sabato 19 ottobre 2013

SUL SOLIPSISMO







1  -  TUTTO E' RAPPRESENTAZIONE?

Tutte le forme di relativismo, di scetticismo e, in genere, tutte le filosofie che riducono il mondo empirico al soggetto cercano di tenere lontano da loro un ospite che, chissà perché, viene considerato impresentabile. Lo tengono lontano più che altro ignorandolo, se sono costrette a parlarne lo fanno solo per dire che questo personaggio non ha nulla a che fare con loro, un po' come si fa in certe ricche famiglie con i parenti poveri di cui ci si vergogna. Eppure si tratta di un personaggio che ha la sua dignità ed è da sempre presente nel dibattito filosofico. Il suo nome è solipsismo.
Il solipsismo nega l'esistenza di ogni realtà esterna al soggetto, compresa l'esistenza di altri esseri senzienti e pensanti. Noi non vediamo mai le cose, e neppure le persone, vediamo sempre solo le nostre rappresentazioni delle cose e delle persone. Tutto ciò che ci sembra oggettivo, fuori di noi, è in realtà in noi, nella nostra mente o nei nostri organi di senso. Le “cose” e le “persone” (non sono casuali le virgolette) sono in realtà sensazioni, o rappresentazioni nel soggetto.
Sono chiaramente solipsistiche le considerazioni scettiche di Cartesio. Tutto è nel soggetto ma, attenzione, il soggetto autentico, l'unico della cui esistenza posso essere indubitabilmente certo, sono IO. Gli altri esseri umani sono infatti esterni a me esattamente come alberi, fiumi e monti. Io non vedo Tizio come Tizio è in realtà è: lo vedo nei miei occhi, sento nelle mie orecchie ciò che lui dice, lo tocco, sento il suo odore. Esattamente come un sasso Tizio è solo un insieme di rappresentazioni in me. “Penso, dunque esisto” questa è per Cartesio l'unica certezza originaria, la base su cui costruire tutto l'edificio del sapere. Cartesio non è un teorico del solipsismo. Parte dal “cogito” per costruire una concezione del mondo in cui l'esistenza della realtà esterna e, a maggior ragione, degli altri soggetti, non possa più essere messa in dubbio. La certezza granitica su cui tutto si fonda è però di tipo chiaramente solipsistico: “Penso, esisto”, appunto... IO penso, IO esisto.

Non è mia intenzione esaminare le varie forme di solipsismo che hanno fatto da sempre capolino nella storia del pensiero. Si tratta di una impresa assolutamente superiore alle mie forze. Quello che mi interessa sottolineare è che molti pensatori le cui posizioni hanno, se coerentemente sviluppate, conseguenze solipsistiche si sono sempre tirati indietro di fronte a queste. La cosa non deve stupire in fondo. Il solipsismo appare talmente assurdo al senso comune che anche quei filosofi che col senso comune non vogliono averci nulla a che fare non possono non sentirsi in imbarazzo accanto ad un compagno di strada tanto strano. Che il mondo, e col mondo gli altri esseri umani, non esistano, che io sia l'unico essere pensante e senziente al mondo, che tutto sia rappresentazione in me è difficile da sostenere, anche da parte di chi quasi trova un sottile, perverso, piacere nello stupire la gente. Sopratutto le tesi solipsistiche sono contraddette in ogni momento dal concreto agire degli esseri umani, compresi quegli strani esseri umani che sono i filosofi. Il professore di filosofia che sostiene che “tutto è rappresentazione in me”, polemizza con Tizio, parla con Caio, legge le opere di Sempronio. Ed inoltre fa tante altre cosette. Si alza la mattina e si reca all'università dove spiega ai suoi studenti che il mondo è solo “rappresentazione in me”, si... ma in quale “me”? Nel “me” del professore che parla? O in quello degli studenti che ascoltano? Non viene specificato. Finita la lezione il solipsista va a a pranzo con amici, poi entra in un negozio e compra una camicia, la sera si incontra con la fidanzata e magari, se la serata è quella giusta, fa con lei un po' di sesso. E' la vita, prima delle confutazioni teoriche a far apparire il solipsismo una assurdità. Schopenhauer definisce il solipsismo “un problema psichiatrico e non filosofico”, forse ha ragione, peccato che alcune parti del suo sistema, quelle in cui definisce “rappresentazione” il mondo empirico, abbiano implicite conseguenze solipsistiche; forse sta proprio qui la causa della sua invettiva. Come tutti i parenti o gli amici di cui ci si vergogna il solipsismo è riempito di improperi proprio da chi gli è a volte piuttosto vicino.

Naturalmente avvicinarsi a volte al solipsismo non significa aderire alla sua tesi di fondo. Si parlava di Schopenhauer, ebbene, la sua filosofia può essere definita tutto meno che solipsista. Il grande filosofo ritiene addirittura di aver scoperto l'essenza ultima del mondo, l'intellegibile noumeno che sta sotto ai fenomeni e che si identifica per lui, è noto, con la volontà; siamo ben lontani, come si vede, non solo dal solipsismo ma da ogni tipo di soggettivismo. Però, se Schopenhauer ritiene di avere nel suo sistema penetrato l'arcano della misteriosa cosa in se, il suo atteggiamento verso il mondo fenomenico può definirsi senza ombra di dubbio radicalmente soggettivista. “Il mondo è la mia rappresentazione” così comincia il mondo come volontà e rappresentazione, e prosegue: “ è questa una verità che vale in rapporto ad ogni essere vivente e conoscente, sebbene l'uomo soltanto possa tradurla nella coscienza riflessa, astratta: e se ciò egli fa realmente, ecco che è cominciata in lui la riflessione filosofica. Allora si fa per lui chiaro e certo che egli non conosce il sole e la terra, ma sempre e solo un occhio che vede un sole e una mano che sente una terra; che il mondo che lo circonda esiste solo come rappresentazione, cioè sempre e solo in rapporto ad un altro, al portatore della rappresentazione, che è egli stesso” (1)
Il mondo fenomenico esiste come rappresentazione in me. Schopenhauer interpreta in maniera fortemente soggettivistica il fenomenismo di Kant. Il mondo esiste nel cervello, negli organi di senso, nel soggetto, è nulla al di fuori del soggetto. Questa verità, afferma Schopenhauer, “fu Berkeley che la enunciò decisamente: egli si è in tal modo acquistato un merito immortale verso la filosofia” (2) ma ben prima di Berkeley questa verità era stata affermata, sia pure in forma di mito, dalla antica filosofia vedantica che aveva negato alla materia una esistenza autonoma dalla percezione.
Per Schopednhauer il mondo empirico quindi è sempre rappresentazione, è qualcosa che non ha esistenza autonoma ma che esiste solo nel soggetto. Esiste nel soggetto non come informe rapsodia di sensazioni ma come insieme strutturato e coerente di fenomeni. Su questo Schopenhauer segue Kant: l'esperienza è qualcosa di ordinato, conforme all'apriori dell'intelletto, anche se il filosofo di Danzica riduce alla sola causalità le categorie kantiane. Schopenhauer è però un pensatore non solo di estrema intelligenza ma anche di profonda onestà intellettuale e non si nasconde il problema che sorge spontaneamente nel suo sistema: “ Da una parte” afferma, “l’esistenza di tutto il mondo dipende necessariamente dal primo essere conoscente (..) dall’altra vediamo che questo primo animale conoscente dipende altrettanto necessariamente e in modo assoluto da una lunga catena a lui precedente di cause ed effetti in cui esso medesimo rientra come un piccolo anello. Queste due vedute contraddittorie a ciascuna delle quali in realtà noi siamo condotti con uguale necessità potrebbero veramente essere dette un’antinomia della nostra facoltà conoscitiva” (3).
L'ordine che le categorie impongono al mondo fenomenico non è qualcosa di soggettivo, una sorta di capriccio al quale il soggetto assoggetterebbe i fenomeni. E' un ordine oggettivo, universalmente valido, costituisce il fondamento stesso delle scienze e del loro valore conoscitivo; in questo, di nuovo, Schpenhauer segue Kant, anche se rigetta undici delle dodici categorie kantiane e ritiene che la concordanza dei fenomeni con la causalità possa essere oggetto di una intuizione intellettuale. Però sono proprio le scienze a dirci che il mondo, il mondo così come empiricamente ci appare, il mondo fatto di uomini e montagne, gatti e fiumi, è esistito prima dell'uomo, ed il mondo inanimato ha preceduto l'entrata in scena degli esseri viventi. Se questo è vero come è possibile sostenere che l'oggetto esista solo in relazione al soggetto conoscente? Schopenhauer accetta questa antinomia, non la risolve. Il tempo e lo spazio sono solo nel soggetto, e solo nel soggetto è la causalità, e solo nel soggetto sono le rappresentazioni. D'altra parte il soggetto è nel tempo e nello spazio, è determinato da cause. Se cerca di uscire dall'antinomia Schopenhauer lo fa approfondendo il livello della speculazione, passando dal livello della rappresentazione a quello della volontà, dal mondo dei fenomeni a quello sottostante della cosa in se.

Rilevando nel suo sistema una antinomia della facoltà conoscitiva Schopenhauer sfiora il problema del solipsismo, ma subito se ne ritrae, leggermente infastidito. Afferma, lo si è già ricordato, che il solipsismo è un problema psichiatrico e non filosofico ma questo non risolve il problema implicito nella antinomia da lui stesso evidenziata.
Esiste una autonomia del mondo dal soggetto? Il mondo esisteva prima che apparisse un qualsiasi soggetto senziente? E' evidente che nella mia esperienza io sono in costante rapporto col mondo ed il mondo è in costante rapporto con me, ma il punto è: il mondo esiste solo nella mia esperienza o la mia esperienza mi rivela, in piccolissima parte, il mondo? Non appena il problema sia posto in questi termini esso inevitabilmente si amplia. Quasi tutti i soggettivisti parlano di soggetto ma usano poi spesso e volentieri il pronome “noi”. Parlano delle rappresentazioni “nell'uomo” ed intendono rappresentazioni in Tizio, Caio e Sempronio, addirittura si riferiscono alle rappresentazioni degli animali. Ma se il mondo è rappresentazione,  se esiste solo in relazione al soggetto, a quale soggetto è relazionato? In chi è rappresentazione?  Basta porre la domanda per avere la risposta: gli altri soggetti sono per me oggetti, oggetti esterni come le case ed i gatti; se il mondo esiste solo relazionato al soggetto esiste relazionato a me, è  rappresentazione in me. Tutto il resto, compresi gli altri esseri umani esistono solo come mie rappresentazioni. Con quale fondamento allora posso parlare di Tizio, Caio e Sempronio come di soggetti senzienti distinti da me? Io vedo Tizio, parlo con lui, lo sento. Ma, se Tizio esiste solo come rappresentazione in me, posso ipotizzare che io sia a mia volta rappresentazione in lui? In realtà io non ho, non ho mai avuto e non posso avere la rappresentazione di Tizio che vede me come sua rappresentazione. Se io posso essere rappresentazione in Tizio allora Tizio non è, non può essere, solo rappresentazione in me, è, deve essere, almeno in parte, autonomo da me. Tizio ha rappresentazioni che io non ho né posso avere, la mia ad esempio, esiste anche quando io non lo vedo e non lo sento, esisteva prima che io nascessi se è più anziano di me, esisterà dopo che io sarò morto, se mi sopravviverà. O Tizio è rappresentazione in me, e in questo caso non ha autonomia da me e non ha a sua volta rappresentazioni, oppure Tizio ha sue rappresentazioni, ha una sua autonomia da me, ed allora non è solo rappresentazione in me. Tertium non datur.
Non è vero che il rapporto soggetto oggetto di cui parlano spesso i soggettivisti sia, come a volte qualcuno di loro afferma, un rapporto alla pari. Se il mondo è sensazione, o percezione, o rappresentazione allora la realtà primaria è il soggetto, non il mondo, e tutto ciò che consideriamo mondo non ha esistenza autonoma al di fuori del soggetto. Ma nel mondo ci sono anche gli altri esseri umani, gli altri esseri senzienti, gli altri centri in cui dovrebbero apparire rappresentazioni non mie. Se tutto è rappresentazione questi altri esseri umani e senzienti non esistono come esseri autonomi da me, solo io esisto. Piaccia o non piaccia la cosa, se il mondo è solo rappresentazione, o percezione, o sensazione allora il solipsismo è vero.

Il problema del solipsismo è legato a quello della verità. E' evidente che se non esiste alcuna realtà esterna al soggetto non si pone neppure il problema del confronto fra questa realtà e le nostre rappresentazioni, ed i nostri pensieri. Poniamo che io veda in lontananza una città e dica: “è Parigi”. Poi mi avvicino e dico: “no, non è Parigi, è Roma”. Se il mondo è sensazione, o percezione, o rappresentazione in me, ha senso dire che la prima affermazione è falsa e la seconda è vera? Se la realtà esterna non esiste potrò solo dire che prima ho avuto una rappresentazione che ho chiamato “Parigi” e dopo un'altra che ho chiamato “Roma”. Si elimini una realtà indipendente dal soggetto e si potranno ordinare percezioni, sensazioni e rappresentazioni, le si potrà confrontare fra loro ma non le si potrà mai dividere in “vere“ e “false”. E neppure si potranno dividere le rappresentazioni in nitide e confuse, chiare o sbiadite. Perché la visione di un palazzo distante, di cui non riesco ad intravedere il colore né, con precisione, le forme, dovrebbe essere “confusa”? Il significato di confusa o di nitida riferito ad una rappresentazione ha senso se esiste qualcosa di esterno alla rappresentazione stessa, qualcosa che la rappresentazione raffigura in maniera più o meno fedele, chiaramente o confusamente. Si elimini la realtà esterna e tutte le rappresentazioni sono sullo stesso piano, posso definirle simili o dissimili fra loro ma non più o meno nitide, più o meno confuse. Una volta che si accetti il solipsismo il problema della verità svanisce, tutto diventa vero perché qualsiasi percezione, o sensazione o rappresentazione è vera per il solo fatto di essere esperita dal soggetto. In effetti chi accetta davvero il solipsismo non ha difficoltà alcuna a negare il concetto stesso di verità. Per lui la verità è un falso problema, o ci sono molteplici verità, tante verità quante sono le rappresentazioni, il che equivale a dire che non c'è verità alcuna. E' meno chiaro invece l'atteggiamento di coloro che negano validità al concetto stesso di verità e rifiutano il solipsismo. E' questo il triste destino dell'ospite indesiderato: molti gli sono piuttosto vicini ma pochissimi lo accettano, anzi, gli improperi più duri gli arrivano a volte proprio da coloro che dovrebbero essergli amici.

Spesso varie filosofie che si avvicinano pericolosamente al solipsismo gli sfuggono indirizzando l'analisi verso livelli più profondi di realtà. La conclusione a cui Cartesio giunge nelle sue “meditazioni” è chiaramente solipsistica: “penso, dunque esisto”. Io penso, io esisto, solo di questo posso essere certo. Il soggetto cartesiano che pensa e dubita è solo al mondo, quanto meno, solo della sua isolata esistenza può essere certo. Cartesio però sfugge al solipsismo. Passa dal cogito all'esistenza di Dio e questa fonda e garantisce in maniera indubitabile l'esistenza del mondo esterno e degli altri esseri pensanti e senzienti.
Schopenhauer dal canto suo riduce il mondo a rappresentazione ma non fa del soggetto isolato l'unica realtà, al contrario. Dietro al mondo delle rappresentazioni c'è la volontà che si particolarizza nel mondo empirico. Tizio che vedo e con cui parlo esiste in realtà fuori di me, ma non come Tizio, come essere umano che vive nello spazio e nel tempo, in quel senso Tizio è solo una mia rappresentazione. Il vero Tizio è la volontà, meglio, una particolarizzazione della volontà che mi appare nella forma fenomenica di Tizio. L'altro da me esiste quindi ma esiste in una forma del tutto diversa da quella in cui mi appare, del tutto diversa ed assolutamente inaccessibile.
Però noi quando parliamo di esistenza del mondo e di Tizio intendiamo precisamente esistenza di enti che esistono nello spazio e nel tempo, che sono sostanze e vivono in un mondo in cui opera la legge di causalità. E' di questi enti che parla la scienza quando afferma che alcuni di loro sono esistiti prima che l'uomo, o addirittura ogni essere senziente, comparissero sul pianeta. Quando parlo di autonomia di Tizio nei miei confronti mi riferisco al fatto che ora io non vedo né sento Tizio, eppure egli è da qualche parte nel mondo, parla con altri esseri umani, ha rappresentazioni che io ora non ho, non ho avuto e forse non avrò mai. E' in relazione ad un ente di questo tipo che sorge il problema del solipsismo. Qualsiasi cosa sia a fondamento di Tizio, quale che sia il “Tizio in se”, egli ha una esistenza autonoma nello spazio e nel tempo, è una sostanza, vive in un mondo in cui esistono cause ed effetti? Oppure questo Tizio spazio temporale, empirico, è solo un insieme di rappresentazioni in me?
Anche un filosofo dichiaratamente soggettivista come Berkeley cerca di sfuggire alla sirena solipsistica mettendo sopra al soggetto un ente che è totalmente altro da lui: Dio. Per Berkeley essere coincide con percepire, non esiste un mondo materiale in se, indipendente dalle percezioni soggettive. Tutto questo però non porta al solipsismo: le cose esistono anche quando non le percepiamo perché vengono costantemente percepite da Dio.
La scoperta di un livello più profondo di realtà, di Dio o del misterioso “in se” rende non assoluto il solipsismo, pone sopra, o sotto, o accanto al soggetto senziente qualcosa di diverso da lui che lo salva dalla assoluta solitudine. Si tratta però di una garanzia che, a ben vedere le cose, salva ben poco del mondo. Io non sono l'unico essere pensante e senziente al mondo perché sopra, o accanto, o sotto di me esiste un ente inconoscibile, o Dio. Però... però mia moglie e i miei figli, ed i miei amici, ed il mio fedele cane, ed il monte che vedo dalla finestra di casa mia non hanno una esistenza propria, sono solo nella mia mente e nei miei organi di senso. Se si limita l'analisi al mondo fenomenico tutte le filosofie che riducono il mondo a sensazione, o percezione o rappresentazione cadono o si avvicinano pericolosamente al solipsismo.

Il problema diventa ancora più intricato se si pensa che io stesso sono una rappresentazione. Il mio corpo è esteso nello spazio, i miei stati interni si dipanano nel tempo, ritengo di essere una realtà sostanziale, sono sottoposto alla legge di causalità. Insomma, io sono un essere empirico, quindi una rappresentazione. Ma se io sono una rappresentazione in cosa sono rappresentazione? E di cosa lo sono? Risorgono le contraddizioni relative al noumeno kantiano. Come può un essere fuori da spazio e tempo, sostanza e causalità, quantità e qualità conoscere se stesso e il mondo in forma spaziale e temporale? Come può conoscersi e conoscere il mondo come sostanza quali quantitativa, come causa ed effetto? Si può dire che l'albero in se, colpendo i miei organi di senso mi appare in forma spazio temporale, o che la mia mano in se, stimolando i miei organi sensoriali mi appare grande e colorata. Ma, che senso hanno queste affermazioni? L'albero in se è fuori da spazio e tempo, sostanza e causalità, non ha relazione alcuna con i miei organi sensoriali; dal canto loro i miei organi sensoriali sono qualcosa che esiste ed opera nello spazio e nel tempo, sono grandi o piccoli, e colorati, insomma sono parte del mondo empirico come gli alberi e le mani. Il salto dall'in se al fenomeno è sempre troppo ampio.
Nel bel “saggio sulla critica della ragion pura” il filosofo analitico Peter F. Strawson, che pure riconosce il grandissimo valore della prima critica, coglie molto bene questa debolezza del concetto di noumeno inteso non come limite al conoscibile ma come fondamento e causa dei fenomeni. Esattamente come percepisco in forma fenomenica il mondo in se io, come soggetto noumenico, mi conosco fenomenicamente. Kant, ricorda Strawson, fa spesso simili affermazioni. Però, aggiunge il filosofo inglese “l'identità che si deve spiegare – l'identità del soggetto empiricamente autocosciente e del soggetto reale o sopra sensibile – è semplicemente assunta, senza essere minimamente resa più comprensibile. Se le apparenze di X a X si presentano nel tempo, non possono far parte della storia di un soggetto trascendentale soprasensibile che, in quanto tale, non può avere una storia. In altre parole, non possono essere descritte in modo fondato come apparenze per me come IO (soprasensibilmente) sono in me stesso. Il riferimento a me stesso come IO (soprasensibilmente) sono in me stesso cade, in quanto è superfluo e ingiustificato; di conseguenza cade ogni fondamento per affermare che io, nell'autocoscienza empirica, appaio a me stesso diverso da come sono realmente” (4)
Io appaio come non sono ad un essere che non sono. Apparendo fenomenicamente, quindi come non è, l'io noumenico non conosce se stesso, non appare, in senso proprio, a se stesso: questa la conclusione di Strawson. Se la conclusine è fondata (e sembra davvero esserlo) che senso ha parlare del fenomenico come di un "apparire"?
Considerazioni simili possono farsi se si passa dall'analisi dell'io noumenico a quella del mondo noumenico. Questo appare come non è ad un soggetto che non è come appare. Le cose che sono nel mondo acquistano in questo modo caratteristiche assai strane. Io vedo una di queste, ad esempio una sedia. La tocco, sento il rumore che fa strisciando sul pavimento, mi è capitato di inciampare su questa dannata sedia una volta, camminando in una stanza buia. Ma tutto questo non riguarda la sedia noumenica. Questa non la tocco, né la sento, né inciampo in essa. La cosa noumenica non ha nessuna di quelle caratteristiche che fanno di un ente una cosa. Non è nello spazio né nel tempo, non ha relazione alcuna, né diretta né indiretta, con la sensibilità, non è causa né effetto di nulla. Un simile ente è davvero qualcosa?
Ancora una volta, non appena ci si avvicina al baratro che separa l'in se dai fenomeni questo ci appare incolmabile. L'in se si ritrae e scompare, resta il mondo fenomenico, inteso però non come apparenza o percezione o rappresentazione. Inteso come mondo reale. “La vera cosa in se è il fenomeno”. Qualcuno ha cercato in una simile affermazione la chiave per una interpretazione di Kant che elimini dal criticismo ogni traccia di soggettivismo.

Questa eliminazione tuttavia risulta difficile, perché un certo soggettivismo affonda le sue radici in quello che è giustamente considerato uno dei concetti basilari del criticismo: il concetto di sintesi. Che ogni conoscenza sia in una certa misura una sintesi non può, dopo Kant, essere messo in dubbio. Se non collegassi in una rappresentazione unitaria il molteplice dell'intuizione sensibile non avrei in senso proprio una esperienza ma solo un insieme caotico di sensazioni. Se non considerassi unitariamente le mura, il tetto e le finestre non potrei dire che quella che mi sta di fronte è una casa, ed il considerare unitariamente non è mera passività, è attività dell'intelletto, sua capacità sintetica. In questo senso chi parla di sintesi coglie in larga misura nel segno. Ma, una cosa è dire che se io non collegassi in una rappresentazione unitaria le mie sensazioni il mondo per me sarebbe caos, altra cosa è dire che in effetti il mondo è caos e che solo la mia sintesi crea in esso un certo ordine. C'è chi dice proprio questo, forte, occorre ammetterlo, di agganci nell'opera principale di Kant. Il mondo sarebbe caos, caos in cui la sintesi mette ordine. E' il soggetto ad ordinare spazialmente e temporalmente le impressioni sensibili, a collegarle secondo categorie e a costruire in questo modo il mondo. In questa concezione mondo esiste fuori dal soggetto ma non come mondo in cui esistono le case, e le mura, e le finestre, ed i tetti, esiste come caos inintellegibile di sensazioni puntuali che solo grazie alla sintesi del soggetto prendono forma e diventano, appunto, mondo. Lo scetticismo di chi non crede al “fuori di noi” diventa scetticismo di chi crede che non esista nulla di comprensibile, e neppure di intuibile, fuori di noi.
Ma, come osserva giustamente Strawson nel già citato “saggio sulla critica della ragion pura”, l'ipotesi della sintesi creatrice dell'ordine poggia su quella del caos originario, e l'ipotesi del caos originario si basa su quella della sintesi ordinatrice. La sintesi è creatrice dell'ordine perché il mondo è caos, il mondo è caos perché ogni ordine in esso rinvenibile è il risultato di una sintesi: le due tesi si richiamano e si sostengono a vicenda. In realtà ogni sintesi presuppone un certo ordine. Per poter sintetizzare nello spazio e nel tempo qualcosa, occorre che questo qualcosa abbia già una dimensione spaziale e temporale. Io posso collegare la porzione di spazio A con quella B, ed entrambe con le porzioni di tempo T' e T'' solo se A e B, T' e T'' hanno già uno spessore spaziale e temporale, sono già parti di spazio e di tempo. Se il tempo e lo spazio non esistessero al di fuori della sintesi non potrebbe esistere alcuna sintesi spazio temporale per il semplice motivo che non ci sarebbe nulla da sintetizzare. Ed ancora, per poter considerare unitariamente come una casa, tetto e pareti, porte e finestre occorre che queste abbiano un minimo di stabilità e contiguità spazio temporale: se porta, pareti e tetto si trasformassero di continuo in un albero, e poi in un insieme di colori, e poi ancora in sprazzi di luce, quale sintesi potrei mai instaurare fra simili fenomeni? E lo stesso soggetto ordinatore deve a sua volta essere in qualche modo ordinato per poter ordinare, deve essere in qualche modo una sostanza per potersi riconoscere come sostanza e poter riconoscere nel mondo delle sostanze. Se tutto nel mondo è caos e ogni tipo di ordine discende da una sorta di sintesi creatrice dell'ordine, a diventare incomprensibile è proprio questa sintesi.
Ogni costruttivismo presuppone una realtà, oggettiva e soggettiva, in qualche modo già costruita. Si elimini questa e nella stessa sintesi kantiana si intrufola, di nuovo, l'ospite indesiderato, il solipsismo. Si, proprio lui, anche dove sembrava non potersi intrufolare. Perché, se ogni ordine nel mondo è, tutto e per intero, il prodotto di una sintesi soggettiva, come posso ammettere l'esistenza, fuori di me, di Tizio e Caio? Tizio e Caio sono enti strutturalmente ordinati, con una loro permanenza spazio temporale, sono fuori di me ed autonomi da me. Ma, se ogni ordine nel mondo promana dal soggetto perché mai l'ordine che è in Tizio e Caio, e che fa si che essi siano Tizio e Caio, non potrebbe, meglio non dovrebbe essere il prodotto della mia sintesi? La sintesi kantiana è una sintesi intersoggettiva, si potrebbe dire, una sintesi di tutti i soggetti, si, ma per me gli altri soggetti sono in realtà oggetti, enti che hanno un loro ordine sostanziale, una propria permanenza spazio temporale solo grazie alla mia sintesi. Come posso riconoscere tutti i soggetti, quindi gli altri soggetti, capaci come me di sintesi ordinatrice, se sono io a donar loro ordine e sostanzialità con la mia sintesi? Come posso dire che Tizio compie una sintesi simile alla mia se è la mia stessa sintesi ordinatrice che pone in essere quella realtà che chiamo Tizio? Ci imbattiamo in difficoltà simili a quelle cui si è fatto cenno parlando delle “rappresentazioni” di Schopenhauer.
Nel suo capolavoro Kant si scontra spesso con simili problematiche senza riuscire a sciogliere i nodi ad esse connessi. La sua opera si presta così a molteplici interpretazioni, da quelle che vi vedono una forma particolarmente ingegnosa di realismo empirico ad altre, che tendono ad assimilare il criticismo ad un soggettivismo tendenzialmente scettico. Capita a tutte le grandi filosofie di aprire strade diverse, che spesso vanno in direzioni opposte.


Note
1) A. Schopenhauer: Il Mondo come volontà e rappresentazione. RCS quotidiani 2009. pag. 110
2) Ibidem pag. 111
3) Ibidem pag. 141
4) Peter F. Strawson: “Saggio sulla critica della ragion pura”. Laterza 1985 pag. 236-237.







2  -  WITTGENSTEIN E IL SOLIPSISMO LINGUISTICO

Nel Tractatus Ludwig Wittgenstein non parla solo di logica. Al centro dei suoi interessi sta il rapporto fra linguaggio logico e mondo. Parlando di questo rapporto però, anche lui si trova a fare brevemente i conti con “l'ospite indesiderato”, che però per il filosofo viennese non è affatto tale. Caso abbastanza raro Wittgenstein affronta il solipsismo chiamandolo per nome e lo analizza con grande acutezza, nel suo inconfondibile, e bellissimo, stile telegrafico.
“Ciò che il solipsismo intende è del tutto corretto” afferma Wittgenstein” e prosegue: “che il mondo è il mio mondo si mostra in ciò: che i limiti del linguaggio (il solo linguaggio che io comprendo) significano i limiti del mio mondo. Il mondo e la vita sono tutt'uno” (1)
Affermando che il limite del linguaggio è il limite del mio mondo Wittgenstein conferisce forma linguistica al solipsismo. Come per il soggettivista non si può uscire dalle rappresentazioni per il solipsista linguistico non si può uscire dal linguaggio. Sappiamo che la affermazione che il mio linguaggio è il solo che io comprenda contrasta con la critica del linguaggio privato che in un secondo momento Wittgenstei condurrà nelle “ricerche filosofiche”, ma possiamo tralasciare ora questo dettaglio. Seguiamo invece Wittgenstein nella sua analisi del solipsismo.
Il solipsismo fa per Wittgenstein affermazioni corrette ma, quali sono le loro conseguenze? Appena si misura con queste Wittgenstein mostra che il suo solipsismo è del tutto particolare. Per il solipsista il mondo non esiste se non nel soggetto, in me. Ma, afferma Wittgenstein “Il soggetto che pensa, immagina, non v'è. Se io scrivessi il libro: il mondo come lo trovai, vi si dovrebbe riferire anche del mio corpo e dire quali membra sottostiano alla mia volontà, e quali no, eccetera, e questo è un metodo di isolare il soggetto, o piuttosto di mostrare che, in un senso importante, il soggetto non v'è: D'esso soltanto infatti non si potrebbe parlare in questo libro. Il soggetto non appartiene al mondo ma è un limite del mondo” (2)
Il soggetto non appartiene al mondo. Il rapporto fra soggetto e mondo è simile a quello fra occhio e campo visivo. Ciò che non vediamo mai nel campo visivo è proprio l'occhio. Allo stesso modo il soggetto metafisico, quello in cui esistono le rappresentazioni, quello che vede e sente e pensa e parla non appare mai nel mondo, è sempre fuori dalle rappresentazioni. “Il solipsismo, svolto rigorosamente, coincide col realismo puro. L'io del solipsismo si contrae in un punto inesteso e resta la realtà coordinata ad esso” (3)
Il soggetto è il limite del mondo, non è nel mondo. Non il soggetto empirico ovviamente, le nostre mani o le nostre gambe sono nel mondo, cose fra cose; non è nel mondo il soggetto metafisico, l'io pensante e senziente, quello in cui sono le percezioni, le sensazioni, i pensieri. Per Cartesio l'autocoscienza del me pensante è la base di ogni conoscenza; nella “confutazione dell'idealismo” Kant contesta la posizione di Cartesio: la coscienza del mio me è possibile solo se sono in rapporto con un mondo oggettivo, dotato di almeno un certo grado di stabilità.. Wittgenstein rovescia invece la posizione di Cartesio. L'io pensante non costituisce affatto l'unica evidenza, al contrario questo io non può essere percepito in alcun modo. E così viene espulso dal mondo, cessa di esserne la base per diventarne il limite, limite che mai può essere oggetto di conoscenza alcuna. Il solipsismo più rigoroso si trasforma nel più rigoroso realismo, un realismo del tutto oggettivo, privo di soggetto. Comunque lo si prenda il solipsismo distrugge qualcosa di essenziale. Nella sua versione classica distrugge il mondo, nella personalissima versione di Wittgenstein distrugge il soggetto.

Le considerazioni di Wittgenstein sul solipsismo e, più in generale sul soggetto, non possono essere comprese pienamente se non si approfondisce un elemento centrale del pensiero del filosofo viennese: la distinzione fra dire e mostrare. Per Wittgenstein il linguaggio è una immagine del mondo, una immagine in senso abbastanza stretto, come una carta topografica è una immagine del territorio. Le proposizioni del linguaggio sono immagini degli stati di cose, le combinazioni fra proposizioni, immagini delle combinazioni fra stati di cose. Per Wittgenstein “il mondo è tutto ciò che accade” e “la totalità dei fatti determina ciò che accade ed anche ciò che non accade” (4). Il linguaggio quindi raffigura tutti i fatti possibili che possono accadere, raffigura il mondo nella sua totalità. Tutto ciò che nel linguaggio raffigura il mondo può essere detto. “Dire” significa raffigurare in una proposizione qualcosa che accade nel mondo. Tutto ciò che accade può essere detto.
Ma c'è qualcosa che il linguaggio non può raffigurare, quindi non può dire: il rapporto fra se stesso ed il mondo.
Se il linguaggio è raffigurazione del mondo, qualsiasi cosa il linguaggio dica fa parte di questa raffigurazione, quindi non può esplicitare il rapporto fra raffigurazione e cosa raffigurata. Se guardo la foto di un paesaggio posso scorgere in questa tutti i particolari del paesaggio ma non il rapporto fra il paesaggio e la foto. Poniamo che io veda nella foto la scritta: “questa è una foto” e dica: “questa scritta rappresenta il rapporto fra foto e realtà”. Direi una cosa sensata? No, ovviamente, perché quella scritta sarebbe parte della raffigurazione del paesaggio, lo sarebbe per il solo fatto di essere stata fotografata. Se invece fosse una scritta non fotografata ma aggiunta a mano da qualcuno essa sarebbe estranea alla forma foto. Wittgenstein chiama forma logica ciò che accomuna il linguaggio al mondo e fa si che una certa combinazione di proposizioni nel linguaggio raffiguri una certa combinazione di fatti nel mondo. La proposizione non può dir nulla sul suo rapporto col mondo, quindi sulla forma logica che la accomuna al mondo. Per farlo dovrebbe uscire da se stessa, osservare se ed il mondo per così dire, dall'esterno. “La proposizione può rappresentare la realtà tutta, ma non può rappresentare ciò che, con la realtà, essa deve avere in comune per poterla rappresentare: la forma logica. Per poter rappresentare la forma logica dovremmo poter situare noi stessi con la proposizione fuori dalla logica, vale a dire, fuori dal mondo!” (5)
Ma se la forma logica non può esser detta può essere mostrata. Parlando del mondo il linguaggio mostra il suo rapporto col mondo, evidenzia nell'uso ciò che lo accomuna al mondo e che ne rende possibile la raffigurazione linguistica: “La proposizione mostra la forma logica della realtà. L'esibisce. (…) se due proposizioni si contraddicono, lo mostra la loro struttura; e così pure se l'una segue dall'altra e così via. Ciò che può esser mostrato non può essere detto” (6)
Per il solo fatto di parlare mostro che il mio linguaggio si riferisce al mondo e mostro ciò che accomunando linguaggio e mondo rende possibile questo riferimento. Questo “mostrare” riguarda in Wittgenstein linguaggio e la forma logica, e, appunto per questo, il mondo ed il soggetto. Parlando del solipsismo Wittgenstein aveva detto, lo si è già visto, che questo è del tutto corretto, però, aggiunge, il solipsismo non si può dire ma solo mostrare. Il perché è chiaro: Il linguaggio è formato da proposizioni combinate fra loro che raffigurano i fatti, anch'essi combinati fra loro, del mondo. Ora fra i fatti del mondo può trovarsi tutto meno che il soggetto metafisico, questo è fuori del mondo, e ancora meno può trovarsi nei fatti del mondo la rappresentazione delle cose nella coscienza degli esseri umani. Il solipsismo mostra se mostrando i fatti raffigurati nel linguaggio. Per gli stessi motivi il linguaggio non può dir nulla sulla esistenza del mondo. Il mondo è tutto ciò che accade, è l'insieme degli eventi ma, ovviamente, nessun evento può esser definito “esistenza del mondo”, quindi nessuna proposizione lo può raffigurare. Nulla si può dire sulla esistenza del mondo ma questa non è affatto oggetto di dubbio perché il mondo mostra se, mostra se, precisamente, negli eventi che lo costituiscono; il nostro rapporto con questo mostrarsi del mondo Wittgenstein lo chiama: il mistico. “Non come il mondo è è il mistico, ma che esso è. Intuire il mondo sub specie aeterni è il mistico. Sentire il mondo quale tutto limitato è il mistico” (7)
Il mondo mostra la sua esistenza, porsi delle domande su questa è insensato, quindi è insensato per Wittgenstein, lo scetticismo. Lo scetticismo si pone domande su argomenti di cui non si può parlare perché su questi nulla si può dire, invece, “dubbio può sussistere solo ove sussiste una domanda; domanda solo ove sussiste una risposta; risposta solo ove qualcosa può essere detto” (8)
E così, partendo dalla accettazione del solipsismo, Wittgenstein dapprima conferisce forma linguistica al solipsismo (il limite del mio linguaggio è il limite del mondo), trasforma poi il soggettivismo solipsista nel più rigoroso realismo, infine relega il dubbio nel campo dell'insensato, perché nulla è più privo di senso che il dubitare di ciò che non si può dire.

Il rifiuto dello scetticismo è però per Wittgenstein parte del più generale rifiuto di ogni forma di metafisica. Soggetto, oggetto, rapporto fra linguaggio e mondo, fra mondo e soggetto, esistenza del mondo sono tutte cose di cui nulla si può dire. Quando affronta certi argomenti il linguaggio gira per così dire a vuoto, perde significato. Però... però se questo è vero allora lo stesso discorso di Wittgenstein è un “girare a vuoto”. Il Tractatus parla del rapporto fra mondo e linguaggio, perché definire il linguaggio una immagine del mondo è, precisamente, affrontare il problema del rapporto fra linguaggio e mondo. Ed ancora, dire che il soggetto metafisico si contrae in un punto inesteso, scompare e resta solo il mondo, significa, di nuovo, parlare di ciò che non può essere detto, e la stessa critica allo scetticismo ed alla sua pretesa di far domande ove non si può domandare si avventura, anche lei, in un terreno che dovrebbe essere quello del silenzio. Insomma, se ciò che dice Wittsenstein è vero allora il Tractatus è privo di senso. Questa è del resto la conclusione cui giunge lo stesso filosofo viennese, e che espone nella bellissima fase conclusiva del suo capolavoro: “Le mie proposizioni illustrano così: colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è salito per esse – su esse – oltre esse. (egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che vi è salito). Egli deve superare queste proposizioni; allora vede rettamente il mondo. Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere” (9)
Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere: così si conclude il Tractatus. Vedere rettamente il mondo coincide col considerare insensate le proposizioni che ci hanno consentito questa retta visione del mondo. E' difficile non subire il fascino della prosa di Wittgenstein, bellissima nella sua scarna essenzialità. Però non è possibile non vedere i problemi che questa pone. Come può il non senso aiutarci a vedere rettamente il mondo? Se davvero non è possibile parlare del rapporto fra linguaggio e mondo, e se davvero è insensato porsi domande sull'esistenza del mondo e sul suo rapporto con noi, la stessa decisione di collocare nel non dicibile tutti questi argomenti non può a sua volta essere detta. Non può essere detta neppure una volta. Non si può invitare chi è salito a buttare la scala, dopo averla usata. Se la scala si colloca nella dimensione del non senso allora non può venire usata mai.
Il problema del Tractatus è un po' lo stesso che stiamo affrontando sin dalle prime righe di questo lavoro, che non a caso si è aperto con l'analisi del paradosso del mentitore. Ogni nostro rapporto col mondo è, deve essere, sempre parziale, deve sempre lasciare qualcosa fra parentesi. Wittgenstein ha ragione: mentre parlo del mondo devo dare per scontato il rapporto fra linguaggio e mondo; quando da soggetto mi rapporto al mondo non posso che assumere come dato non analizzabile il fatto che io ed il mondo ci possiamo rapportare. La forma logica del linguaggio, la sua comprensibilità, la sua possibilità di descrivere il mondo mostra se quando uso un linguaggio, mostra se, non è detta. Ma questo è sintomo di una generale non dicibilità del rapporto linguaggio - mondo? O non è possibile, in fondo, al linguaggio uscire da se stesso, e osservare il suo rapporto col mondo? Non può il parlante porsi in un metalinguaggio ed esaminare da quello alcuni rapporti fra linguaggio, o un linguaggio, ed il mondo, o una parte del mondo? Ed ancora, non può il linguaggio, mettendosi a lato di se stesso, approfondire il discorso su se ed il mondo? Proposizioni come “il mondo esisteva quando io non c'ero”, o giudizi del tipo “Quella azione è infame”, o ancora domande come: “l'esperienza è davvero retta dalla causalità?” o: “esiste Dio?” non possono riferirsi ad alcun fatto del mondo, eppure noi le formuliamo e le comprendiamo, è un fatto che le formuliamo e che le comprendiamo, il senso di queste frasi mostra se, è immediatamente evidente. Wittgenstein mostra il massimo rispetto per i problemi che emergono da simili frasi, ma mette entrambi, frasi e problemi, nel campo di ciò che non può essere detto. Ma se qualcosa noi la comprendiamo, davvero ci è impossibile dirla? Certo, queste ultime considerazioni sono probabilmente abbastanza incompatibili con la visione del linguaggio come immagine del mondo, ma forse non è un caso se questa concezione, pure estremamente interessante, sia stata corretta dallo stesso Wittgenstein nelle fasi ulteriori della sua ricerca.

Resta ancora una considerazione da fare. Il solipsismo linguistico di Wittegenstein coincide, lo si è già sottolineato, col più rigoroso realismo. Il solipsismo si mostra come insieme di fatti raffigurati da un insieme di proposizioni. Questo mostrare lascia fuori qualcosa di importante, lo si è visto. Lascia fuori tutte le considerazioni generali sul mondo e sul linguaggio e sul soggetto e l'oggetto, e la mente e il corpo, e tante altre cose ancora. Lascia fuori lo stesso discorso sul solipsismo come concezione del mondo. Insomma, lascia fuori quella che si è definita per secoli metafisica o, semplicemente, filosofia. E neppure Wittgenstein è in grado di restare fedele alla consegna del silenzio che lui stesso pronunciata. Ma il solipsismo senza soggetto di Wittgenstein nel suo mostrarsi lascia fuori qualcos'altro, una parte importante della nostra esperienza che, anch'essa, mostra se, in qualche modo. Si tratta della coscienza del me pensante e vivente. Non, cartesianamente, una coscienza originaria cui attribuire l'unica certezza a cui potremmo aspirare, tuttavia qualcosa che si sente, e che mostra se in noi. Forse non saremo in grado di dirlo ma il mondo non è solo la totalità dei fatti, e il soggetto non compare solo in forma oggettivata nei fatti del mondo. Esiste e si mostra nel mondo qualcosa che mi dice che “io sono vivo”, sono presente a me stesso, qualcosa che fa ”mie“ le esperienze che faccio. Il soggetto è fuori del mondo, ne costituisce il limite? Forse, ma sente di esserci, la coscienza del suo se è ingrediente fondamentale della nostra esperienza.


Note
1) L. Wittgenstein: Tractatus logico philosophicus. Einaudi 1984 pag. 63
2) Ibidem pag. 64.
3) Ibidem pag 64.
4) Ibidem pag. 5
5) Ibidem pag. 28
6) Ibidem pag. 29
7) Ibidem pag. 81
8) Ibidem pag. 81
9) Ibidem pag. 82
















Nessun commento:

Posta un commento