lunedì 20 maggio 2013

LA LOGICA DI HEGEL



La logica è, com’è noto, una scienza solo formale. Afferma il professor Evandro Agazzi: “la logica si disinteressa quasi completamente del contenuto dei discorsi argomentativi; in particolare, essa comincia addirittura col disinteressarsi del requisito di verità degli asserti, nel senso che non si preoccupa affatto di dirci quali asserti siano veri ma semplicemente di fornirci dei criteri in base ai quali garantirci la verità di certe proposizioni se certe altre sono vere” (1). La logica ci fa raggiungere la certezza formale ma non la verità. Se le proposizioni “Giovanni è un uomo” e “Giovanni è italiano” sono entrambe vere allora sarà certamente vero che l’unione delle due proposizioni: “Giovanni è un uomo ed è italiano” è anch’essa vera. La logica però non può dirci se le due proposizioni sono “davvero” vere. Essa è una scienza solo formale, una scienza che ha fuori di se il suo contenuto. Questo carattere formale della logica è ben presente, ricorda Agazzi, nella stessa logica aristotelica, malgrado gli indubbi legami fra questa e la metafisica dello stagirita: “Aristotele edifica in modo sostanzialmente completo la prima teoria logica puramente formale e sintatticamente formulata che l’umanità conosca: la teoria del sillogismo assertorio (…) mediante la sillogistica Aristotele ci ha effettivamente offerto la prima teoria logica sistematicamente e completamente edificata e (pur con qualche debolezza) sostanzialmente priva di errori” (2).

Ragionando logicamente il pensiero relaziona fra loro enti che gli sono esterni, che egli trova come dati. L’esperienza sensibile e l'inferenza induttiva mi dicono che tutti gli uomini sono mortali e che Socrate è un uomo, la logica mi fa dire con certezza che anche Socrate è mortale. La logica formale è la logica dell’intelletto finito, di un intelletto che ha fuori di se la materia del pensare. Da qui parte in Hegel la critica di tale logica. Hegel critica la logica formale ed il suo principio sommo, il principio di non contraddizione, precisamente perché questa è la logica del finito, dell’intelletto finito, dell’ordinario intelletto umano. Seguiamo il suo ragionamento.
”Il concetto che fino a qui si è avuto della logica è basato sulla separazione, presupposta una volta per tutte dalla coscienza ordinaria, del contenuto della conoscenza dalla forma di essa, sulla separazione cioè della verità e della certezza. Si presuppone in primo luogo che la materia del conoscere sussista già in se e per se quale un mondo bell’e compiuto al di fuori del pensiero, che il pensiero sia di per se vuoto, che sopravvenga a quella materia estrinsecamente quale una forma, si riempia di essa e solo con questa acquisti un contenuto e così diventi un conoscere reale” (3)
Pensiero ed essere quindi, separazione fra forma e contenuto, fra verità che ci è data dall’esperienza sensibile e certezza che solo il pensiero razionale, la logica, può garantirci. Un simile modo di ragionare quando si estenda alla filosofia conduce ad una autentica degradazione della stessa. “La vecchia metafisica” afferma Hegel “aveva sotto questo riguardo un concetto più alto del pensiero (..) Il vero per quella metafisica non eran quindi le cose nella loro immediatezza ma soltanto le cose elevate nella forma del pensiero, le cose come pensate” (4)
Purtroppo però “L’intelletto riflettente si impadronì della filosofia (…) Per intelletto riflettente o riflessivo è da intendere in generale l’intelletto astraente e con ciò separante, che persiste nelle sue separazioni. Volto contro la ragione codesto intelletto si conduce quale ordinario intelletto umano o senso comune, e fa valere la sua veduta che la verità riposi sulla realtà sensibile, che i pensieri sian soltanto pensieri nel senso che solo la percezione sensibile dia loro sostanza e realtà” (5). Hegel scrive molto spesso in maniera estremamente oscura ma per fortuna in alcuni passaggi chiave il suo argomentare è chiarissimo. Materia e forma, pensiero ed essere non possono essere divisi. Dividerli e lasciarli divisi è opera dell’intelletto riflettente, cioè dell’ordinario intelletto umano e non solo di questo. Com’è evidente l’intelletto riflettente è anche l’intelletto scientifico, l’intelletto che relaziona in formule semplici o estremamente elaborate un materiale che gli è e gli resta esterno. Non a caso uno dei bersagli preferiti della polemica hegeliana contro l’intelletto riflettente è Isac Newton.
La vera logica coincide per Hegel con la vera scienza e in questa scompare ogni estrinsecità, ogni separazione fra materia e forma, pensiero ed essere, conoscente e conosciuto. Scompare soprattutto ogni separazione fra verità e certezza: “La scienza pura perciò (…) contiene il pensiero in quanto è insieme anche la cosa in se stessa, oppure la cosa in se stessa in quanto è insieme anche il puro pensiero (…) Il contenuto della scienza pura è appunto questo pensare oggettivo. Lungi quindi dall’essere formale, lungi dall’essere priva di quella materia che occorre ad una conoscenza effettiva e vera cotesta scienza ha anche un contenuto che, solo, è l’assoluto vero, o, se si voglia ancora adoperare la parola materia, che, solo, è la vera materia, una materia, però, la cui forma non è un che di esterno, poiché questa materia è anzi il puro pensiero e quindi l’assoluta forma stessa. La logica perciò è da intendere come il sistema della ragione pura, come il regno del puro pensiero. Questo regno è la verità, com’essa è in se e per se senza velo (…) questo contenuto è la esposizione di Dio, com’egli è nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito” (6)
La logica è l’autoesposizione dell’assoluto, di Dio. E’ insieme materia e forma, attività relazionante ed enti relazionati. Siamo come si vede lontanissimi dalla logica di Aristotele, di Frege o di Russel.

Hegel non è il primo filosofo ad aver privilegiato la forma rispetto alla materia, la ragione rispetto alla sensibilità. Che solo l’idea possa essere considerata reale e che il mondo sensibile sia qualcosa di degradato rispetto al mondo delle idee, una mera copia sbiadita di questo, è la concezione centrale del platonismo. Il mondo sensibile è soggetto al divenire, è caduco, limitato, nella sostanza irreale. Quando Hegel afferma che “L’idealismo nella filosofia consiste soltanto in questo, nel non riconoscere al finito un vero essere” (7) si trova certamente in ottima compagnia.
Hegel muove però una critica profonda alla metafisica idealista precedente: essa conserva il finito accanto all’infinito. Con la sola, significativa eccezione di Spinoza (che idealista in senso proprio non era) i grandi metafisici idealisti si sono limitati a contrapporre l’infinito al finito, l’al di la all’al di qua. In questo modo però il finito, ben lungi dallo svanire, si eternizza. Il finito resta l’insuperabile vincolo che limita l’infinito, che lo rende non davvero infinito. L’infinito non è davvero infinito se ha fuori di se il finito che lo condiziona e lo limita. “All’infinito resta di contro il finito quale un esserci. Son quindi due determinatezze; si danno due mondi, un mondo infinito ed un mondo finito, e nella relazione loro l’infinito non è che il limite del finito, epperò solo un infinito determinato, un infinito il quale è esso stesso finito” (8)
Il vero infinito invece deve comprendere in se il finito, l’al di la non lascia fuori di se l’al di qua ma è insieme al di la ed al di qua. L’assoluto autentico non esclude il determinato, il caduco, ma lo comprende in sé quale momento del suo svolgimento dialettico. “Non si da un infinito il quale sia prima infinito, e solo dipoi abbia a diventar finito o a riuscire alla finità, ma (..) l’infinito è già per se stesso tanto infinito quanto finito” (9). L’assoluto di Hegel non lascia residui fuori di se, non è, meglio, non è solo la negazione del finito, del determinato ma comprende in se determinato e finito e li comprende, si badi bene, precisamente come finito e come determinato. Il finito che Hegel comprende nell’infinito non è un finito idealizzato, un finito pensato e “mondato” nel pensiero della sua finitezza. No, è un autentico finito che in quanto autentico finito è momento dell’infinito, è tanto finito che infinito. Il mondo sensibile non è in Hegel qualcosa di esterno all’idea, una “copia” dell’idea o peggio, un dato che il pensiero possa relazionare ad altri dati. D’altro canto il mondo sensibile non è neppure una mera apparenza, un che di irreale, qualcosa di cui il filosofo idealista si possa sbarazzare con un’alzata di spalle. No, il mondo sensibile è l’idea nella forma del suo essere altro. È il pensiero nella forma del sensibile che resta anche in questa forma pensiero. “Il passaggio qui va inteso nel senso che l’idea lascia libera se stessa, in considerazione di questa libertà è del pari del tutto libera la forma della sua determinatezza: l’estrinsecità dello spazio e del tempo” (10). Commenta il Cassirer: “ In questo passo decisivo che deve introdurre alla filosofia della natura il linguaggio del panlogismo hegeliano si converte nel linguaggio del mito. In questo modo di presentare l’idea, la quale dovrebbe risolversi liberamente in un mondo per lei estraneo e diverso e tuttavia rimanere con ciò del tutto sé stessa, e non perdere nulla della sua essenza, riecheggiano in realtà alcuni motivi mitico religiosi, riecheggiano rappresentazioni del divenire del mondo creato dall’essere originario di Dio” (11).

Cerchiamo di ricapitolare. Per Hegel la logica non è scienza formale ma ha, o meglio, si da il proprio contenuto. Il regno della logica è il regno del pensiero puro, dell’assoluto, dell’infinito. Questo assoluto non ha fuori di se il finito, il determinato ma lo comprende in se, lo pone nel suo movimento dialettico. Possiamo iniziare a comprendere ora il ruolo centrale che gioca in Hegel la critica al principio di non contraddizione. In realtà è possibile includere il finito nell’infinito, la materia nella forma, il sensibile nel pensiero solo se si elimina, o si “supera” il principio di non contraddizione. Per il principio di non contraddizione il finito non è infinito, la sensibilità non è pensiero (il che non esclude ma implica che possa essere organizzata dal pensiero), l’assoluto non è il determinato. Già Parmenide escludeva che si potesse determinare in qualche modo l’essere (inteso come essere assoluto): se dico che l’essere è x ciò implica che non è y, ma il non essere non può contaminare l’essere, dell’essere si può dire solo che è. La comprensione del finito nell’infinito, della materia nella forma, del dato sensibile nel logico può avvenire solo se si sostituisce al principio di non contraddizione il principio di contraddizione.
Com’è noto il procedimento che permette ad Hegel di includere il finito nell’infinito, il determinato nell’assoluto, insomma, di far si che la logica si dia essa stessa il proprio contenuto è la dialettica. Di cosa si tratta? Vediamo.
“Se noi chiamiamo un certo determinato essere A, e l’altro B, in sulle prime è B che è determinato come l’altro. Ma anche A è a sua volta l’altro di B. tutti e due sono in pari maniera altri” (12). E, più avanti: “L’essere in sé è primieramente relazione negativa al non esserci, ha l’essere altro fuori di se e gli sta di contro; in quanto qualcosa è in se, è sottratto all’essere altro e all’esser per altro. Ma in secondo luogo ha anche in se il non essere, poiché è appunto il non essere dell’essere per altro. L’esser per l’altro poi è primieramente negazione della semplice relazione dell’essere a se, la quale ha da essere anzitutto esserci e qualcosa; in quanto qualcosa è in altro e per altro è privo del suo proprio essere. Ma secondariamente esso non è il non esserci come puro nulla; è un non esserci che accenna all’essere in se come al suo essere riflesso in se, così come viceversa l’essere in se accenna all’essere per altro” (13).
Vediamo di chiarificare. A si trova ad essere sulle prime diverso e limitato da B. B è B e non è A; A è A e non è B. A e B stanno per se stessi. Ma stando per se stessi essi non sono l’altro e non sono per l’altro, contengono in se il negativo. A è A nel suo non essere B; B; B è B nel suo non essere A. Essi si definiscono per ciò che sono e per ciò che non sono. In questo modo però ciò che B è in positivo entra a far parte dell’essere di A e ciò che in positivo A è entra a far parte dell’essere di B. A e B si definiscono in positivo solo accennando alla negazione che uno fa dell’altro e si definiscono in negativo solo accennando a ciò che in positivo essi sono. Se diciamo che Giovanni è un uomo intendiamo con questo che egli non è un cane. Nell’ente “Giovanni” in questo modo viene ad essere compresa la negazione dell’ente “cane” ma viene ad essere compreso anche il significato positivo di “cane”. Solo se so cosa è cane posso sapere cosa è non-cane e quindi cosa realmente è “Giovanni”. Ogni ente si definisce come il negativo di un altro e ogni negativo di un ente si definisce come affermazione di ciò che nega. Il “vero” di queste unilaterali affermazioni e negazioni sta nell’intero, nel movimento dialettico da A a B e viceversa. La sintesi contiene A e B come positivi e nel contempo come negazione l’uno dell’altro.

Grazie alla dialettica ogni ente trapassa nell’altro e si definisce tramite l’altro. B è necessario alla definizione di A come A a quella di B. Il pensiero si da in questo modo il suo contenuto perché il passaggio al “contenuto” altro non è che un movimento del pensiero che pone l’altro da se. La forma in se non è materia ma nel suo non essere materia è in se forma, la materia dal canto suo non è forma ma nel suo non essere forma è in positivo materia. La sintesi è nel passaggio dalla materia alla forma e viceversa. Per usare un linguaggio divenuto usuale ma che Hegel usa raramente, A è la tesi, B l’antitesi, l’unità dialettica di A e B, il loro richiamarsi a vicenda affermandosi e negandosi nel contempo è la sintesi C. C a sua volta si definisce nel rapporto con D e così via, alla nuova tesi si contrappone una nuova antitesi e il contrasto fra tesi ed antitesi è superato da una nuova sintesi. Il movimento procede sinchè l’assoluto si è completamente auto esposto, ha rivelato tutte le sue determinazioni, si è particolareggiato restando tuttavia sempre, dall’inizio alla fine, assoluto. Nella logica di Hegel è compreso tutto: l’essere, il nulla ed il divenire; l’essere per se, l’essere per altro ed il qualcosa; la quantità, la qualità e la misura; lo spirito e la materia; la teologia e la scienza; il meccanicismo, il chimismo e la teleologia. La logica di Hegel tutto comprende e tutto espone perché è la logica dell’assoluto, meglio, è l’assoluto che si auto espone, rivela sé a sé stesso. La logica di Hegel contiene in sé, ovviamente, lo stesso principio di non contraddizione. Ben lungi dall’essere il sommo principio formale che esso era in Aristotele (e che è nella logica contemporanea) però tale principio diventa in Hegel un puro “momento” del divenire dialettico. L’identità è identica a sé diversa dalla diversità, quindi identica e diversa, la diversità è diversa dalla identità ma è identica a sé stessa, quindi è diversa ed identica. Contraddizione e non contraddizione si richiamano e si pongono a vicenda, convivono, trapassano di continuo l’una nell’altra: una è l’altra e nel contempo non lo è.
Un solo particolare non quadra in tutto questo: il principio di non contraddizione non può convivere con la contraddizione. Per chi accetta la contraddizione nulla è più facile che accettare la stessa non contraddizione nel suo sistema ma per chi non la accetta nulla è più assurdo di una simile convivenza di contraddizione e non contraddizione.

In effetti, se tutto è pensiero, se il finito, il determinato il sensibile sono eliminati, in una parola, se nulla è estrinseco al pensiero, anzi, nulla è in quanto tale estrinseco a nulla, il procedimento di Hegel non fa una grinza. Se A e B non sono in qualche modo dati come posso passare da A a B se non dicendo che A non è B, è il negativo di B? E come posso formarmi un concetto positivo di B se non affermando che è la negazione di A? La ragione separa ed include, divide ed unifica, relaziona i concetti e relazionare significa appunto dire che A è A e per questo non è B e viceversa. Solo che questo relazionare è del tutto vuoto se non è riferito a qualcosa di dato, di estrinseco, a qualcosa che è oggetto del relazionamento ma non è a sua volta relazione. Se relaziono Giovanni, uomo e cane dicendo che Giovanni è un uomo e quindi non è un cane io relaziono fra loro enti la cui positività mi appare immediatamente come data nell’esperienza sensibile. Giovanni è quel certo ente, quel tipo che parla, si muove, ride piange ecc. Cane è quell’altro ente che saltella abbaia ecc. Relazionare questi enti dicendo che Giovanni è uomo e non è cane non significa fare di ogni ente il negativo di un altro, significa relazionare dei positivi che in quanto tali sono dati e di cui si dice che sono la tal cosa e non sono la tal altra. In quanto non-B, A ha in se la negazione, afferma Hegel, è un ente positivo e nel contempo negativo, è, nel contempo, essere e non essere. In realtà A non è affatto un ente negativo, è un ente positivo, un ente positivamente dato di cui la ragione predica l’unità con se stesso e la diversità dall’altro ente positivo B. Questo significa fare della forma logica qualcosa di diverso dal suo contenuto, di estrinseco ad esso? Certamente, significa fare proprio questo. Questo significa che non potremo mai avere una conoscenza determinata dell’assoluto? Certo, significa esattamente questo. Se la logica è un che di estrinseco, se la conoscenza ha fuori di se il suo oggetto l’assoluto non può che sfuggire alla conoscenza umana. Conoscenza estrinseca significa conoscenza da un certo punto di vista, punto di vista che è per definizione assunto come dato, come dato mai pienamente conosciuto, presupposto in quanto dato. Hegel ha capito alla perfezione che la logica solo formale, la normale conoscenza scientifica non possono portarci alla conoscenza dell’assoluto, o anche solo della totalità. La logica solo formale, la conoscenza solo estrinseca sono obbligate ad assumere il dato, a riconoscerlo, a darlo per mai interamente conoscibile. Lottando contro il principio di non contraddizione Hegel lotta contro il concetto stesso di conoscenza finita, contro la finitezza umana.

Il tentativo di Hegel di “superare” il principio di non contraddizione e con esso la logica solo formale, la conoscenza finita e la stessa umana finitezza hanno però un esito del tutto insoddisfacente.
In primo luogo Hegel ritiene di non dover nulla all’esperienza sensibile ma è invece enormemente debitore nei suoi confronti. Tutti i passaggi “logici” con cui Hegel tenta di “dedurre” dal puro pensiero il suo contenuto sono presi di peso dall’esperienza, dalla scienza del suo tempo o dall’esperienza storica. Hegel cerca di dare forma di divenire razionale a ciò che è e resta irrimediabilmente dato. Dire che l’ente B nega e limita l’ente A non conferisce alcuna necessità logica né ad A né a B. A potrebbe essere “negato” da C anziché da B, è solo l’esperienza, l’estrinseca, accidentale esperienza sensibile a dirci che esistono A e B e che l’uno “nega” l’altro. Il sistema di Hegel, malgrado tutta la sua armatura iper razionalista è infarcito di empirismo. Hegel potrebbe ben ammetterlo del resto. Se la sua logica comprende la totalità del reale può e deve comprendere lo stesso empirismo. Si tratta tuttavia di un cattivo empirismo. Di un empirismo che rinnega i suoi metodi e le sue tecniche specifiche, che irride se stesso come forma “inferiore” di conoscenza. Appare qui particolarmente calzante la critica che Ernest Cassirer muove ad Hegel: “Se si toglie la barriera metafisica fra soggetto e oggetto, spirito e realtà, si devono rimuovere nel campo della conoscenza anche le distinzioni di valore puramente immanente e così pure ogni contrasto, ogni opposizione metodica fra la forma e la materia del conoscere, fra l’universale ed il particolare, fra l’intellettivo e l’empirico, fra il razionale ed il reale. Le distinzioni dell’intelletto finito, in virtù di un nuovo ideale di conoscenza, in virtù del metodo dialettico che presenta il movimento dello stesso logos divino, devono essere mostrate come inconsistenti, come superate. E al tempo stesso tutta la pienezza, tutta la concreta particolarità del reale si deve svolgere progressivamente di fronte a noi. Ma tanto la filosofia della natura quanto la filosofia dello spirito hanno mostrato l’impossibilità di attuare questa fondamentale concezione programmatica. Nello sforzo di risolvere in unità metafisica la dualità metodica fra ideale e realtà di fatto (..) Hegel ha finito per perdere nella filosofia dello spirito l’ideale di fronte al reale, nella filosofia della natura il reale di fronte all’ideale” (14).
In secondo luogo (e questa è forse la cosa più grave) il sistema di Hegel sembra costantemente avvilupparsi su se stesso, girare a vuoto. A si definisce tramite B e B tramite A, ma, qual è il significato reale, comprensibile, di A e di B? B rimanda ad A, A rimanda a B, il vero di entrambi è nella sintesi, nella totalità dinamica di questi rimandi, ma né A, né B né la loro sintesi riescono in questo modo a dare di se stessi un significato definito. L’essere trapassa nel nulla, il nulla nell’essere, la sintesi di questo trapasso reciproco è il divenire che a sua volta è trapasso da essere a nulla e viceversa. Possiamo forse sapere da questo movimento cosa sono essere, nulla e divenire?. Se non avessimo già un qualche concetto di essere, nulla e divenire potrebbe questo esserci dato dal gioco di rimandi, di affermazioni e negazioni in cui si risolve la dialettica hegeliana? No evidentemente. Ed ancora, come può un ente trapassare nell’altro, accennare all’altro se è in questo “trapassare”, in questo “accennare” che l’ente diventa ciò che è? Come può A relazionarsi con B se ciò che A significa è il risultato della relazione con B? Non è possibile definire un ente nella sua relazione con l’altro a prescindere da ciò che questo ente è positivamente. Il principio di non contraddizione ci dice che un ente è X e quindi non è né può essere nello stesso tempo e dallo stesso punto di vista Y. Tale principio determina, specifica ciò che un ente è e ciò che esso non è. Il principio di non contraddizione ci permette di relazionare gli enti fra loro ma impedisce ad un ente di passare nell’altro, di essere nel contempo se stesso e l’altro, l’altro e se stesso. Per questo il principio di non contraddizione, a differenza del principio di contraddizione, è il fondamento stesso del discorso sensato e comprensibile.
Hegel riesce ad essere compreso, malgrado il suo stile incredibilmente oscuro, precisamente perché usa, come tutti, il principio di non contraddizione. La sua filosofia vuole essere il momento più alto dell’autocoscienza dell’assoluto, la sintesi finale che il logos fa di se stesso. Ma è solo una filosofia fra le altre. Una grande filosofia, si può aggiungere ma da cui sono derivati grandi errori.



NOTE

1) Evandro Agazzi: La logica simbolica. Edizioni La scuola 1990. pag. 41

2) Ibidem pag. 73-74

3) Hegel: Scienza della logica, BUL- Laterza 1981 pag. 25. sottolineature di Hegel)

4) Ibidem pag. 26

5) Ibidem pag. 26. sottolineatura di Hegel

6) Ibidem pag. 31 sottolineatura di Hegel

7) Ibidem pag. 159

8) Ibidem pag. 141 sottolineatura di Hegel)

9) Ibidem pag. 158, sottolineatura mia

10) Hegel: Enciclopedia delle scienze filosofiche. Citato in E. Cassirer: Storia della filosofia moderna, i sistemi postkantiani, Einaudi 1978, pag. 471

11) Ernest Cassirer Opera citata pag. 471

12) Hegel, Scienza della logica. BUL: edizioni Laterza 1981 pag. 114

13) Ibidem pag. 115-116

14) E. Cassirer, opera citata pag. 474

















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