giovedì 31 ottobre 2013

IL GRANDE INQUISITORE. DOSTOEVSKIJ E IL MALE




Quasi tutti i critici considerano l’episodio del dialogo fra Alesa e Ivan come la parte più bella del capolavoro di Dostoevskij “I fratelli Karamazov”, l’autentico apogeo e forse la chiave di lettura del grande romanzo. I due fratelli si incontrano in una trattoria e, dopo aver scambiato alcune parole su loro stessi, sul padre e sul fratello Dimitri, affrontano un problema di rilevanza estrema: l’esistenza di Dio.
Ivan Karamazov non nega l’esistenza di Dio. Può essere che Dio esista, anzi di certo egli esiste, ed esiste certamente un disegno divino volto ad instaurare nel mondo una superiore armonia, giustizia assoluta e universale felicità; ma, “immagina ora”, afferma Ivan rivolto ad Alesa, “che questo mondo creato da Dio, nel suo risultato finale, io non lo accetti e benché sappia che Egli esiste, non possa assolutamente approvarlo. Non è che non accetti Dio, intendi bene questo punto: è il mondo da lui creato, questo mondo di Dio che io non accetto e non posso piegarmi ad accettare. Mi spiego meglio: io sono convinto come un bambino che i dolori si rimargineranno e dilegueranno, che tutta l’avvilente commedia delle contraddizioni umane svanirà come un pietoso miraggio (…) che da ultimo, nel finale universale, nel momento della eterna armonia, avverrà e si svelerà qualcosa di tanto prezioso, che sarà sufficiente a bilanciare tutti i corrucci, a placare tutti gli sdegni, a riscattare tutti i delitti degli uomini, tutto il sangue sparso da loro, e sarà sufficiente non solo a perdonare, ma perfino a giustificare tutto ciò che è accaduto nella storia degli uomini; si, si, tutto questo avvenga pure e si sveli; ma io non lo accetto e non voglio accettarlo!” (1).
Il disegno divino è sublime, si colloca su un piano immensamente più elevato di quello accessibile alla ragione umana, un po’ come le geometrie non euclidee ci parlano di uno spazio di cui l’umana sensibilità non riesce a farsi una rappresentazione. Ma Ivan, il limitato, “euclideo” essere umano Ivan Karamazov, non può né, soprattutto, vuole accettare questo disegno, perché? La sublime bellezza del disegno divino si scontra con un fatto, un fatto duro che non è possibile rimuovere, un fatto che non si fa riassorbire in alcuna superiore armonia: il dolore, il dolore degli innocenti, dei bambini. “Posto che tutti si debba soffrire, per comprare a prezzo di sofferenza la futura armonia, che c’entrano però i bambini, me lo dici tu per favore? E’ assolutamente incomprensibile perché debbano soffrire anch’essi e perché, essi, debbano comprare quell’armonia con le sofferenze” (2). Paghi chi è colpevole di qualcosa per la futura, universale felicità; è comprensibile la solidarietà nel peccato fra i peccatori, ma perché deve pagare chi è innocente, chi non ha mai fatto male alcuno? Ivan narra ad Alesa la storia del piccolo servitore di un potente signore; il fanciullo, di non più di otto anni, tirando un sasso inavvertitamente ferisce la zampa di uno dei levrieri del padrone. Furibondo il signore fa sbranare il povero bimbo dalla muta dei suoi cani. Ecco, questo evento, questo evento terrificante, non quadra, non si accorda con alcuna armonia, rende impossibile ogni pacificazione, ogni universale perdono. “Certo, quando la madre s’abbraccerà con l’aguzzino che ha fatto sbranare dai cani il figlio suo, e tutt’e tre inneggeranno fra le lacrime: giusto sei tu o signore, allora si toccherà l’apice della conoscenza e tutto sarà chiarito. Ma appunto qui è l’inciampo, appunto questo io non posso accettare (…) a questa suprema armonia oppongo un netto rifiuto. Non vale essa le povere lacrime foss’anche di quel bambino solo (…) non vale, perché queste piccole lacrime rimarranno irriscattate (…) io non voglio insomma che la madre s’abbracci col carnefice che ha fatto sbranare suo figlio dai cani! Essa non deve osare perdonargli! (..) le sofferenze di quel bambino sbranato essa non ha il diritto di perdonarle (…) esiste forse, in tutto l’universo un essere che avrebbe la possibilità e il diritto di perdonare?” (3).

Chi ha diritto di perdonare? Si chiede, per bocca di Ivan, Dostoevskij e basta questa domanda per misurare la distanza abissale che separa il grande romanziere dal buonismo imbecille dei nostri giorni in cui invece tutti si pongono, senza pensarci su troppo, la domanda opposta: “chi ha diritto di condannare?”. Pace, armonia, perdono, amore universale! Che belle parole, che nobili ideali, ma… e le vittime? E le vittime innocenti, le loro lacrime, il loro sangue? Non rovinano quelle lacrime e quel sangue l’armonia, il perdono, la pace?
“Supponi” chiede Ivan ad Alesa “che fossi tu stesso ad innalzar l’edificio del destino umano, con la meta suprema di render felici gli uomini, di dar loro, alla fine, la pace e la tranquillità: ma, per conseguire questo, si presentasse come necessario e inevitabile far soffrire per lo meno solo una minuscola creatura (..) e sulle sue invendicate povere lacrime fondare codesto edificio: consentiresti tu a esserne l’architetto a queste condizioni? Parla senza mentire.
- No, non consentirei – disse piano Alesa” (4)
Alesa risponde no alla domanda del fratello e quel no costituisce un colpo formidabile non solo a tutte le etiche fondate sull’utilitarismo ma anche, soprattutto direi, ad ogni forma di futurismo rivoluzionario. In questo brano splendido Dostoevskij sembra intravedere il futuro del suo paese, quando non uno ma milioni di bambini (e non solo di bambini) saranno condannati ad atroci sofferenze in nome della illusoria e mai realizzata felicità delle future generazioni. Ma Alesa non si limita a rispondere no, replica al fratello: per Alesa esiste un uomo che ha il diritto di perdonare: Gesù Cristo. Lui può perdonare, può farlo perché, assolutamente innocente, si è fatto carico dei peccati di tutti, li ha presi su di sé ed ha pagato per tutti, per tutti i colpevoli della storia (solo Dio può perdonare, di nuovo si noti la differenza fra il pensiero di Dostoevskij ed il chiacchiericcio di chi oggi afferma esattamente il contrario: solo Dio può condannare).
Ivan risponde al fratello parlandogli di una cosetta che gli frulla in mente, un poema che intende scrivere e di cui ha deciso il titolo: Il grande inquisitore.
 
Cristo decide di tornare fra gli uomini e compare a Siviglia al tempo dei grandi processi agli eretici, nel periodo più pauroso dell’inquisizione. Cristo appare alla folla che subito lo riconosce e lo acclama. Ma l’inquisitore, un vecchio quasi novantenne, praticamente signore assoluto della città, ordina che sia arrestato, lo fa imprigionare e si reca da lui in cella, vuole parlargli.
“Perché tu sei venuto a darci impaccio?” chiede il vecchio a Cristo che lo guarda silenzioso, ed aggiunge: “domani stesso io ti condannerò e ti brucerò sul rogo come il peggiore degli eretici, e quello stesso popolo che oggi baciava i tuoi piedi domani, ad un mio semplice cenno, si precipiterà ad accostare le braci al rogo” (5). Perché l’inquisitore vuole bruciare Cristo come eretico? E’ un malvagio? Teme che il ritorno di Cristo fra gli uomini possa incrinare il suo potere assoluto? No, le sue motivazioni sono ben più complesse. Cristo pretende che gli esseri umani credano in lui per libera scelta, che la fede sorghi dalla interiorità, senza costrizione alcuna. Ma questo per il grande inquisitore è un ideale troppo elevato, non adatto agli uomini. Gli uomini, almeno, la stragrande maggioranza degli uomini, non amano la libertà. La libertà è un fardello troppo grande da portare, implica scelta, responsabilità, fatica. La fede non può fondarsi sulla libera scelta. “Tu hai voluto il libero amore dell’uomo” prosegue il grande inquisitore “hai voluto che liberamente ti seguisse, attratto e soggiogato da te. Al posto della vecchia, solida legge, con libero cuore l’uomo doveva d’ora innanzi decidere lui stesso che cosa fosse bene e che cosa male, senz’avere innanzi a sé altra guida che la tua immagine: ma possibile mai che tu non abbia pensato ch’egli avrebbe rigettato infine e addirittura contestato sia la tua immagine sia la tua verità, se si fosse trovato oppresso da un peso così tremendo come il libero arbitrio?”(6).

L’uomo è ribelle ma è un ribelle che non aspira ad altro in fondo che a trovare un nuovo padrone, è un individualista che tende ad unirsi al gregge. Nel momento stesso in cui si ribella l’uomo desidera, nel suo intimo, genuflettersi. Ridiamo la parola al grande inquisitore: “Non c’è nulla di più ammaliante per l’uomo che la libertà della propria coscienza: ma non c’è, del pari, nulla di più tormentoso. Ed ecco che, invece di solidi fondamenti capaci di tranquillare la coscienza dell’uomo una volta per sempre, tu hai scelto tutto ciò che c’è di più difforme, di più misterioso, di più indefinito: hai scelto tutto ciò che è superiore alle forze degli uomini: e perciò hai finito per agire come se addirittura non li amassi affatto” (7). Cristo avrebbe dovuto dare pane agli uomini, non parlar loro di libertà, e, dando loro il pane avrebbe dovuto apparire potente ai loro occhi, rispondere all’umana aspirazione a genuflettersi. L’uomo aspira al pane, ed aspira alla protezione di una autorità indiscussa ed indiscutibile, una autorità che lo sollevi dalla terribile responsabilità della scelta, che sollevi tutti da questa terribile responsabilità, “giacché la preoccupazione di queste misere creature non consiste solo nel cercare qualche cosa di fronte alla quale io o un altro qualunque possiamo genufletterci ma nel cercare una cosa tale che anche tutti gli altri credano in essa e vi si genuflettano, anzi, più precisamente, tutti quanti insieme.” (8).


In nome della libertà gli uomini non seguiranno Cristo ma lo abbandoneranno, lo abbandoneranno per prostrasi fronte a nuovi idoli. Ma torneranno da noi, dice il grande inquisitore, se noi saremo per loro una autorità più forte, più protettiva, più totalizzante ed assoluta di quella che promana dai nuovi idoli. “Ci sono tre forze”, afferma l’inquisitore, “soltanto tre forze sula terra capaci di vincere e di catturare per sempre la coscienza di questi impotenti ribelli, per la loro stessa felicità: e queste tre forze sono il miracolo, il mistero e l’autorità. Tu hai rifiutato la prima, la seconda e la terza” (9).
L’autorità: per dare pane agli esseri umani e proteggerli da loro stessi, per renderli schiavi ed insieme felici, il mistero: per impedire che qualcuno possa incrinare i fondamenti stessi dell’autorità, il miracolo: per dare forza indiscutibile all’autorità ed al mistero. Cristo ha rifiutato tutto questo. Cristo ha parlato anche di pane ma non ha promesso pane, ha promesso la liberazione nel regno; Cristo non ha fondato un movimento politico (date a Cesare quel che è di Cesare..); Cristo ha fatto alcuni miracoli ma non ha fondato sul miracolo la sua predicazione. Cristo è risorto quasi in sordina, senza apparire, risorto, alle masse, soprattutto Cristo non ha fatto il più grande dei miracoli: non è sceso dalla croce. “Tu non sei disceso dalla croce” gli rinfaccia il grande inquisitore “quando ti gridavano, pigliandosi beffe di te: - scendi dalla croce e crederemo che sei tu -. Tu non sei disceso perché, ancora una volta, non volesti asservire l’uomo col miracolo, e bramavi una fede libera e non una fede vincolata al miracolo” (10). Se Cristo fosse sceso dalla croce avrebbe vinto, non è sceso ed è stato sconfitto, malgrado la resurrezione. Gli inquisitori però hanno rimediato agli errori sublimi di Cristo, hanno fondato una autorità formidabile che protegge con amore quei bambini scapestrati che sono gli esseri umani, toglie loro ogni libertà al solo fine di renderli felici. Così facendo gli inquisitori non servono più Cristo, servono Satana, servono lui, Satana, anche se questo li fa soffrire orribilmente. Gli inquisitori tolgono satanicamente all’uomo ogni libertà e soffrono nel fare questo, ma devono farlo, devono farlo perché loro amano l’uomo, mentre Cristo non ama l’uomo, Cristo rende infelice l’uomo con l’ assurda pretesa della libertà.
“Noi non siamo con te, siamo con lui”(11), rivela a Cristo l’inquisitore e lavorando con lui lavoriamo per la felicità umana. E la tirannia degli inquisitori sarà insieme dolce e spietata “ noi li obbligheremo a lavorare, ma nelle ore libere dal lavoro daremo alla loro vita come un assetto da gioco infantile, con canzoni da bambini cori e danze innocenti. Oh, noi permetteremo loro anche il peccato; sono così fragili e impotenti; e loro ci vorranno bene come bambini per il fatto che permetteremo loro di peccare” (12). Cori e danze innocenti, permesso di peccare e, insieme, i roghi, il carcere, il controllo totale sulla vita degli esseri umani, il tutto per la loro felicità! E Dostoevskij scrive queste cose prima dell’esperienza tragica dei grandi totalitarismi del ventesimo secolo! Il suo è davvero uno sguardo d’aquila!
Cristo non dice una parola, si limita a fissare l’inquisitore con occhi fiammeggianti. Quando questi finisce di parlare gli si avvicina e lo bacia. L’inquisitore è sconvolto da quel gesto, guarda Cristo negli occhi e gli grida di andarsene, di andarsene per non tornare mai più. Malgrado il fuoco che gli brucia dentro egli è sempre convinto di quanto ha detto. Se Cristo tornerà lo farà bruciare.


Mi scuso con chi ha la pazienza di leggermi se il mio breve riassunto non riesce, malgrado le citazioni, a rendere giustizia, neppure in minima parte, della bellezza di questo eccelso brano di letteratura filosofica; mi scuso e torno ai fratelli, ad Alesa e Ivan
Alesa protesta: la rappresentazione di Ivan è parziale e distorta, al massimo può andar bene per la Chiesa cattolica (è nota l’ostilità di Dostoevskij per il cattolicesimo). Altro che grandi inquisitori che opprimono gli uomini per renderli felici! Altro che profondi tormenti spirituali che li assillano! Quello a cui mirano questi personaggi altro non è che il potere terreno, la gloria del mondo. Della felicità umana a costoro non interessa un bel niente. Il poema di Ivan non è un attacco a Cristo, è una splendida apologia di Cristo! Ma Ivan non si lascia convincere. Può essere che gli inquisitori in carne ed ossa non siano affatto interessati alla felicità degli uomini, è molto probabile anzi che le cose stiano così, ma, non è possibile che per alcuni, magari per uno solo, il discorso sia diverso? E questo non basta a rendere quanto meno possibile il fosco quadro tracciato nella leggenda del grande inquisitore? Il problema, più che dalle intenzioni degli inquisitori è rappresentato dalla natura dell’uomo. Il discorso era partito dal male, dal disegno divino che si scontra col fatto della sofferenza degli innocenti. “Chi ha diritto di perdonare?” si era chiesto Ivan ed Alesa gli aveva risposto. “Cristo ha diritto di perdonare”. Ma Cristo sbaglia tutto afferma il grande inquisitore, il suo ideale sublime non va bene per gli uomini. Nella storia Cristo è sconfitto, ad essere vincenti sono gli inquisitori. Il sacrificio di Cristo non riscatta la sofferenza degli innocenti perché gli uomini non riescono neppure a capire il messaggio di liberazione che sottostà a quel sacrificio. E così resta il fatto della sofferenza degli innocenti, un duro fatto che continua a farci apparire il disegno divino inaccettabile, inaccettabile prima ed oltre che inesplicabile.
“Ma come farai a vivere?” chiede angosciato Alesa al fratello “con un simile inferno nel petto e nel cervello?” (13). Ma Ivan ha la forza di resistere: ha la forza dei Karamazov, della "bassezza karamazoviana".
“Nel senso allora che tutto è permesso?” ribatte Alesa e Ivan dà al fratello la risposta conclusiva: “Si, vada pure, tutto è permesso, giacché la parola è stata detta. Non la ritratto” (14)
Tutto è permesso. Nessuno può riscattare il male del mondo, la presenza tragica della sofferenza degli innocenti rende non solo vana ma addirittura immorale la speranza, quindi si può vivere al di la del bene e del male. Questa è la conclusione della filosofia morale di Ivan Fedorovic Karamazov. La si può condividere o meno ma, come sarebbe bello se tanti nichilisti dei nostri giorni avessero una tale profondità di pensiero!
 
Alesa afferma, contro Ivan, che uomini come il grande inquisitore non hanno alcun interesse per la felicità degli esseri umani, non sono affatto scossi da particolari tormenti interiori, mirano solo al potere. La risposta di Alesa ricorda un altro inquisitore: quello di “1984” di George Orwell. “Vogliamo il potere, il potere allo stato puro” afferma l’inquisitore orwelliano e prosegue: “il potere è un fine, non un mezzo. Non si instaura una dittatura al fine di salvaguardare una rivoluzione: si fa la rivoluzione proprio per instaurare la dittatura. Il fine della persecuzione è la persecuzione, il fine della tortura è la tortura, il fine del potere è il potere” (15). E’ discutibile l’affermazione di Orwell anche se contiene molta verità. E’ discutibile perché rischia di mettere in ombra la componente fanatica di tutti i grandi totalitarismi. I grandi totalitari, specie i pionieri del totalitarismo, sono imbevuti di fanatismo. La sete di potere è in loro strettamente intrecciata con l’anelito a cambiare radicalmente il mondo e l’uomo; l’amore per la nazione, o la classe operaia, o i “dannati della terra”, si confonde in loro con la più radicale disumanità. I fanatici del totalitarismo amano l’uomo e fanno a pezzi gli uomini, sono schizofrenici oltre che fanatici, meglio, sono schizofrenici perché fanatici. Solo dopo arrivano i tiranni attaccati solo al potere e a tutto ciò che il potere permette loro di ottenere.

L’immagine del grande inquisitore di Ivan Karamazov è in effetti realistica, oltre che agghiacciante, è realistica e premonitrice. Il ventesimo è stato il secolo dei grandi inquisitori, ammalianti personaggi che hanno urlato parole d’ordine, o discettato filosoficamente con incomparabile profondità sul futuro del genere umano, stando comodamente seduti su montagne di cadaveri. Eppure c’è qualcosa che non quadra nell’immagine di Ivan. Il suo inquisitore ci appare in fondo troppo potente, i fili della sua logica sottile appaiono troppo forti, i suoi ragionamenti troppo inconfutabili. Se davvero gli esseri umani fossero così come li descrive il grande inquisitore varrebbe la pena di renderli felici? Perché costruire la grandiosa rete di inganni di cui parla l’inquisitore? Perché patire profondi tormenti spirituali, perché mentire e provar rimorso delle proprie menzogne? Perché tutto questo? Per rendere felici dei bambini capricciosi? Degli esseri stupidi sempre pronti a strillare per reclamare libertà e sempre pronti a barattare la libertà per un piatto di lenticchie? Se l’uomo fosse davvero come il grande inquisitore lo descrive, se lo fosse integralmente e senza riserve, meriterebbe di essere schiavo, esplicitamente schiavo, senza abbellimenti: preoccuparsi della sua felicità sarebbe una perdita di tempo.
Se l’immagine del grande inquisitore fosse solo e integralmente realistica, se il suo realismo fosse privo di incrinature, questa immagine non dovrebbe farci paura, non dovrebbe essere una immagine agghiacciante. Invece quel novantenne ci riempie di sgomento ed il solo pensare di essere dominati da lui, di vivere nella Siviglia descritta da Ivan Karamazov ci fa paura. Qualsiasi essere umano anche minimamente capace di pensare non vorrebbe vivere nella Siviglia del grande inquisitore e questo piccolo fatto dimostra che gli esseri umani sono si, molto spesso, stupidi, sono, a volte, pronti a barattare la propria libertà per un piatto di lenticchie, temono, è vero, la scelta e la responsabilità, sono e fanno tutte queste cose ma, malgrado ciò, sono liberi. L’uomo può temere la libertà, può barattarla, può disprezzarla perché intanto è libero, è libero nell’atto stesso di rinunciare alla propria libertà. La libertà è importante per l’uomo perché solo presupponendosi libero l’uomo può considerare davvero sua la vita che vive. Io agisco, penso, parlo, mi relaziono con altri e tutte queste attività, relazioni, pensieri sono qualcosa di mio perché sono libero. Se non sono libero la vita che vivo non è la mia vita. E se è vero che molte volte gli uomini dimostrano di non amare troppo la libertà, o addirittura di temerla, è anche vero che si sentono soffocare quando ne perdono troppa, di libertà, quando davvero la contrazione della libertà si mostra loro per ciò che realmente è: contrazione della propria vita autonoma.
Ecco perché oltre all’autorità, al mistero ed al miracolo l’inquisitore fa ricorso al carcere ed ai roghi. Gli inquisitori possono anche pensare di far felici gli esseri umani, possono contare sul desiderio dell’uomo a genuflettersi ma basano comunque il loro potere sui roghi e sulla tortura, sui lagher ed i plotoni d’esecuzione. La repressione è componente essenziale di ogni regime totalitario, non una sua caratteristica accidentale. E si tratta di una repressione vasta, capillare, crudele. Il sangue ed il sadismo costituiscono il cemento che tiene uniti mistero autorità e miracolo, ed ogni inquisitore è, nel suo intimo, un sadico. Ed ecco infine perché i grandi totalitarismi del ventesimo secolo sono alla fine crollati. E se il loro crollo non può farci indulgere in semplicistici ottimismi (già abbiamo altri totalitarismi con cui fare i conti, basti pensare all’integralismo islamico), può quanto meno indurre in noi un pizzico, solo un pizzico, di ottimismo.

Quali che sino però le interpretazioni della leggenda del grande inquisitore il quesito posto da Ivan nella prima parte del colloquio con Alesa resta però senza risposta. “Chi ha diritto di perdonare?” si era chiesto Ivan, “Cristo ha questo diritto” aveva risposto Alesa, lo ha perché lui, innocente, ha preso su di sé i peccati di tutti. Ma davvero la risposta di Alesa risolve il problema? Per Ivan no, per Ivan il problema resta aperto perché la predicazione di Cristo è votata al fallimento. Tutto sembra dipendere dalla plausibilità o meno della leggenda dell’inquisitore, ma, stanno davvero così le cose? Ammettiamo pure che tutto il discorso di Ivan sul grande inquisitore sia privo di fondamento, ammettiamo che il sublime messaggio cristiano possa, addirittura possa facilmente, essere assimilato dagli uomini. Questo risolve davvero il problema implicito nel quesito di Ivan?
“Io non voglio che la madre del bambino sbranato dai cani possa perdonare l’assassino” aveva detto Ivan, “nessuno ha diritto di perdonare una cosa simile”. “Cristo ha questo diritto perché si è addossato i peccati di tutti” gli aveva replicato Alesa. Ma non potrebbe il bimbo sbranato dire a Cristo: “tu non deve farti carico del peccato del mio assassinio, non devi prendere su di te tale peccato, non devi perdonare chi mi ha fatto sbranare da una muta di cani affamati”? Sarebbe ingiusta, sbagliata, vendicativa una simile pretesa del bimbo? o questa pretesa è implicita in un concetto su cui è basata gran parte della nostra civiltà: quello di responsabilità personale? Certo, Cristo può farsi carico dei peccati di tutti e non commette nulla di ingiusto facendolo. Ma quando questo farsi carico degli altrui peccati diventa perdono per i criminali ecco che l’ingiustizia riemerge, o meglio, ecco che noi miseri esseri umani ci troviamo di fronte a qualcosa che non può non apparirci ingiusto. La sofferenza degli innocenti rende per Ivan non solo inesplicabile ma inaccettabile il disegno divino, ebbene, questa stessa sofferenza non rende altrettanto inesplicabile ed inaccettabile il perdono che Cristo concede ai peccatori dopo essersi fatto carico dei loro peccati? Il sangue delle vittime è davvero riscattato se per quel sangue paga un innocente e, pagando, perdona chi di quel sangue ha ancora lorde le mani? I milioni di morti nei lagher e nei gulag potrebbero trovar pace se delle loro sofferenze si facesse carico un innocente che, così facendo, assolvesse i loro aguzzini? O questo sublime sacrificio non rischierebbe di diventare un altro schiaffo in faccia a chi tante offese ha già dovuto subire?
 
Il concetto di responsabilità è basilare nella nostra (e non solo della nostra) civiltà, è basilare nella religione cristiana e lo è nella letteratura di Dostoevskij. Il grande scrittore polemizza spesso in maniera durissima con coloro che negano la responsabilità, che di tutto danno colpa alla società, all’educazione, alle cattive amicizie o ai disturbi mentali. Ne “i fratelli Karamazov” ci sono pagine di spassosa ironia in cui Dostoevskij riempie di ridicolo gli “spiriti illuminati” sempre pronti a tutto giustificare e tutto comprendere.
Il concetto di responsabilità è basilare, si diceva, nella religione cristiana. In effetti il Dio cristiano perdona chi si pente ma chiede l’espiazione dei peccati. E il pentimento cristiano non ha nulla a che vedere col pentitismo ed il perdonismo buonisti che ammorbano l’atmosfera, ad esempio, dell’Italia di oggi. Il pentimento cristiano non assomiglia in nulla al “vogliamoci tutti bene” oggi tanto di moda. Quel pentimento è tormento, dolore, richiesta di espiazione. Il pentimento non ci rende innocenti, al contrario, il concetto stesso di pentimento richiama il concetto di colpa e di peccato, né il pentimento vero si identifica con la domanda di clemenza: si pente davvero chi sa di meritare la punizione, chi accetta il perdono ma non lo pretende, si pente davvero, e fino in fondo, chi chiede di essere punito per il male che ha fatto. Niente buonismi faciloni, niente sottovalutazioni del peso della colpa e del peccato quindi; ma, se le cose stanno così, perché il dolore, il sangue, le “invendicate lacrime” degli innocenti? Perché il perdono per chi si pente? Forse che il pentimento annulla lacrime e sangue? Anche se Dio non si limita a perdonare ma punisce, anche se nel suo disegno c'è posto per una giustizia che escluda qualcuno dal perdono, non si realizza comunque, anche questa giustizia, attraverso la sofferenza, il sangue e le lacrime degli innocenti? La domanda di Ivan Karamazov continua a restare senza risposta, ed il dolore degli innocenti un sasso lanciato negli ingranaggi del disegno divino. E, che sasso! Un sasso che nel secolo scorso è diventato un macigno, una montagna, qualcosa di mostruoso che ci appare in grado di rovinare ogni disegno salvifico.
 
“Tutto è permesso”: così Ivan Karamazov risponde alla domanda che lui stesso ha posto. Il male nel mondo resta uno scandalo inaccettabile, il sublime messaggio di Cristo è al di là delle forze umane, quindi... tutto è permesso. Seguendo un proprio percorso Ivan Fedorovic Karamazov giunge alle stesse conclusioni dei grandi nichilisti: Dio è morto, tutto è permesso, viviamo al di là del bene e del male. E’ ben vero che il “tutto è permesso” non risolve alcun problema, non offre soluzione alcuna. Se tutto è permesso allora il dolore degli innocenti è inesorabilmente destinato a crescere, lo scandalo che tanto colpisce Ivan a diventare sempre più grande e mostruoso. Se tutto è permesso la libertà degenera in nichilismo, si trasforma in formidabile forza distruttiva ed autodistruttiva, diventa la base del totalitarismo. Al grande inquisitore tutto è permesso ed infatti egli tratta come oggetti gli esseri umani. Ma Ivan può replicare che tutto questo non gli interessa. Se il mondo è privo di valori ontologicamente fondati, se la morale è solo una umana convenzione perché angosciarsi se il nostro agire diventa fonte di sofferenza? Il dolore degli innocenti esiste quindi la morale è priva di fondamenti, quindi tutto è permesso, occorre prenderne atto, una volta per tutte!
Ma stanno davvero così le cose? Diamo pure per scontato che il dolore degli innocenti resti un mistero sul piano teorico e uno scandalo su quello etico, questo davvero può farci concludere che “tutto è permesso”? Se l’universo ci si presenta come non governato da principi etici, se lo stesso disegno divino ci appare sfigurato dal fatto incontestabile del male e dell’ingiustizia, possiamo davvero concludere che la ricerca del bene e della giustizia sia qualcosa di effimero e che si possa tranquillamente vivere "al di là del bene e del male"? Questa conclusione mi sembra francamente inaccettabile. Forse non riusciremo mai a comprendere quale sia il posto della morale nel mondo, molto probabilmente il rapporto fra il bene ed il male da un lato e la struttura dell’universo (per chi non crede) o il disegno divino (per chi crede) continuerà ad apparirci insieme tenebroso e scandaloso, ma di una cosa possiamo essere certi: il bene ed il male ci interessano, siamo, molto spesso, capaci di riconoscerli intuitivamente così come riusciamo a capire se una certa azione è giusta o ingiusta, conforme o meno ad idee e sentimenti di rispetto e benevolenza verso i nostri simili. Ivan parte in fondo da un sentimento di indignazione morale, si ribella contro un disegno divino che gli appare ingiusto ed immorale. “Se nel disegno divino c’è posto per il sangue e le lacrime dei bambini innocenti io rifiuto questo disegno” afferma, ma, questa sua affermazione non ha profonde motivazioni morali? Se davvero Ivan si comportasse in base al principio ”tutto è permesso” non dovrebbe indignarsi per le lacrime degli innocenti, dovrebbe disinteressarsi di queste lacrime, il bimbo sbranato dai cani non dovrebbe procurargli particolare repulsione, non dovrebbe suscitare in lui un sacrosanto sentimento morale come l’indignazione. Un bruto fa sbranare dai suoi cani un bimbo innocente? “Che importa? Devo affrettarmi, sono invitato a cena da amici, tutto è permesso!” Ed anche al termine del romanzo Ivan si dimostra assai poco coerente con il principio che professa. L’assassinio del padre lo sconvolge, il pensiero di essere stato in qualche modo complice dell’assassino lo porta alle soglie della follia. Per Ivan il “tutto è permesso” diventa sofferenza autodistruttiva perché in Ivan, malgrado tutto, esiste l’aspirazione al bene ed il rifiuto del male, perché nel suo fondo Ivan sa, tormentosamente sa, che non tutto è permesso.
 
La morale è iscritta nella struttura ontica dell’essere? E’ parte fondamentale del disegno divino? E’ un imperativo della nostra autonoma ragion pratica? Consiste in un insieme di proposizioni non ulteriormente analizzabili? Si fonda su un moderato ed universale senso di simpatia verso i nostri simili? Difficile decidere. Però la morale è componente essenziale della vita umana. L’uomo è l’unico animale capace di concepire il bene ed il male e questo semplice fatto un significato dovrà pure averlo, alla fine dei conti. Io penso che lo abbia e sia assai semplice: anche se non riusciamo a cogliere il senso del mondo e della presenza nel mondo del bene e del male, anche se il disegno divino può apparirci insieme misterioso e inaccettabile possiamo, anzi, dobbiamo, cercare, almeno cercare, di agire moralmente. Non è un fatto strano questo, in fondo. L’uomo è ignorante, non solo ignora molte più cose di quante ne conosca, ma ogni passo avanti della scienza, mentre aumenta le nostre conoscenze ci pone di fronte a nuovi problemi irrisolti, spesso a paradossi, contraddizioni, misteri. Questo però non ci impedisce di continuare a studiare né di utilizzare le nostre conoscenze, comprese quelle che ci pongono di fronte a problemi che ci appaiono insolubili. I paradossi di Zenone sullo spazio ed il movimento non hanno impedito all’uomo di muoversi ed esplorare lo spazio, terrestre e, in minima parte, anche extraterrestre. I misteri ed i paradossi della fisica quantistica non impediscono il progresso della scienza fisica. Il mistero del male nel mondo ci sgomenta ma non può né deve impedirci di operare per il bene e contro il male. Nei limiti ovviamente delle nostre possibilità e delle nostre debolezze di uomini.


Note

1) Fedor Dostoevskij: I fratelli Karamazov. Einaudi 1993 pag. 314 – 315.

2) Ibidem pag. 327

3) Ibidem pag. 327 - 328

4) Ibidem pag. 328 - 329

5) Ibidem pag 334

6) Ibidem pag. 340

7) Ibidem pag 340

8) Ibidem pag. 339 (sottolineatura di D.)

9) Ibidem pag. 340

10) Ibidem pag. 341

11) Ibidem pag 343

12) Ibidem pag. 345

13) Ibidem pag. 350

14) Ibidem pag. 350 - 351

15) George Orwell: 1984. Oscar Mondadori 2007 pag. 270 – 271.












1 commento:

  1. Complimenti per la splendida analisi (mi sarà anche utile per un esame di letteratura che sto preparando). Seguirò più spesso il suo blog!

    RispondiElimina