mercoledì 30 ottobre 2013

SUL RADICALISMO ANIMALISTA




Negli ultimi decenni si è sempre più diffusa a livello di massa l’immagine di una natura in cui ogni contrasto, ogni disarmonia sono definitivamente banditi. Un amore generalizzato unisce tutti gli esseri viventi e questi si integrano armoniosamente con il mondo inorganico. Tutto ciò che, volenti o nolenti, non quadra con questa visione da cartone animato del mondo naturale viene giustificato con argomentazioni tanto sofistiche quanto affascinanti. Il leone uccide lo gnu, è vero, ma così facendo il grande predatore contribuisce al superiore equilibrio del tutto. Uccidendo il singolo gnu il leone contribuisce alla salvaguardia della specie degli gnu (e di tutte le altre) e lo stesso si può dire per lo squalo, la tigre, il pitone e così via. E' evidente il profondo irrealismo di una simile concezione. L’idea secondo cui la lotta a morte fra animali miri alla conservazione di tutte le specie è in totale antitesi con le conclusioni di Darwin (cui molti ambientalisti si rifanno) che parla esplicitamente della natura come terreno di lotta per la sopravvivenza del più adatto, sia esso singolo o specie, ed anche con quanto  ci insegna la storia naturale. Ma, anche a prescindere da queste considerazioni, quello di cui non si rendono conto i mistici dell’armonia naturale è tanto macroscopico che la loro cecità appare sorprendente. Un sistema in cui la vita del gruppo può essere assicurata solo dalla morte di alcuni singoli non è affatto armonico, non è per niente finalizzato al bene di tutti. E’ per definizione un sistema lacerato, un sistema che si basa sulla sofferenza e sulla morte di alcuni come condizione per l’incerta sopravvivenza degli altri. Non è assolutamente mia intenzione giudicare moralmente la natura, questa sarebbe una autentica idiozia. E' semplicemente assurdo giudicare moralmente il comportamento di tigri o squali, mucche o gatti. La natura non umana si colloca in una dimensione in cui concetti di bene e di male non hanno rilevanza alcuna. Ciò non significa che non la si possa amare, ed ammirare, e rispettare, al contrario. Si possono amare, ammirare, rispettare un cane o un gatto, ed anche un abete o un fiume, o una montagna. Significa però che non è possibile conferire a montagne, abeti o squali la dignità di soggetti morali. Questo è il punto davvero centrale su cui intendo soffermarmi.

Gli animalisti radicali indirizzano i loro strali polemici soprattutto contro un nemico: lo specismo. Di cosa si tratta? Ecco la definizione che ne da Wikipedia:
Specismo è un termine coniato da Richard Ryder per descrivere la diffusa convinzione antropocentrica che gli esseri umani godano di uno status morale superiore - e debbano quindi godere di maggiori diritti - rispetto agli altri animali. L'intento di Ryder era quello di porre in evidenza le analogie fra lo specismo e il razzismo, dimostrando che le motivazioni filosofiche per condannare queste due posizioni sono analoghe.” (1)  L’uomo non ha uno status etico diverso da quello degli altri animali, non merita più rispetto di quello che meritano un cane, un gatto o un topo. Chi teorizza il diverso status etico che spetterebbe agli esseri umani rispetto a quello che dovrebbe spettare ai topi è un razzista. Nulla di serio divide il razzismo di chi afferma la superiorità dei bianchi rispetto ai neri dal razzismo di chi teorizza la superiorità dell’uomo rispetto a topi, conigli o sardine:
“L'antispecismo è il movimento filosofico, politico e culturale che si oppone allo specismo. Come l'antirazzismo rifiuta la discriminazione arbitraria basata sulla diversità razziale umana, l'antispecismo respinge quella di specie e sostiene che la sola appartenenza biologica ad una specie diversa da quella umana non giustifica moralmente o eticamente il diritto di disporre della vita, della libertà e del lavoro di un essere senziente.” (2)
Gli aderenti al movimento per la liberazione animale sono piuttosto coerenti. Non affermano di difendere gli animali perché questo risulterebbe utile per l’uomo. Orsi e squali vanno difesi non perché all’uomo piace vivere in un mondo popolato anche da orsi e squali; allo stesso modo gli esperimenti su animali vanno rifiutati non perché poco utili per la ricerca ma perché ledono i diritti degli animali e le diete a base di carne vanno respinte non perché poco salubri per l’uomo ma per la ragione ben più fondamentale che non è possibile cibarsi di un essere che è soggetto morale. David Oliver in un saggio diffuso in rete sui rapporti fra liberazione animale e protezione animale esprime molto bene questi concetti. Polemizzando contro i militanti della protezione animale Olivier va al fondo della questione: non si tratta di difendere gli animali per favorire l’uomo, li si deve liberare perché essi stessi sono degni di tutela morale e rispetto. “Anziché rimettere in discussione il principio dell'utilizzo di animali per un qualsiasi fine umano, la protezione animale insiste sull'«inutilità» degli esperimenti – inutilità per gli umani, s'intende.” (3) Olivier ha il grosso pregio di non barare. Non afferma che gli esperimenti su animali sono scientificamente infondati, dice chiaramente che quegli esperimenti sono comunque da vietare. Sperimentare nuovi medicinali su cavie umane sarebbe scientificamente produttivo ma è eticamente inaccettabile quindi va proibito. La stessa cosa può dirsi per gli esperimenti sui topi. Anzi, gli esperimenti sui topi sono eticamente ancora più condannabili di quelli sugli uomini: le medicine, in larghissima misura,  servono agli uomini, quindi, se proprio le si deve testare, lo si faccia sugli umani, logico no?  E la critica non si ferma agli esperimenti su animali, mette in luce gli equivoci di fondo della protezione animale: la protezione animale è un po’ l’avvocato degli animali, afferma Olivier, ma “L'avvocato – il difensore – di un ladro deve poter difendere il suo cliente, cioè chiedere che non venga condannato, o che sia condannato di meno, senza contestare le leggi che condannano i ladri. La protezione animale difende gli animali, all'interno di un sistema dato. In difesa dei cani, dirà che tengono compagnia agli anziani, in difesa dei gatti, che ammazzano i topi, in difesa dei topi, che il loro uso negli esperimenti non è affidabile. In difesa delle anatre, che il fegato d'oca è tossico, in difesa delle lepri, che la caccia uccide gli umani. Sull'avvocato di un ladro pesa sempre, malgrado tutto, la minaccia di essere scambiato per l'avvocato dei ladri, per un loro amico, per un sostenitore del furto. È vitale, per la sua difesa, che il giudice non abbia l'impressione, se libera quel  ladro, di liberare tutti i ladri. Allo stesso modo, la difesa animale avverte come vitale la necessità di non rimettere in discussione lo specismo.” (4) Non si può non ammirare tanta coerenza, anche se si tratta della lucida, sinistra coerenza della follia.

Ma su quale principio si basa una così rigida difesa della vita animale? Forse sulla difesa della vita in generale? Su una concezione sacra della vita in quanto tale che va difesa sempre e comunque, quale che sia il genere o la specie dell’essere vivente? O su una concezione sacra della natura, concezione secondo cui tutta la natura è ugualmente sacra e non è lecito fare alcuna distinzione al suo interno? Su nessuna di queste. In natura la vita si conserva tramite la morte, il rispetto generalizzato di ogni forma di vita, ed ancor di più di ogni ente, condurrebbe, piaccia o non piaccia la cosa, alla scomparsa della vita; anche i più radicali fra gli animalisti ed i mistici dell'ecologia questo lo devono riconoscere. Gli oltranzisti di “liberazione animale” introducono quindi, come tutti, divisioni nella natura, non considerano tutta egualmente sacra la natura e non considerano neppure tutte egualmente sacre le forme di vita. Il loro principio guida è quello che occorre rispettare non la vita in generale e meno che mai la natura non vivente, ma la vita senziente. Gli animali possono soffrire e questa capacità di soffrire fa di loro dei soggetti morali al pari degli esseri umani. Gli animali condividono con l’uomo la sensibilità, la capacità di provare dolore e questo di fatto li equipara agli esseri umani. Torniamo a cedere la parola a David Olivier che ha l’indubbio pregio di essere molto chiaro:
“personalmente non rispetto la vita delle piante. Non perché le disprezzi, ma perché non penso che siano sensibili, ovvero che percepiscano ciò che succede loro. Se esse non provano né piacere nel vivere, né sofferenza nell'essere tagliate o sradicate, né dispiacere di dover morire, non trovo ragioni per non farne l'uso che mi conviene, e in particolare per non mangiarle.” (5) In base a queste considerazioni il militante animalista spiega il paradosso consistente nel fatto che chi difende la vita di topi e anguille non ha nulla da dire contro l’aborto che consiste nell’eliminazione di una vita umana, sua pure ancora in parte potenziale: “ è praticamente certo che l'embrione umano non è sensibile almeno durante le prime 18 settimane di gravidanza (su un totale di 38 settimane) per via dell'assenza prima e dell'immaturità poi del suo sistema nervoso. Il neonato invece è sensibile; la sensibilità appare dunque ad un certo momento nel corso della seconda metà della gravidanza. Prima, l'essere in questione, che non prova né piacere né dolore, né timori né speranze, non mi sembra moralmente più significativo di un filo d'erba o di un sasso.” (6, sottolineatura mia). Per 18 settimane quello che sarà (e in parte già è) un essere umano merita minor tutela di un filo d’erba o di un sasso, c’è da rabbrividire. E ancora di più fanno rabbrividire le posizioni del padre fondatore dell’animalismo radicale: Peter Singer, filosofo australiano esponente di rilievo della nuova etica tollerante e postmoderna, fondata sul pensiero debole. “Un bambino di una settimana non è un essere razionale cosciente e vi sono molti animali non umani la cui razionalità, autocoscienza, consapevolezza , capacità di sentire e così via è superiore a quella di un bambino umano di una settimana o anche di un anno. Se il feto non ha la stessa pretesa alla vita di una persona sembra che non l’abbia neanche il neonato, e che la vita di un neonato abbia meno valore della vita di un maiale, un cane o uno scimpanzé” (7 sott.mia). Questo si che è parlare chiaro! La vita umana non vale in quanto tale, valgono certe caratteristiche della vita (vita tout court), fra cui è basilare la capacità di provare dolore. Ora, è chiaro che in certi animali queste caratteristiche sono più sviluppate che in un neonato, quindi la loro vita vale più di quella di un neonato, non siamo mica razzisti, diamine! Sulla base di queste, lucidissime, argomentazioni Singer avanza tranquillamente la proposta di legalizzare l’infanticidio quando il neonato presenti gravi malformazioni, ad esempio, sia affetto da sindrome di Down con deficit intellettivi (ma perché solo in quei casi?), e a chi definisce mostruose simili proposte replica tranquillamente: “La nostra attuale protezione assoluta della vita degli infanti è un atteggiamento tipicamente ebraico cristiano (…) L’infanticidio è stato praticato in società che vanno geograficamente da Thaiti alla Groenlandia e culturalmente dagli aborigeni australiani nomadi, alle sofisticate civiltà urbane dell’antica Grecia o della Cina dei Mandarini” (7).  Se è per questo la storia dell’umanità ha conosciuto anche lo schiavismo, i genocidi, la tortura, i roghi per i liberi pensatori, chi più ne ha più ne metta. In base al relativismo etico culturale di Singer dovremmo accettare tutto, ma proprio tutto. Né il filosofo australiano amico di gatti e topi (ma non dei bambini) si preoccupa degli argomenti di chi gli ricorda che un feto (e a maggior ragione un neonato) è una persona in potenza. “Un X potenziale” afferma Singer “non ha tutti i diritti di X. Il principe Carlo è un potenziale re d’Inghilterra ma non ha i diritti di un re. Perché mai una persona solo potenziale dovrebbe avere i diritti di una persona?” (8).  E’ possibile ovviamente difendere l’aborto, almeno in certi casi lo trovo personalmente il male minore. Ma gli argomenti di Singer sono assolutamente risibili. Il principe Carlo non ha i diritti del re ma ha il diritto di prepararsi a diventare Re, un neonato non ha i diritti di un adulto (chi lo ha mai sostenuto?) ma ha il diritto di poter diventare adulto. Con Singer l’animalismo etico postmoderno giunge al sua apice. Con grande coerenza il filosofo di Melbourne trae dalle premesse tutte le conseguenze, senza pudori né timori. Peccato che le sue proposte non siano troppo nuove, in fondo. A conclusioni abbastanza simili era arrivato, un bel po’ di anni fa, un ometto piuttosto isterico, con un ciuffo da capelli lisci sulla fronte ed un bel paio di baffetti.

Esaminiamo ora famoso principio di sensibilità, quello secondo cui la capacità di provare dolore darebbe a tutti gli esseri sensibili la dignità di enti morali. Perché questa capacità dovrebbe dare a chi la possiede tale la dignità? Dovrebbe darla perché decidiamo, noi umani decidiamo, che chi ha la sensibilità deve essere, ipso facto, soggetto di diritto? Certo, si può decidere una cosa simile, ma si possono decidere, con pari e migliori ragioni, anche cose diverse, ad esempio che il semplice fatto di vivere o anche solo di esistere è sufficiente per essere considerati enti morali. In fondo la vita vegetativa viene prima di quella senziente e l’esistere è prioritario rispetto al vivere: per poter provare dolore devo esistere e devo vivere. Gli animalisti come i non animalisti fanno delle discriminazioni nella natura, ma ogni discriminazione deve affrontare un problema fondamentale: dove passa il confine fra gli enti che si discriminano? Perché il confine tra chi è e chi non è soggetto morale deve collocarsi al livello degli enti senzienti? Perché non collocarlo al livello degli enti semplicemente viventi o a quello degli enti tout court? Se la facoltà di provare dolore dà ad un topo la dignità di soggetto morale perché la facoltà di crescere non dovrebbe dare ad un abete una pari dignità? E perché il semplice fatto di esserci, di esistere da migliaia di anni, non dovrebbe conferire la stessa dignità alla vetta innevata del Monte Bianco? Se è razzista privilegiare la vita intelligente rispetto alla vita semplicemente senziente perché non dovrebbe essere razzista privilegiare la vita senziente nei confronti della vita vegetale, o privilegiare ciò che è vivo rispetto a ciò che non lo è? Molti animalisti chiedono polemicamente perché si debba attribuire tanto valore all’intelligenza, la domanda è legittima, ma con altrettanta legittimità si può chiedere perché mai si debba attribuire tanto valore alla sensibilità. C’è quasi da sospettare che sotto sotto i super amici degli animali siano un po’ antropocentrici: privilegiano orsi, gatti e topi perché questi condividono con l’uomo qualcosa di importante, perché li sentono più vicini, si sentono, da uomini, attratti da loro. Questa però, se valgono le categorie dell’animalismo estremista, è una forma di razzismo.

In quanto tale il principio di sensibilità non giustifica un bel niente. Si può stabilire che questo principio deve essere decisivo ma si può anche stabilire il contrario. Ciò che rende per alcuni plausibile il principio di sensibilità non è il principio in quanto tale, è la ripugnanza del dolore. Si vede un agnello che sanguina e soffre, un cervo colpito dal proiettile di un cacciatore che stramazza al suolo, si è colpiti dallo spettacolo della sofferenza e si stabilisce che questa deve essere bandita. Non si deve far soffrire nessuno, neppure un topo perché la sofferenza è ripugnante. Se le cose stanno così però il principio di sensibilità è privo di qualsiasi universalità: non vale nei confronti di chi non prova sentimenti di ripugnanza verso il dolore, inoltre può al massimo giustificare la richiesta di non infliggere troppe sofferenze agli animali, no di non ucciderli. Ma il punto davvero centrale è un altro. Se davvero la capacità di provar dolore dovesse costituire il discrimine fra chi è degno di rispetto morale e chi no le conseguenze sarebbero devastanti e paradossali. Se è la capacità di provare dolore quella che dà ad un ente la dignità morale la massima immoralità che si può commettere è quella di arrecare dolore a qualcuno. Se valesse il principio di sensibilità la norma morale fondamentale non dovrebbe essere: “non uccidere” ma : “non provocare dolore”. Uccidere un bambino nel sonno, senza causargli dolore alcuno dovrebbe essere un atto non contrario alla morale, (forse Singer sarebbe d’accordo..) un killer molto abile che ti uccidesse di sorpresa in un centesimo di secondo con un colpo di pistola alla nuca non farebbe nulla di riprovevole. I sostenitori del principio di sensibilità si trovano in un bel dilemma. O sostengono tale principio indipendentemente della repulsione che in quanto uomini proviamo verso il dolore, ed allora non possono giustificarlo in alcun modo, possono solo affermarlo, ma la loro affermazione non ha più valore che un pugno sbattuto sul tavolo. Oppure possono difendere tale principio basandosi sulla ripugnanza del dolore ed allora devono ammettere che ogni crimine che non implichi dolore per le vittime non è un crimine. Se una bomba atomica distrugge istantaneamente la vita di centomila persone, le uccide tutte e le uccide senza farle soffrire, (cosa che le atomiche possono fare) allora sganciare quella bomba non deve essere considerato moralmente sbagliato. Viene quasi da pensare che gli animalisti si rifacciano al principio di sensibilità perché si rendono conto che estendere il diritto al rispetto e la personalità giuridica a tutta indistintamente la natura è impossibile e dà vita a paradossi troppo grossi anche per loro. Se analizzata a fondo tutta la loro concezione ha però conseguenze altrettanto devastanti e paradossali.

Il dolore è presente in natura, è quanto di più naturale possa concepirsi. In natura la vita si mantiene e si trasmette tramite la morte e in natura la morte è sempre o quasi congiunta al dolore, spesso a molto dolore. Si tratta di dati di fatto, dati di fatto che non è possibile esorcizzare con strilli e condanne morali. Gli animalisti di “liberazione animale” si ribellano a questi dati di fatto e chiedono che il dolore scompaia dal mondo o quanto meno che si contragga, che venga ridimensionato. E a chi chiedono di operare affinché avvenga questo ridimensionamento del dolore? Lo chiedono all’uomo.
All’uomo piace mangiare carne o indossare una calda pelliccia, o fare una corsa a cavallo, addirittura l’uomo prova piacere a cacciare o a pascare. E’ nella natura dell’uomo tutto questo, esattamente come è nella natura del leone abbattere la gazzella o del toro diventare aggressivo di fronte allo sventolare di un drappo. Ma per gli animalisti l’uomo deve reprimere queste componenti della sua natura, egli è intelligente, sa distinguere il bene dal male può farlo, deve farlo! Deve farlo in quanto essere intelligente, morale, deve farlo in quanto uomo! All’uomo e solo all’uomo si chiede, a volte giustamente, di reprimere certi istinti, di correggere la propria natura, non avrebbe senso alcuno a chiederlo a uno squalo, ad un gatto e neppure agli intelligenti delfini e scimpanzè, all’uomo invece si, chiederlo a lui ha senso. Eppure questi stessi animalisti negano che l’uomo abbia uno status diverso da quello di tutti gli altri animali senzienti; nel momento stesso in cui devono riconoscere che non tutto nell’uomo è semplice natura o quanto meno che nella natura umana esiste, per quel che possiamo sapere, qualcosa che non esiste in nessuna altro ente naturale, proprio nel momento in cui ammettono tutto questo, gli animalisti considerano “razzista” chiunque sottolinei la particolarità e la alterità dell’uomo nei confronti degli altri animali, teorizzano che nulla di fondamentale può farci preferire la vita di un essere umano a quella di un topo, considerano la vita di un’anguilla più importante di quella di un feto umano. Dando prova di una dissociazione schizofrenica davvero notevole i liberatori degli animali esaltano e nel contempo degradano l’uomo.

Ma è in qualche modo possibile che l’uomo segua le raccomandazioni degli animalisti? Quali sarebbero le conseguenze di una loro generalizzata messa in pratica? Che l’uomo possa correggere alcuni aspetti della propria natura è vero, che possa instaurare rapporti (quasi) non violenti con alcuni animali e meno violenti col mondo animale nel suo complesso lo è altrettanto. Che molta violenza umana, diretta sia verso altri esseri umani che contro la natura non umana, sia gratuita e vada ridotta è ancora vero. Con tutto ciò però il problema di fondo resta irrisolto. Forse l'uomo non è solo natura ma comunque è e resta anche un essere naturale, spinto ad agire da istinti, esigenze, bisogni naturali. Se l’uomo fosse una sorta di angelo o di semidio potrebbe assumere nei confronti del resto della natura atteggiamenti del tutto esenti da ogni forma di violenza, ma l’uomo è solo uomo, è nella natura, non sopra o a fianco di essa e precisamente in quanto essere naturale, non potrà mai eliminare del tutto la violenza nei confronti degli altri esseri naturali. Fra uomini, gatti e topi non esisterà mai un rapporto simile a quello che esiste, o può, o deve esistere, fra soggetti morali.
Ammettiamo pure che gli esseri umani possano rinunciare senza troppi inconvenienti a diete carnivore, a bistecche di manzo e a pesce, a latte, uova e formaggio ed ancora a pellicce, seta e lana, scarpe, cinture e borse di cuoio, cera, miele, medicine testate su animali e tante altre inutili cosette. Il problema non sarebbe affatto risolto, caso mai aggravato. Lo sviluppo dell’agricoltura, come quello della urbanizzazione, tolgono spazi agli animali e ne uccidono molti più che non la tanto aborrita caccia; la costruzione di una fabbrica di lana sintetica, o di un villino eco compatibile, distruggono una quantità enorme di lombrichi, fanno a pezzi tane di talpe, lasciano senza cibo uccelli, lepri e scoiattoli, lo stesso accade per la gran maggioranza delle opere dell'uomo. L'habitat dell'uomo toglie spazio vitale agli altri animali, lo stesso amore umano per certi animali si trasforma in violenza verso altri animali, quelli che a torto o a ragione non sono oggetto di pari affetto da parte nostra, basta entrare in un negozio in cui si vendono articoli per animali per rendersene conto.
Non è il caso di moltiplicare gli esempi: l’unico modo che l’uomo avrebbe per trattare coerentemente da esseri morali gli altri animali sarebbe quello di rinunciare alla civiltà, recedere di secoli, ricostituire una situazione sociale e culturale in cui il solo parlare di rapporti meno violenti con gli animali farebbe indignare o ridere. Le proposte animaliste radicali sono folli perché se attuate condurrebbero a rischio di estinzione l’unica specie a cui ha senso parlare di obbligazione morale ed anche di benevolenza verso le altre specie.

Non si possono instaurare rapporti fondati sull'etica con esseri per i quali l'etica non ha senso alcuno. Rispettare moralmente, ad esempio, un orso, e conferire allo stesso la dignità di soggetto giuridico, vuol dire rispettarlo per quello che è, rispettarlo in quanto orso. Questo fatto però ha molte conseguenze. Se, per fare solo un esempio, l’orso ci aggredisse potremmo ucciderlo in nome della legittima difesa? No, ovviamente. L’istinto ad aggredirci è parte della natura dell’orso che noi dobbiamo rispettare dal momento stesso in cui abbiamo elevato l’orso al rango di soggetto morale e di diritto. E’ possibile pretendere che un essere morale, capace di distinguere il bene dal male, un uomo insomma, ci rispetti, è giusto difendersi da lui e punirlo se non lo fa. Nei confronti dei nostri simili hanno senso i concetti di giustizia, punizione e legittima difesa. E’ insensato invece punire un essere che non è capace di distinguere il bene dal male, o affermare che ci difendiamo legittimamente da lui. Se l'orso è soggetto morale, è lui ad aggredirici legittimamente, spinto dalla sua natura che noi dobbiamo rispettare. In realtà con un essere simile si possono avere rapporti basati sulla forza, sulla ricerca dell'utile o anche sulla benevolenza, ma non si potranno mai avere rapporti basati sui concetti di diritto, giustizia, legittimità, legittima difesa.
Qualcuno potrebbe obiettare che situazioni simili si verificano anche con gli esseri umani, ad esempio con i bambini o con persone incapaci di intendere e di volere che non possono essere incolpate per le loro azioni, ma sono tuttavia titolari di diritti. L'obiezione però si basa su un equivoco. Un bambino diventerà capace di intendere il bene ed il male, il disabile potrebbe diventarlo, o avrebbe potuto esserlo. Entrambi fanno parte di una specie che ha come sua caratteristica essenziale la capacità di discernere il bene dal male, per questo sono titolari di diritti. E sono indirettamente sottoposti a doveri. Se loro non possono essere incolpati per le loro azioni sbagliate altri possono esserlo per loro: i genitori, un tutore. Ma ha senso una simile situazione per un leone o un orso? Un orso od un leone non sono degli uomini menomati, la mancanza di capacità di intendere il bene ed il male non è una carenza della loro natura ma una sua caratteristica essenziale. Chi dovrebbe essere responsabile per un leone od un orso? Un uomo forse? Questo vorrebbe dire che orso e leone dovrebbero essere addomesticati, quindi privati della loro libertà, quindi menomati nei loro presunti diritti. Comunque si rigiri la cosa l'equiparazione etica fra uomo ed animali non umani resta una ridicola chimera.

Il vero confine nella natura passa fra chi è e chi non è capace di giudizio morale, fra chi sa e chi non sa distinguere il bene dal male e quindi può essere definito “buono” o “cattivo”, “innocente” o “colpevole”
. L’uomo merita uno status morale particolare non perché più buono delle bestie ma perché può essere considerato cattivo se si comporta da bestia. Ha senso considerare l’uomo degno di rispetto morale perché l’uomo può legittimamente essere punito se rifiuta il rispetto ai suoi simili. Anche se spesso si comporta peggio delle belve più sanguinarie l’uomo merita uno status diverso da queste perché definendo lui “una belva” lo si svalorizza. La possibilità di agire moralmente crea una frattura nella natura perché forse questa possibilità non può essere interamente spiegata dalle leggi della natura. L’uomo forse non è solo natura, appunto per questo forse è libero, quindi responsabile, quanto meno va considerato tale. Nessun gatto invece lo è. E’ tutta qui la differenza fra uomini e gatti.






Note

1) Wikipedia: Specismo. Rinvenibile in rete alla voce: specismo

2) Ibidem

3) David Oliver: Protezione animale e liberazione animale. Rinvenibile in rete digitando: “movimento per la liberazione animale” e poi “protezione animale e liberazione animale”

4) Ibidem

5) David Olivier: Aborto e liberazione animale. Rinvenibile in rete digitando “liberazione animale” e poi “aborto e liberazione animale”

6) Ibidem.

7) P: Singer: Etica pratica. Citato in: Giovanni Fornero: Bioetica cattolica e bioetica laica. Bruno Mondadori 2009 pag. 109

8) Ibidem pag. 109 - 110





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