilità di trovare per la stessa uno straccio di conferma empirica. Nessuna verifica empirica può confermare o smentire la teoria marxiana del valore perché il famoso valore lavoro inteso come astratta “gelatina di lavoro umano” è una essenza priva di legami col mondo dei fenomeni.

Lavoro diretto ed indiretto

Nel saggio “impariamo l'economia” l'economista italiano Sergio Ricossa muove alla teoria del valore lavoro un'altra obiezione per vari aspetti decisiva. “Da un lato” afferma Ricossa, “la distinzione che Marx faceva fra lavoro di sussistenza e pluslavoro tendeva storicamente a svanire, dall'altro lato assumeva sempre più rilevanza la distinzione, che invece Marx accantonava, fra lavoro diretto e lavoro indiretto. Infatti la pratica capitalistica dimostrava di dare importanza, nel calcolare i costi e i ricavi, non solamente al totale delle ore lavorate e incorporate nei prodotti, bensì pure a come il totale si ripartiva secondo la data o l'epoca in cui le ore erano state lavorate: perché, ovviamente, il lavoro indiretto era stato prestato prima del lavoro diretto.” (3)

Lavorando per produrre una sedia io uso una sega, un martello, dei chiodi ed altri attrezzi, ed in tutti questi attrezzi è contenuto lavoro umano; e lavoro umano è contenuto negli attrezzi che sono serviti a produrre gli attrezzi che sto usando ora, e così via, in un processo a ritroso nel tempo di cui è molto difficile, se non impossibile, determinare l'inizio. Marx, come Ricardo, non tiene conto di questi diversi tipi di lavoro incorporati nelle merci, essi sono invece essenziali nella pratica degli affari. “Supponiamo”, afferma Ricossa, “che un certo prodotto sia ottenibile in due modi alternativi, i quali non differiscano per il totale di ore lavoro necessarie ma esclusivamente per la loro distribuzione nel tempo: un modo richieda più lavoro indiretto o anticipato dell'altro, e meno lavoro diretto. Ebbene, i due modi sarebbero indifferenti ed equivalenti stando alla teoria del valore lavoro, però non lo sono affatto nella pratica degli affari” (4)
E' meglio produrre una sedia usando un metodo che preveda lavoro anticipato, cioè lavoro prestato in epoche antecedenti, cioè, per essere ancora più chiari, attrezzi, impianti, macchinari, pari a 100, o un altro che richieda lavoro anticipato pari a 80? Marx non prende neppure in considerazione un simile dilemma: se entrambi i metodi danno un plusvalore uguale questi sono equivalenti. Il capitalista si pone invece il problema e dà ad esso una risposta molto semplice: preferirà il metodo che richiede meno lavoro anticipato. Per lui non è importante solo la quantità totale di lavoro ma anche e soprattutto la considerazione della data in cui il lavoro è stato prestato. Ogni anticipazione è un rischio e il rischio deve essere minimizzato e compensato. Investire in attrezzi e macchine è più rischioso che investire in salari perché macchine ed attrezzi sono molto meno adattabili al variare delle situazioni di mercato. Per Marx il capitalista anticipa 100, di cui 60 sono attrezzi e macchinari e 40 salari; se gli operai lavorano producendo 50, nel corso del processo si produce valore per 110 e il capitalista ottiene un profitto pari a 10. Ma in realtà le cose vanno diversamente. Il capitalista spera in un profitto futuro di 10 ed in base a questa previsione decide quanto investire in attrezzi, macchinari e salari. Il 100 investito è il valore attuale del 110 che si spera, ma non si è certi, di realizzare al termine del processo produttivo. “Il mondo degli affari è pieno di sconti, che sono poi interessi o profitti (…) nel mercato nessuno regala niente agli altri: chi ottiene profitto l'ottiene come corrispettivo di una anticipazione a beneficio di altri” (5). La differenza fra lavoro diretto e lavoro indiretto è quindi essenziale nella pratica degli affari. E' in base a questa distinzione che si calcola il rischio dell'investimento e che si stabilisce l'ammontare del profitto sperato, di quel profitto cioè che si ritiene adeguato a compensare l'imprenditore per il rischio che si assume. E' di conseguenza in base a questa distinzione che si decide la dimensione dello stesso investimento. L'economista Piero Sraffa, amico di Gramsci, ricorda Ricossa, mise in evidenza questa debolezza delle teoria marxiana dello sfruttamento che colpiva al cuore la costruzione teorica del valore lavoro. Pochi però, fra i marxisti hanno seguito le sue indicazioni teoriche.

Lavoro, valore ed accumulazione


 L'impostazione essenzialista della teoria marxiana del valore, se coerentemente sviluppata, rende inoltre del tutto misterioso un fenomeno cui Marx dedica molta attenzione e di cui dà una valutazione largamente positiva. Mi riferisco al fenomeno della accumulazione allargata del capitale, dello sviluppo delle forze produttive sociali. Per Marx, se ne è già accennato, il lavoro cristallizzato nello strumento di produzione, nelle macchine, non conferisce nuovo valore ai prodotti, riproduce solo se stesso. Se il capitalista investe 100, di cui 80 è costituito da materie prime e macchinari e 20 da forza lavorativa umana è solo quel 20 a creare nuovo valore, il plusvalore. Questa impostazione però ha conseguenze fortemente anti intuitive. La creazione di valore sarebbe maggiore in una economia  non meccanizzata che non in una fortemente meccanizzata ed automatizzata. Il capitalista Tizio investe 100 di cui 50 sia forza lavoro. Al termine del processo produttivo avrà, se gli operai pagati 50 producono 100, un plusvalore di 50 ed un valore totale di 150. Il capitalista Caio invece investe 100 di cui 80 è costituito da macchine e materie prime e 20 da forza lavoro. Se il tasso di sfruttamento della forza lavoro è, come nel primo caso, del 100%, il suo plusvalore sarà pari a 20 ed il valore totale a 120. Però, il valore prodotto dal capitalista Tizio sarà rappresentato, poniamo, da 1000 unità del tal prodotto, quello del capitalista Caio da 10.000 unità dello stesso prodotto. Per Marx è decisivo il valore, ma ogni capitalista mira a rendere massima la produttività del lavoro, a far si ciò che si produca la maggior quantità possibile di beni nel più breve tempo possibile di lavoro, e per far questo sono decisive le macchine, quelle che per Marx non creano alcun nuovo valore. La accumulazione del capitale marcia di pari passo non con l'aumento dell'essenza valore ma con l'incremento dei beni prodotti. Non è decisivo stabilire quanta quota parte del lavoro sociale sia contenuta in un paio di scarpe, ma quante paia di scarpe è possibile produrre in una giornata di lavoro. Gli investimenti dei capitalisti avrebbero per Marx la conseguenza di ridurre costantemente il plusvalore, ed i profitti; il pensatore di Treviri lo afferma esplicitamente nella famosa teoria della caduta tendenziale del tasso di profitto. Però, tutta la storia del modo di produzione capitalistico smentisce questa teoria.  
Ma non solo di questo si tratta. Nella tal macchina è contenuto, dice Marx, un tot di tempo di lavoro, poniamo, pari a 80, e questo 80 si trasferisce nei prodotti. Ma, come possiamo stabilirlo? La macchina è stata costruita da operai che hanno "cristallizzato" in essa il loro valore-lavoro, ma questi operai hanno usato altre macchine nelle quali è "cristallizzato" altro lavoro e così via, in un processo che si perde nella notte dei tempi. In una macchina che serve oggi a produrre scarpe c'è un frammento di lavoro umano che risale forse ai tempi dell'antica Roma. Nella macchina del nostro capitalista non c'è valore-lavoro pari a 80, ma molto di più: per produrre quella macchina sono state necessarie macchine in cui erano incorporate non 80 ma 100 ore di lavoro ed altre ancora che per essere prodotte richiedevano 150 ore di lavoro. Più si va indietro nel tempo più aumenta la quantità di ore lavoro necessarie per produrre una macchina, e tutte queste, secondo la teoria marxiana, dovrebbero trasferirsi nelle macchine successivamente prodotte. Considerazioni analoghe possono farsi per lo spazio. In una macchina che viene usata in Italia c'è a volte lavoro di operai cinesi che usano macchine in cui sono incorporate quantità molto maggiori di ore lavoro che non quelle necessarie in Italia. In breve, la quota parte globale del capitale fisso su quella del capitale variabile, delle macchine sulla forza lavoro, si accresce continuamente nel corso della storia perché incorpora in se il lavoro di svariate generazioni e di operai di parti del mondo sempre più lontane. Il peso del valore-lavoro e del plusvalore nel capitale complessivo diventa in questo modo sempre minore fino a ridursi a dimensioni insignificanti. Come possa, date queste premesse, essere il plusvalore il protagonista della accumulazione resta un mistero.



Essenzialismo

Marx non vede o sottovaluta queste contraddizioni della sua dottrina perché con la sua analisi non mira tanto a stabilire come si determini empiricamente l'accumulazione e l'ammontare dei profitti quanto a cercare l’essenza oggettiva del valore che si nasconde dietro il fenomenico scambiarsi delle merci a determinati prezzi. Certo, Marx parla anche di prezzi, di profitti e di saggio di profitto, e ne profetizza, lo abbiamo visto, una caduta tendenziale nel lungo periodo, ma fonda tutto il suo discorso economico sull'analisi del valore inteso come lavoro astratto, essenza umana reificata.

Per Marx i prezzi sono scostamenti dal valore delle merci. Il valore è determinato dal lavoro astratto socialmente necessario cristallizzato nelle merci, il prezzo è la forma fenomenica, empirica di tale valore, determinata dal variare della domanda e dell'offerta. In questo modo però il valore non riesce ad avere neppure una espressione puramente astratta, quantitativa. Se il prezzo di un certo bene è 100 questo prezzo ne esprime il valore d'uso in forma astrattamente quantitativa, ma in quale quantità si esprime il valore che starebbe sotto tale prezzo? Quale cifra, quale rapporto rappresenta il "valore essenza" che sta sotto al "prezzo fenomeno"? Mistero. L'essenza valore si dilegua letteralmente sotto ai nostri occhi ogni qual volta cerchiamo di afferrarla.
Nonè casuale un simile dileguarsi, deriva direttamente dal tentativo di risolvere in termini essenzialisti il problema del valore. E' l'impostazione essenzialista ad essere radicalmente errata.  Il valore non è un’essenza oggettiva, è al contrario sempre qualcosa di soggettivo, è dato dalla capacità di un certo bene di soddisfare determinati bisogni umani, di poter far fronte ad una domanda da un lato, e dalla quantità di quel bene disponibile sul mercato dall’altro.
Il valore di scambio altro non è che il prezzo a cui le merci sono scambiate sul mercato, si tratta di qualcosa di relativo, non di assoluto. Non esiste il valore della totalità delle merci prodotte, meno che mai esiste come inafferrabile "essenza oggettiva" che starebbe sotto ai prezzi. Esiste il sistema dei prezzi, l’insieme cioè dei rapporti di scambio fra le varie merci espressi in forma monetaria. Cercare l'essenza del valore e credere di averla scoperta nel lavoro ci impedisce di vedere e di capire ciò che è sotto i nostri occhi.

Il minimo vitale relativo

Se la teoria del valore-lavoro non regge ad un minimo di analisi critica (tant'è vero che anche i marxisti l'hanno armai abbandonata) la teoria del minimo vitale è stata invece clamorosamente smentita dai fatti.

La affermazione marxiana secondo cui il capitalista una volta acquistata la forza lavoro è libero di usarla  quanto e come meglio crede è in fondo solo una indebita generalizzazione di deplorevoli, ma non definitivi, fenomeni empirici. In realtà nessuno è libero di usare come vuole nessuna merce che acquista. Se compro una casa non posso usarla come albergo od esercizio commerciale, meno che mai posso piazzare delle batterie di artiglieria in giardino. Nelle moderne società di mercato le transazioni sono regolare dalla legge e questo riguarda anche le modalità d'uso delle merci che si acquistano. Vale a maggior ragione per quella “merce” particolarissima che è il lavoro umano, o, per seguire Marx, la umana forza lavoro. L'utilizzo di questa non è affatto “libero” ma regolamentato da leggi, normative, contratti. E questi si sono dimostrati in grado di migliorare le condizioni dei lavoratori.
I salari operai in realtà non si sono fermati al livello del minimo vitale; la classe operaia è stata coinvolta, come tutti gli strati sociali, nel processo di progressivo accrescimento della ricchezza sociale. Anche se a malincuore i marxisti (anzi, già lo stesso Marx e più di lui il suo amico Engels) sono stati alla fine costretti a riconoscere questo dato di fatto ma si sono ben guardati dall'abbandonare la teoria dello sfruttamento. Il minimo vitale non è qualcosa di naturale, non sta ad indicare una soglia minima di sopravvivenza materiale. Il minimo vitale è qualcosa di socialmente e storicamente determinato. In società prospere il minimo vitale comprende l'auto e la settimana bianca, l'università per i figli e la casa di proprietà. E' questa la teoria marxista del "minimo vitale sociale o relativo" con cui lo stesso Marx e dopo di lui i marxisti ortodossi hanno cercato di spiegare il mancato impoverimento progressivo della classe operaia. Si tratta di una ingegnosa teoria che permette di teorizzare lo sfruttamento quali che siano le condizioni di vita e di lavoro degli sfruttati. Grazie alla teoria del "minimo vitale relativo" o "socialmente determinato" il concetto stesso di sfruttamento perde qualsiasi determinazione positiva. Si è sfruttati sia che si lavori 8 o 12 ore al giorno, sia che si guadagni 100 o 1.000, sia che si viva in un tugurio o in un villino.
L'originaria teoria del minimo vitale aveva almeno una sua coerenza. Il benessere della società si basa sul lavoro di una classe esclusa dal benessere e dai frutti del progresso. L'aumento della produttività del lavoro e della ricchezza non significa miglioramento delle condizioni di vita della classe operaia precisamente perché la spoliazione della classe operaia è la condizione di ogni incremento di ricchezza: la miseria per moltissimi sventurati è condizione del benessere di pochi privilegiati. Una volta constatato però che la classe operaia condivide i frutti dell'incremento della ricchezza sociale i teorici dello sfruttamento si sono limitati a dire che il suo tenore di vita rappresenta comunque il "minimo vitale relativo o socialmente determinato". Naturalmente quale sia il livello di questo minimo e come lo si possa determinare restano un mistero. Se grazie ad uno sciopero vittorioso i lavoratori vedono innalzarsi i loro redditi le cose non cambiano: la loro posizione sociale si situa dopo lo sciopero esattamente come prima al livello di sussistenza “socialmente determinato”.
Il problema in realtà è proprio questo: ha senso parlare dello sfruttamento come meccanismo basilare di una società che coinvolge gli sfruttati nel processo di sviluppo della ricchezza sociale? Si ammetta pure che il salario operaio di oggi si situi al livello del "minimo vitale socialmente determinato", resta sempre da risolvere il problema del perché una società basata sulla spoliazione faccia crescere questo "minimo vitale". Se lo sfruttamento è la molla dello sviluppo economico non si vede perché questo debba coinvolgere gli sfruttati anziché tradursi in un aumento vertiginoso della ricchezza per pochi e della miseria per molti. Schiavi, servi della gleba e ospiti dei gulag non sono mai stati coinvolti in alcun processo di sviluppo della ricchezza sociale.
Avvolta nella più totale indeterminatezza la teoria del “minimo vitale socialmente determinato o relativo” non può ovviamente essere in alcun modo provata né in realtà prova o dimostra alcunché. Come si può dimostrare che un certo livello di reddito rappresenta, in un certo periodo storico, il “minimo vitale relativo o socialmente determinato”? la risposta a questa domanda, quando è stata formulata, si è rivelata una misera tautologia. Un certo livello di reddito rappresenta il "minimo vitale relativo o socialmente determinato" perché, quale  che sia il loro reddito, gli operai sono comunque sfruttati. E perché gli operai sono comunque sfruttati? Perché il loro reddito, quale che sia, si colloca al livello del "minimo vitale relativo o socialmente determinato".  Il minimo vitale relativo che doveva provare lo sfruttamento è in questo modo provato dalla conclamata esistenza dello stesso! Cercando di dimostrare l'indimostrabile ci si avvolge sempre in circoli viziosi.

Il nemico di Marx era il capitalismo, il capitalismo allo stato “puro”. Marx non cerca di fare facile propaganda parlando di capitalisti cattivi, imbroglioni o disonesti, non cerca di pescare nel torbido, non ammucchia esempi su esempi di contratti truffaldini o firmati sotto la pressione di minacce. Marx non critica il capitalismo perché nella società capitalista la libertà di contratto non è piena, i diritti degli individui sono spesso tutelati in maniera ineguale, la legge non è sempre uguale per tutti. No, Marx afferma chiaramente che lo sfruttamento capitalistico nasce dai diritti eguali, dalla libertà di contratto, dall’onesto scambio di equivalenti. L’eguaglianza liberale, la libertà di contratto, lo scambio libero, la legge uguale per tutti sono alla base del processo che porta alla spoliazione della classe operaia che vive nelle metropoli capitaliste.
Come tutti i pensatori importanti Marx punta al cuore del problema e questo lo rende enormemente più profondo dei suoi tardi epigoni. Il suo tentativo però è nella sostanza fallito. Non a caso i suoi odierni seguaci o non ne usano le categorie (spesso non le conoscono neppure) o scimmiottano in maniera ridicola il loro maestro. Il nemico degli odierni “marxisti” non è il capitalismo, sono alcuni capitalisti particolarmente cattivi, o le multinazionali, o i petrolieri, spesso è un uomo, un solo uomo (chissà chi...). Dopo il dramma del comunismo reale ci tocca assistere alla farsa del radicalismo da salotto. Chiunque sappia pensare oggi deve saper coltivare la grande virtù della pazienza.














Note

1) Karl. Marx: Il Capitale. Avanzino e Torraca editori 1965 pag. 58. Sottolineature di Marx

2) Ibidem pag. 59. Sottolineature di Marx

3) Sergio Ricossa: Impariamo l'economia. Rizzoli 1988 pag. 118

4) Ibidem pag. 118

5) Ibidem pag. 121










1 commento:

  1. Grande Giovanni. Lucido, interessante e da "riporre" nel substrato delle conoscenze. Per non dimenticare.

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