domenica 13 ottobre 2013

IL PRINCIPIO DI REALTA', E I SUOI NEMICI



Si chiama “principio di realtà”, e dice una cosa molto semplice. Gli esseri umani sono limitati. Non possiamo fare ciò che più ci aggrada, o sperare che ogni nostro desiderio possa essere esaudito. Perché non possiamo farlo? Per il motivo semplicissimo che esiste qualcosa che è altro da noi e che condiziona, pesantemente, il nostro agire. Questo “qualcosa” che ci condiziona e ci limita è la realtà.
Il principio di realtà non ci dice cosa sia la realtà. La realtà è il mondo empirico  che esiste indipendentemente dal soggetto? Un insieme di fenomeni coordinati in base a principi a priori universalmente validi? L'insieme delle nostre percezioni? Un universo di pure essenze ideali posto al di là dei limiti dell'esperienza sensibile? Il principio di realtà non ci aiuta a risolvere tale profonde questioni filosofiche. Però ci ricorda che, qualsiasi cosa sia la realtà, questa non è da noi malleabile all'infinito; ci condiziona e ci limita. Dobbiamo tenerne conto, anche se non ci piace.
Il principio di realtà è eminentemente economico: ci spinge a a valutare, a calcolare le conseguenze delle nostre azioni, i loro costi ed i loro benefici, immediati e futuri. E' il principio della maturità degli esseri umani, quanto meno, della loro età adulta. I bambini sono mossi, lo ricorda Freud, dal principio del piacere, mirano al soddisfacimento immediato dei loro desideri slegato da ogni valutazione prospettica, da ogni comparazione fra costi e benefici; sono bambini, come potrebbero comportarsi diversamente?
Il principio di realtà in fondo coincide con la accettazione del dato. Esiste qualcosa di dato, che ci condiziona e ci impedisce di agire come vogliamo. Meglio, il dato non ci impedisce di agire come vogliamo, semplicemente fa si che le conseguenze delle nostre azioni che lo ignorano siano ben diverse da quelle che noi crediamo, e vorremmo, che fossero. Io posso credere di poter volare, e posso gettarmi dalla finestra. Però non volo, precipito a terra. La corposa realtà del dato rivela l'infantilismo insito in certi modi di pensare e di agire, e ci fa toccare con mano le loro conseguenze.

Il principio di realtà ha numerosi nemici. Uno è il relativismo scettico, filosofia estremamente di moda ai nostri giorni.
Il relativismo scettico distrugge la realtà, moltiplicandola a dismisura. Ogni soggetto ha la sua realtà, il mondo diventa malleabile all'infinito, si adatta a tutte le esigenze, aderisce a tutti i punti di vista. La mia realtà è diversa dalla tua, se io vedo il mondo così, il mondo è davvero così, per me. Siamo di fronte ad un pluralismo ontologico che può benissimo trasformarsi in sinistro, ed altrettanto ontologico, totalitarismo. Perché, se non esistono il mondo reale e la verità, qualsiasi verità può cercare di imporsi alle altre; se tutti i punti di vista sono validi è più che mai valido il punto di vista che riesce ad imporsi con la forza. Dissolta la realtà viene a mancare qualsiasi remora, qualsiasi limite alle pretese di chiunque. Il nichilismo ed il totalitarismo, ben lungi dall'eludersi, si richiamano a vicenda.
Ed infatti, per vie diverse, l'olismo totalizzante arriva agli stessi risultati del relativismo scettico. L'olismo di stampo marxiano ed hegeliano distrugge il principio di realtà perché pretende di fare entrare la realtà, con tutta la sua ricca, imprevedibile varietà, nel letto di Procuste di uno schema dialettico prestabilito. Esattamente come gli utopisti più radicali, gli olisti di stampo marxiano pretendono di imporre al reale il loro ideale. Solo, dichiarano che il loro ideale altro non è che la manifestazione dell'essenza “vera” del mondo, la realtà autentica da contrapporre alla misera, “alienata”, realtà con cui, giorno dopo giorno, noi comuni mortali abbiamo a che fare. E chi stabilisce quale sia questa più profonda, più “reale” realtà? Semplice, coloro nel cui pensiero e nella cui azione questa più profonda "realtà" si manifesta. I grandi uomini, gli "individui cosmico storici" nel cui pensiero parla "l'assoluto" o si rivela "l'autocoscienza della storia". Tutto ciò che fanno questi individui eccezionali diventa giusto perché la loro azione non fa che realizzare ciò che potenzialmente già esiste e chiede solo si attualizzarsi. Quando un individuo “cosmico storico” decide, per fare solo piccoli esempi, la eliminazione dei Kulaki, o lo sterminio degli ebrei, in lui e per suo tramite parla “la storia”. I grandi leader hanno sempre ragione perché le loro decisioni esplicitano ciò che il mondo è e deve essere. E se il mondo, quello vero, si oppone, resiste ad un simile delirio di onnipotenza? Si stabilisce che si tratta di un mondo “non autentico”, “alienato”, non reale. L'olismo totalitario dichiara “irreale” la realtà ed entra in guerra con lei, cerca di farla a pezzi. Ci riesce in effetti. Non certo ad eliminare la realtà, o a realizzare i suoi sogni allucinati; riesce a fare a pezzi, letteralmente, una parte della realtà: esseri umani, a milioni.

Lo scetticismo classico si basava su elaborazioni filosofiche quanto mai sottili e raffinate. Marx è stato un pensatore profondo ed in possesso di una cultura filosofica, e non solo, di prim'ordine. I più recenti nemici del principio di realtà non possono vantare basi teoriche altrettanto solide.
Ai contestatori del '68 non interessava molto basare l'attacco al reale su una analisi dello stesso che pretendesse di avere basi “scientifiche”, né dissolvere teoreticamente il mondo usando la lama affilata della ragione scettica. Per i contestatori sessantottini ad essere fondamentale non è la ragione teorica ma la volontà rivoluzionaria, la scelta di lottare contro la falsa oggettività dei “fatti”. La realtà è un nemico che ci soffoca con la sua pretesa oggettività. Ma non bisogna arrendersi alla oggettività del reale perché questa “oggettività” altro non è che una mistificazione del neocapitalismo. La natura che la scienza studia ed interpreta, ed inquadra in rigorose formule matematiche non è qualcosa di davvero oggettivo, è espressione alienata di un sistema che tutto reifica, tutto riduce a pura quantità e valore di scambio. Esattamente come oggettivizza e mercifica l'uomo, il sistema capitalistico reifica il mondo, trasforma la multicolore varietà della natura in un sistema di rigide formule matematiche, impone a tutto e a tutti una fredda, impersonale oggettività che è l'altra faccia della oggettività puramente quantitativa della produzione finalizzata al profitto.
La scienza degrada nelle analisi dei sessantottini a mera ideologia, strumento del “potere borghese”, il reale perde la sua oggettività extrasociale. La negazione del principio di realtà è, come si vede, totale: la realtà molto semplicemente non esiste, è un prodotto del “sistema”, e prodotto del “sistema” sono anche i desideri, le aspirazioni, gli impulsi e le pulsioni degli esseri umani. Qualsiasi “sistema” però nasce per far fronte ad oggettive esigenze umane, e si conserva solo finché riesce, in qualche modo, a soddisfarle; se queste esigenze sono un parto del “sistema” la nascita e il perpetuarsi di questo diventano un insolubile enigma. Il “sistema diventa una misteriosa divinità, qualcosa che si autogenera e si autoconserva in vita, una sorta di “causa sui” socio economica. Inspiegabile, come ogni ente che è causa di se stesso.

Uno dei maestri del '68: Herbert Marcuse individua nella lotta contro il lavoro, meglio, nel rifiuto del lavoro un momento centrale della lotta contro la falsa oggettività che il “sistema” ci impone. Nel lavoro l'uomo è schiavo del reale, accetta le sue leggi, si sottomette alle sue regole. In effetti Marcuse non ha torto: chi lavora deve rispettare il principio di realtà. Il lavoro è quella attività che più di ogni altra modifica la realtà, ma per modificarla deve tenerne conto, conoscere le sue leggi e rispettarle. Un simile atteggiamento è una resa, per Marcuse, una resa al sistema ed alla sua oggettività alienata ed alienante. “Lavorando” afferma Marcuse in cultura e società, “il lavoratore è presso la cosa, sia che stia dietro una macchina o che progetti piani tecnici o che prenda delle misure organizzative (…). Nel suo fare si lascia guidare dalla cosa, si assoggetta ed ubbidisce alle sue leggi (…). In ogni caso non è presso di se, non lascia accadere la propria esistenza, al contrario, si pone al servizio dell'altro da se, è presso l'altro da se” (1)
Assoggettarsi al lavoro significa alienarsi, uscire di se e diventar schiavi dell'altro da se: il sistema in forma di oggettività alienata. Al lavoro si deve, afferma Marcuse, contrapporre il gioco: “Il gioco sopprime i limiti del possibile, questo contenuto e regolarità “oggettivi” degli oggetti per mettere al loro posto una regolarità diversa, creata dall'uomo stesso, a cui chi gioca si lega liberamente per volontà propria. (…) Sicché l'”oggettività” degli oggetti e la materialità del mondo oggettivo, che nel lavoro impongono agli uomini le loro leggi, vengono quasi abrogate nel gioco (interessante quel “quasi” ndB) e l'uomo una volta tanto fa degli oggetti quel che gli pare, si pone al di sopra di essi, è, tra gli oggetti, libero da essi (…). Un singolo lancio di palla da parte di un giocatore rappresenta un trionfo della libertà umana sull'oggettività che è infinitamente maggiore della conquista più strepitosa del lavoro tecnico” (2)
Nel gioco siamo liberi, ci poniamo sopra gli oggetti e sconfiggiamo la alienata oggettività del mondo. Nessuno ha forse negato con altrettanto rigore e radicalità il principio di realtà. Un bel calcio ad un pallone è più importante delle più strepitose conquiste del lavoro, più importante di case e scuole, aerei ed ospedali, libri stampati ed interventi chirurgici. Interessante, però... chi ha costruito il pallone? Questo Marcuse non ce lo dice. Non a caso...

Ai giorni nostri il principio di realtà ha un nuovo, implacabile nemico: il politicamente corretto. Non è possibile darne qui una definizione minimamente esaustiva; si tratta di una mistura eclettica di spezzoni di pensiero dalle più diverse provenienze. Nel politicamente corretto si mischiano l'olismo totalitario ed il relativismo nichilista, l'utopismo della contestazione globale e il radicalismo ecologico, il femminismo radicale ed il terzomondismo filo islamico, il tutto condito con qualche concetto liberale malamente digerito ed una spruzzatina di economia di mercato. Sintetizzando al massimo il politicamente corretto teorizza un mondo da cui sia scomparsa ogni asprezza, ogni fattore di crisi e di lotta. Un mondo senza conflitti, in cui tutti i rapporti fra gli esseri umani, e fra le culture e le civiltà, ed anche i rapporti dell'uomo con la natura non umana si basino su un “vogliamoci bene” generalizzato. Un mondo in cui non esistano gerarchie di valori, in cui tutti si sia diversi ma non diseguali ed in cui i rapporti fra diversi siano sempre qualcosa che arricchisce tutti. Insomma, un mondo mondato dalla sofferenza e dal dolore, in cui la malattia sia solo una umana "convenzione", le disabilità diventino “diverse abilità”, i vecchi si trasformino in “anziani”e la stessa morte sia solo un sereno trapasso, privo di ogni dimensione drammatica.
L'imperativo etico ci dice che ogni essere umano, ha, in quanto tale, un valore infinito, una dignità che tutti siamo obbligati a rispettare. Ma da questo non deriva che tutti gli esseri umani seguano allo stesso modo questo imperativo, né che tutti siano uguali quanto ad intelligenza, abilità, capacità creative. Ancora meno segue che tutte le civiltà e le culture abbiano dato contributi equivalenti allo sviluppo del genere umano, o che la dignità che si riconosce alle persone possa essere estesa alla natura non umana. Cercare di obbedire all'imperativo etico non rende ciechi di fronte alla dimensione del dolore e della sofferenza ben presenti nel mondo.

Bastano le poche considerazioni che si sono fatte per comprendere fino a che punto il politicamente corretto e si contrapponga al principio di realtà. In effetti, se si analizza ciò che i fautori del politicamente corretto dicono, fanno o propongono ci si rende subito conto che questi non tengono in alcuna considerazione il reale. Le loro proposte potranno anche sembrare attraenti, potranno piacere ad alcuni, ma non sono mai accompagnate da una analisi della realtà, dall'esame impietoso delle sue caratteristiche autentiche. Per comprendere fino a che punto il politicamente corretto sia distante dal principio di realtà basta esaminare il modo in cui affronta un problema oggi fondamentale: quello della immigrazione clandestina.
Cosa dicono su questo tema scottante gli angioletti del politicamente corretto? Molto semplicemente ci prospettano un mondo meraviglioso. L'Italia e l'Europa occidentale sono quotidianamente prese d'assalto da masse crescenti di persone che fuggono da paesi in cui la vita diventa ogni giorno più difficile. Non possiamo respingere questi poveretti, affermano i politicamente corretti, abbiamo il dovere morale di aiutarli. Aiutarli come? Semplicissimo, accogliendoli da noi, accogliendone molti, moltissimi, praticamente tutti. Insomma, se Tizio è povero io ho il dovere non di cercare di dargli una mano, di indirizzarlo da chi forse può insegnarli a fare un lavoro produttivo, in prospettiva può assumerlo. No, ho il dovere di farlo vivere con me, a casa mia. Più che rigorismo etico questo sembra una giustificazione del parassitismo, ma continuiamo. Accogliere tutti non è solo eticamente doveroso, è anche possibile, addirittura vantaggioso. E' possibile inserire tutti gli immigrati nella nostra società, dar loro un buon lavoro e questo in prospettiva è un vantaggio per tutti. Gli immigrati (migranti nel gergo politicamente corretto) sono portatori di valori, concezioni del mondo e della vita, e dei rapporti fra gli esseri umani diversi dai nostri ma questo, ben lungi dall'essere un fatto negativo, è qualcosa di estremamente positivo. La diversità è un valore, è possibile convivere amabilmente con chi ha valori diversi dai nostri, ed è anche possibile predisporre tutti gli strumenti, affinché i “diversi” possano, anche qui da noi, orientare la loro vita in base ai propri valori. Si studi nelle scuole la storia e la cultura islamica, si costruiscano nuove moschee, si garantisca che alcuni usi e costumi che a noi non piacciono ma che sono molto diffusi fra i nostri fratelli mussulmani possono, anche da noi, essere esercitati legalmente, si eviti in ogni modo di offendere chi abbiamo accolto ed il gioco è fatto. Avremo una società multiculturale buona, variopinta e tollerante, il convivere con i diversi ci arricchirà, amplierà i nostri orizzonti culturali, ci renderà migliori.
Non ci vuole molto per comprendere come questo mieloso quadretto faccia letteralmente a pugni con la realtà. Economie in crisi come quelle dell'Europa occidentale e, a maggior ragione dell'Italia, non sono in grado di garantire posti di lavoro decenti a masse sempre più numerose di immigrati, tra l'altro molto spesso privi di qualsiasi qualificazione professionale, i nuovi venuti vanno in larga misura ad ingrandire l'esercito del lavoro irregolare e sottopagato, spesso controllato dalla malavita. Il flusso di masse crescenti di disperati cambia il volto delle nostre città, crea aree di di degrado sempre più ampie, autentiche terre di nessuno in cui prospera la delinquenza. Il riconoscimento di diritti collettivi che certe etnie, i mussulmani soprattutto, per niente disposte ad integrarsi, chiedono a gran voce, ben lungi dal favorire il dialogo, la reciproca comprensione e l'integrazione, divide la società in tanti gruppi non comunicanti fra loro, ognuno con i suoi usi e costumi, le sue gerarchie, le sue leggi. La società si disgrega lungo linee etniche e culturali, cessa di essere unita intorno ad alcuni valori fondamentali per diventare un aggregato informe di culture etniche. Tutto questo provoca reazioni xenofobe se non addirittura razziste cui le autorità cercano di far fronte con misure di patetica inefficacia (ne è un esempio la proibizione di cori razzisti negli stadi). La società riscopre odi e tensioni razziali che si credeva appartenessero al passato e che paesi come l'Italia non hanno mai conosciuto.
Chi rifiuta il principio di realtà compie azioni che hanno conseguenze del tutto diverse, quando non opposte rispetto alle intenzioni di partenza. Gli angioletti del politicamente corretto vogliono le porte aperte per avere una società multicolore, prospera, tollerante, culturalmente aperta. Tutti noi invece ci troviamo a vivere in società più povere, disgregate, violente, insicure, prive di vero confronto e scambio interculturale, scosse da rinnovate tensioni etniche e razziali. Che il quadro che ho telegraficamente cercato di delineare non sia affatto irrealistico lo può constatare chiunque. Non occorre fare grandi analisi sociologiche o approfondite dissertazioni filosofiche. Basta passeggiare in certi quartieri delle nostre città, ascoltare cosa dice la gente sull'autobus o in metropolitana. Da una parte sta il mondo del politicamente corretto, propagandato in maniera goebbelsiana da tutti i media, dall'altra il mondo reale. In mezzo gli “argomenti” dei politicamente corretti che tutto sono in realtà meno che argomenti. Si tratta infatti di un insieme di slogan e di banalità con le quali si cerca, molto semplicemente di esorcizzare il mondo. “Costruiamo ponti e non muri”, “occorre dialogare, confrontarsi” “la diversità è un valore”, “abbiamo il dovere di aiutarli” strillano continuamente gli angioletti. Sarebbe facile risponder loro che i muri sono utili quanto se non più dei ponti, e che la diversità non sempre è un valore, che il confronto fra culture può esserci solo a condizione che tutte le culture conservino la propria identità, e che aiutare non può significare accogliere tutti. Sarebbe facile ma anche inutile. Gli argomenti di chi accetta il principio di realtà sono bellamente ignorati da chi lo rifiuta.

Accettare il principio di realtà non vuol dire accettare la realtà così com'è, significa non ignorarla, non cercare di stravolgerla, di rovesciarla. Chi vuole davvero apportare cambiamenti positivi al mondo accetta il principio di realtà, perché rispettare le leggi che regolano il mondo è il presupposto indispensabile di ogni sua modifica. Soprattutto, chi accetta il principio di realtà non è un radicale. Non nel senso che non chieda, a volte, riforme profonde dell'ordinamento sociale. Non è radicale nel senso che sa che chi vuole riformare il mondo ne fa parte e che quindi ogni riforma, per quanto importante, parte sempre dal mondo ed ha bisogno, per attuarsi, che il mondo, e nel mondo l'economia, la società, le istituzioni continuino a funzionare.
Il radicale che nega il principio di realtà si trova nella condizione di Archimede che cerca fuori dal mondo un punto d'appoggio per poterlo sollevare. E visto che non può trovarlo, questo punto d'appoggio, fa ricorso a misteriose leggi dello sviluppo storico, ferree leggi dialettiche che impongono alla realtà un corso predeterminato che si concluderebbe, non si sa bene perché, con il suo totale rovesciamento. E quando anche la fiducia in tali, potentissime e misteriose, leggi viene meno, fa appello alla volontà, alla determinazione di non accettare la “dittatura dei fatti”, oppone il gioco al lavoro, l'abbandonarsi sensuale al piacere al duro fare i conti col reale. Ed è di nuovo sconfitto, ovviamente, perché anche il piacere fa parte del reale ed è da questo condizionato, perché il rifiuto del lavoro, il gioioso “lancio della palla” ha come presupposto il lavoro. E quando anche il gioioso richiamo al gioco evidenzia tutta la sua pochezza, il volontarista radicale che rifiuta il principio di realtà si rifugia nella banalità dei luoghi comuni politicamente corretti. E oppone al reale vaghe e zuccherose formulette, slogan banali che devono tutta la loro forza solo al fatto di essere ripetuti infinite volte, e fatti propri da menti troppo deboli per riuscire a pensare.
Ma mai, in nessun caso, il radicale raggiunge i propri obiettivi. Ciò non vuol dire che la sua azione non abbia conseguenze, al contrario. Ne ha, e di pesantissime. Non trasforma il mondo in un paradiso ma riesce spesso a trasformarlo in un inferno, non rovescia la realtà ma la deturpa, non elimina il dolore dal mondo, ma riesce a moltiplicarlo, di molte, moltissime volte.
L'utopia dei radicali che rifiutano il principio di realtà si trasforma spesso e volentieri in allucinante distopia. Per questo va combattuta, senza se e senza ma. Senza farsi affascinare dal vano luccichio di cui le teorie radicali sono sempre ammantate, dalla loro bellezza, dalle speranze, dalle emozioni che suscitano. Bisogna guardare alle loro conseguenze, reali, verificabili, che si possono toccare con mano. I lager, i gulag, il degrado sociale ed economico, la violenza generalizzata, il peso tragico di innumerevoli vite spezzate. Queste, sempre, le conseguenze della negazione del principio di realtà. Solo di questo occorre tenere conto, tutto il resto è ideologia, vana ideologia.







Note.
1) Citato in “Giuseppe Bedeschi: La scuola di Francoforte. Laterza 1987 pag, 87 88.
2) Ibidem pag. 88 89










1 commento:

  1. Considerato tutto ciò che Giovanni dice, occorre, prima di tutto, scegliersi una collocazione (tanto c'è posto astrattamente per tutti e tutto) e quindi vivere secondo la scelta effettuata. Io, per esempio, non potrei mai, per inclinazione, esperienza, storia, essere un radicale, almeno nella vita concreta (quanto ai sogni, è chiaro che ognuno può liberamente volare). Ciò posto, la mia lotta si sposta sul piano della fattibilità. E qui divento feroce se qualcuno mi dice che una cosa non si può fare o non si può cambiare perché..bla bla bla. Non ammetto il bla bla bla, infatti. Quando era giovane ero socialista democratico: sapevo che bisognava fare i conti con i padroni, ma sapevo anche che bisognava resistere un minuto di più alle loro resistenze.

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