sabato 5 ottobre 2013

VERITA' E LIBERTA'



Innanzitutto una premessa. Non mi dilungherò ad esaminare le distinzioni, pure importantissime, sui vari tipi di libertà (autonomia, mancanza di costrizione) né affronterò il problema di “cosa sia realmente” la libertà, né se l'uomo sia “davvero” libero. Davvero possiamo fare delle scelte? O le scelte che crediamo di fare in realtà non sono tali ma solo effetti di una serie di cause che determinano tutte le nostre azioni ed i nostri pensieri? Siamo esseri liberi o robot? Tutto in noi è determinato da una serie di reazioni chimiche, o dai condizionamenti sociali, o da pulsioni inconsce? La nostra libertà è insomma una realtà o una illusione? Non siamo in grado di dirlo, però ci sentiamo liberi ed agiamo, e pensiamo e parliamo come se lo fossimo. Non solo, se davvero fossimo dei robot o un insieme di reazioni chimiche, o di condizionamenti sociali molto se non tutto il nostro linguaggio perderebbe il suo senso e con questo diverrebbero insensate moltissime nostre azioni, comprese alcune fra le più banali. “Non so se uscire stasera”; “si è comportato bene, merita un premio”; “che mascalzone, spero sia punito”; “a mio parere tu sbagli”; “ho deciso di mettermi a dieta”. Si elimini la libertà e tutte queste frasi perdono il loro senso. Meriti, premi e punizioni, scelte ed esitazioni non significano nulla se la libertà non esiste, e non significa nulla nemmeno il dibattito razionale, gli sforzi che possiamo fare per convincere qualcuno che sta sbagliando: ha senso dire che Tizio sbaglia se il suo discorso è, come il mio, solo la risultante di un insieme di impulsi chimici? Se la libertà non esiste il termine libertà non ha senso ma allora non hanno senso neppure i termini “schiavitù” o “costrizione”: è' assurdo affermare che si tiene in schiavitù o si costringe a qualcosa un robot. Insomma, la libertà, in se indimostrabile, va presupposta se vogliamo che non solo i nostri concetti e le nostre azioni morali abbiano un senso ma che abbia un senso gran parte della nostra vita. Quindi diamo per scontato che la libertà esista, non sappiamo cosa potremmo dire e fare altrimenti. E cerchiamo di esaminare il rapporto fra questa libertà e la verità.

La non corrispondenza, di cui si è già parlato, fra la realtà e ciò che gli uomini pensano della realtà chiarifica anche il rapporto fra verità e libertà. Molti liberali hanno guardato e guardano con un certo sospetto alla nozione di verità perché temono che la verità possa essere imposta agli esseri umani. Tizio dice X, Caio invece afferma Y. Ora, se Tizio dice la verità può, in forza della verità che possiede, imporre a Caio le sue convinzioni. La verità dà un grande potere a chi è in grado di raggiungerla e questo potere diventa o può diventare un'arma formidabile contro la libertà. Per salvare la libertà ci si rifugia allora nello scetticismo, o nel relativismo. I più moderati affermano che l'uomo non può mai neppure avvicinarsi ad alcuna verità. Altri estremizzano queste concezioni e negano che esista qualcosa che possa definirsi verità, altri ancora affermano che esistono molte verità e che tutte hanno pari dignità. La verità diventa prima del tutto inavvicinabile, poi si moltiplica all'infinito, infine viene distrutta. Distrutta la verità, la libertà può così trionfare, messe sullo stesso piano tutte le opinioni non ci sarà più prevaricazione alcuna.
Ma, stanno davvero così le cose? Davvero il nichilismo scettico è l'unico baluardo per la libertà? E' proprio vero che solo considerando tutte egualmente vere le più svariate opinioni sia possibile evitare che chi è, o crede di essere, in possesso della verità possa opprimere i suoi simili?
Se la verità è corrispondenza fra pensiero ed essere esiste un inevitabile iato, una tensione fra essere e pensiero. La semplice affermazione di X non può mai, di per se, essere considerata vera a priori, almeno in linea di principio esiste sempre la possibilità che X sia falsa. A decidere della verità di X sarà quindi il confronto fra X e la realtà di cui X parla. Proprio perché non si identifica con l'opinione la verità può sempre essere diversa da ciò che gli uomini pensano sia vero. Tutto questo ha una conseguenza molto semplice: non si può imporre la verità. Non la si può imporre perché imponendola la si priva del suo elemento essenziale: il confronto fra pensiero e realtà, stati di cose e opinioni sugli stati di cose. Se io impongo armi alla mano a Tizio di credere che Roma sia la capitale d'Italia, l'imposizione non si basa sulla forza della verità ma su quella della pistola che tengo in pugno, con la stessa forza potrei imporgli di “credere” che la capitale d'Italia sia Parigi, le cose non cambierebbero di una virgola. Quando si usa la forza non si impone a qualcuno la verità, si impone la propria opinione sulla verità e si impedisce alla persona che subisce l'imposizione di poter verificare la correttezza di tale opinione. In questo processo il fatto che l'opinione imposta sia o meno vera è del tutto secondario. Un buon insegnante non impone la verità ai suoi allievi, fornisce loro le nozioni e gli strumenti per avvicinarsi, anche loro, al vero. Se poi, alla fine dell'anno, boccia alcuni di loro non lo fa per obbligarli ad accettare una verità che rifiutano, ma perché non sono stati in grado di far proprie quelle conoscenze e quegli strumenti di verifica e discussione razionale necessari ad apprendere. Uno studente che conoscesse benissimo la fisica newtoniana, ma dicesse: "a mio parere Newton sbaglia", e argomentasse le sue obiezioni, di certo non sarebbe bocciato. Detto per inciso, questo studente avrebbe anche alcune ragioni dalla sua...
La verità può affermarsi solo nella discussione razionale e nella verifica sperimentale delle ipotesi, volerla imporre è una contraddizione in termini, anche se non è affatto sbagliato non concedere una laurea in medicina a chi neppure sa dove sia situato il cuore; impedendo ad un tipo simile di fare il medico non si cerca in realtà di imporgli nessuna verità, si vuole semplicemente impedirgli di far danno.

Possiamo ora chiederci: è vera l'ipotesi contraria? Cioè, è vero che il rifiuto della verità garantisca la libertà? Che considerare tutte egualmente vere le varie opinioni costituisca un solido baluardo contro le prevaricazioni che qualcuno, in nome della verità, potrebbe mettere in atto contro la libertà?
Se esiste una realtà indipendente dalle opinioni degli esseri umani esiste anche, per così dire, un giudice che discrimina le opinioni vere da quelle false, ed esiste un criterio di verità valido per tutti e a di cui tutti debbono sottomettersi. Per il solo fatto di esistere la realtà limita le pretese degli esseri umani, li obbliga a verificare le proprie opinioni, ricorda loro che il pensare una cosa non significa automaticamente essere nel vero. Tutto questo continua a valere se la verità viene a coincidere con l'opinione, più o meno maggioritaria, o con la convenzione? Se la verità coincide con l'opinione, o con la convenzione, ogni opinione ed ogni convenzione possono pretendere di essere vere, come sarà allora possibile stabilire quale opinione o quale convenzione seguire? I casi sono due: o gli esseri umani vivono nel reciproco disinteresse seguendo ognuno la propria opinione o le convenzioni cui desiderano aderire, senza curarsi di quelle degli altri, oppure ognuno può cercare di imporre agli altri la propria opinione o la convenzione cui ha aderito. Se il solo fatto di pensare X rende vero X, perché mai non dovrei importelo? Se manca un criterio di verità vincolante per tutti perché non dovrei cercare di importi la mia verità? Essa è vera come le altre, quindi ha come le altre diritto ad affermarsi. E su cosa basare questo diritto se non esiste un criterio universalmente valido, un rapporto col reale che sia vincolante per tutti e permetta di distinguere il vero dal falso? Ogni opinione ed ogni convenzione devono basarsi sulla tolleranza, si potrebbe dire, non devono cercare di imporsi con la violenza, ma, con quale diritto possiamo chiedere una cosa simile, una volta che si sia rifiutato il concetto stesso di verità? Che si debba essere tolleranti, che la violenza debba essere evitata è in fondo una opinione come tutte le altre, è vera come l'opinione di chi afferma che il più forte ha diritto ad imporre con la forza il suo punto di vista. Eliminata la realtà si eliminano anche, a maggior ragione, gli imperativi morali universalmente validi, eguagliate tutte le opinioni viene a mancare qualsiasi criterio che renda possibile la scelta, più o meno provvisoria della opinione migliore. Si elimini la verità e vengono a mancare il confronto razionale, la verifica sperimentale delle ipotesi, l'analisi logica dei concetti, il richiamo a valori universalmente vincolanti. A regolare i rapporti fra gli esseri umani restano solo l'indifferenza o, assai più spesso, la violenza.

In “1984” Orwell mette molto bene in relazione il rapporto fra il rifiuto della verità ed il totalitarismo. Nel romanzo di Orwell il partito che detiene un potere assoluto sugli esseri umani considera suo principale nemico la verità. L'esistenza di un mondo reale, e di una verità intesa come adeguatezza fra questo mondo e ciò che su di esso pensano gli esseri umani, limita le pretese del partito, rende meno pervasiva la sua onnipotenza. Quindi questa verità oggettiva, vincolante per gli uomini, viene negata, esplicitamente. “Tu pensi” afferma O' Brien, l'inquisitore, rivolto al protagonista del romanzo “che la realtà sia qualcosa di oggettivo, di esterno, qualcosa che abbia una esistenza autonoma. Credi anche che la natura della realtà sia di per se stessa evidente. (…) presumi che tutti gli altri vedano quello che vedi tu. Ma io ti dico, Winston, che la realtà non è qualcosa di esterno, la realtà esiste solo nella mente, in nessun altro luogo. Non nella mente individuale, che è soggetta ad errore (…) ma in quella del partito che è collettiva e immortale. La verità è solo quello che il partito ritene vero” (1).
Winston, il protagonista del romanzo ritiene che esista un mondo reale e che la verità sia data dalla corrispondenza fra questo mondo e ciò che gli esseri umani ne pensano, pensa anche che esista una esperienza comunicabile, pensa che tutti vedano ciò che egli vede, pensa che esistano valori, leggi logiche e matematiche universalmente valide; all'inizio del romanzo afferma che libertà vuol dire poter affermare due più due fa quattro. Winston è insomma, senza saperlo, un aristotelico, forse anche, per certi aspetti, un kantiano. O' Brien, il sottile inquisitore, altissimo dirigente del partito al potere, la pensa ben diversamente. Non esiste alcuna realtà oggettiva, quindi non esiste alcuna verità intesa come corrispondenza fra essere e pensiero. E' vero ciò che è nella mente degli uomini, la verità coincide con l'opinione, o la convenzione. Perché allora, gli si potrebbe chiedere, deve essere vero ciò che è nella mente del partito e non in quella dei singoli esseri umani, nella mente collettiva ed imperitura del partito e non in quella di Winston? La risposta è semplicissima: Winston è prigioniero in una piccola cella senza finestre, legato ad un lettino e sta subendo crudeli torture. Winston crede che due più due faccia quattro ed è convinto che dire, urlare, che due più due fa quattro significhi affermare la propria libertà (che differenza fra Orwell e gli odierni teorici del pensiero debole!). O' Brien la pensa diversamente. Due più due “a volte” fa quattro ma “a volte fa cinque, a volte tre. A volte fa cinque, quattro e tre contemporaneamente”. (2) Winston non può che cedere, ovviamente. Alla fine si “convince” che due più due fa cinque. La macchina del dolore a cui è legato non gli lascia scampo.
“Tutta letteratura” si potrebbe dire. Beh, non proprio. Le grandi tirannidi totalitarie dello scorso secolo hanno, letteralmente, dichiarato guerra all'idea stessa di verità. I grandi dittatori totalitari hanno visto giustamente nella verità oggettiva un limite intollerabile ai loro deliri di onnipotenza. Per Hitler il popolo tedesco, graniticamente unito al suo “fhurer”, avrebbe potuto sconfiggere ogni nemico, quale che fosse la sua potenza; il Reich sarebbe durato millenni. Per Stalin era una bestemmia cercare di tener conto di un minimo di compatibilità economiche, ogni obiettivo produttivo, non importa quanto irrealistico, poteva essere raggiunto, bastava volerlo. Per Mao e Pol Pot la natura, umana e non umana, poteva essere rimodellata come cera per rendere il mondo e l'uomo degni del radioso avvenire che loro stavano costruendo. Altro che verità nemica della libertà! I grandi totalitarismi sono stati nemici sia della libertà che della verità. La distruzione della libertà umana è sempre, ovunque, stata accompagnata dalla menzogna eretta a sistema. La guerra totalitaria contro la libertà è stata, insieme, guerra contro la verità.

Il relativismo e lo scetticismo non costituiscono alcun baluardo per la libertà, al contrario sono stati usati molto spesso dai suoi nemici. Non esiste contrapposizione alcuna fra libertà e verità. La verità può essere avvicinata solo se esiste piena libertà di ricerca. L'immagine di una scienza fallibilista, sempre pronta e rimettere in discussione i propri risultati sarebbe priva di senso se si rifiutasse l'idea di una realtà autonoma dal pensiero e di una verità intesa come corrispondenza fra pensiero ed essere. Le varie teorie scientifiche possono essere falsificate dall'esperienza perché l'esperienza è altra cosa rispetto a queste teorie; l'approfondimento razionale, la pubblica verifica di teorie, ipotesi, congetture possono essere fatte solo se si accetta il concetto di verità. Si elimini il concetto di verità ed il libero dibattito diventa un girare a vuoto di discorsi insensati: su cosa dibattere se la verità non esiste?
Ma esiste un altro punto di contatto fra verità e libertà. Come la verità anche la libertà e figlia della umana limitatezza, ha un senso a noi accessibile solo nella dimensione del finito. Un essere assoluto è anche libero? Se per libero si intende che non deve subire altrui costrizioni la risposta non può che essere positiva, ovviamente: chi potrebbe costringere a qualcosa l'essere assoluto, Dio? Ma noi per “libero” intendiamo anche qualcosa di diverso: è libero chi fa delle scelte, chi decide di fare A e non B. Da questo punto di vista parlare della libertà nell'essere assoluto appare fuorviante. E' sensato parlare delle scelte di un essere che è tutta la realtà, ed è tutta la realtà nel suo massimo grado di perfezione? Non sembra. Io posso scegliere fra A e B che mi sono esterni, sono altro da me. Scelgo fra A e B perché scegliendo miglioro, o credo di migliorare, la mia situazione. Scelgo fra A e B perché non posso avere entrambi o non posso essere entrambi, o non posso fare entrambi, o non posso pensare entrambi. Insomma A e B si escludono a vicenda, anche se posso averli entrambi non lo posso nello stesso tempo o dallo stesso punto di vista. Tutto nella scelta si collega alla finitezza, alla limitazione. Scegliendo miglioro, o credo di migliorare, la mia situazione perché sono migliorabile, quindi finito, limitato. Quando scelgo A miglioro, ammettiamolo pure, la mia situazione ma se avessi avuto sia A che B la avrei migliorata in misura ancora maggiore: sono limitato quindi anche la migliore delle scelte mi lascia nell'imperfezione: ogni scelta, anche la scelta giusta, è una rinuncia.
Riferito ad un essere che racchiuda tutte le perfezioni tutto questo ci appare insensato. L'essere assoluto non deve migliorarsi perché è già il massimo della perfezione, non deve scegliere perché coincide con la totalità dell'essere, perché è assoluta unità priva di ogni molteplicità, perché ha fuori di se la dimensione del negativo. Quando si sceglie si fa una affermazione ed insieme una negazione: scelgo A e non B, ma se questo è per noi perfettamente sensato, appare incomprensibile se riferito ad un essere infinito, assoluto. L'assoluto, Dio, è al di sopra della libertà, esattamente come è al di sopra della verità. E' anche per questo che è al di sopra delle possibilità di comprensione dell'umana ragione.
Verità e libertà, almeno nel senso in cui noi in larga misura le intendiamo: verità come corrispondenza fra pensiero ed essere e libertà come possibilità di fare delle scelte, sono interne alla dimensione del finito. La libertà e la verità riferite all'assoluto hanno un senso che per noi resta misterioso. E non a caso, noi siamo esseri finiti.


Note

1) George Orwell: 1984. Mondadori 2007 pag. 256.
2) Ibidem pag. 258









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